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COMUNCIATO STAMPA 2007

Lorenzo Tiezzi lt@lorenzotiezzi.it +393393433962

 

Ducoli: "Brumantica" (Double Stroke Records - distribuzione: Family Affair)

 

Ducoli parla (e canta). Tavolazzi, Bandini, Bosso e Galati improvvisano. E' "Brumantica', disco 'territoriale', sospeso tra nebbie della Val Camonica,  jazz italiano e folk rock americano

Ducoli è un cantautore atipico. Ad esempio, è musicista, ma come capita raramente agli artisti italiani, è anche grande ascoltatore di musica e la sua collezione di folk rock americano arriva a 3.000 titoli. Per questo,  tra i suoi riferimenti cita Neil Young e Hank Williams e solo dopo Conte e De Andrè.

 

Per capire come mai il gotha del jazz italiano sia rimasto affascinatio dalle canzoni che ha scritto col chitarrista Mauro Stivala, non c'è neppure bisogno di inserire il cd nel lettore. Basta aprire la confezione e leggere la non-presentazione che l'artista ha voluto scrivere al posto delle consuete (e noiose) note di copertina, al posto delle liriche dei brani, liriche che invece si è 'costretti' a far entrare in testa ascolto dopo ascolto.  Ecco cosa scrive, ad esempio, di "Tutta colpa sua":

 

"Gli alberi sono città. Città e capitali. Sono infiniti circuiti di razze, di piazze, di strade, stazioni, binari. Di attese infinite di noi pendolari. Tu puoi tenere il giardino. Tieniti il mio davanzale. Tieni la mia collezione di scatole vuote. La piccola scala che apre la nostra finestra sul tetto. Ti lascio il camino. Ti lascio la vasca dei miei pesci rossi. Ti lascio la gabbia del mio canarino. Prenditi tutta la casa. Prenditi tutte le cose. Adesso pago l'affitto agli gnomi. Adesso che vivo e divido lo spazio e la mia collezione con altri abitanti (...)".

 

"Brumantica", è stato arrangiato dal pianista Alessandro Galati e suonato tra gli altri da Ellade Bandini (batteria), Fabrizio Bosso (tromba), Ares Tavolazzi (basso), ossia da alcuni dei più importanti jazzisti italiani. Un disco importante, a metà tra cantautorato e jazz, tra sperimentazione e piacere d'ascolto.

 

“Brumantica”: tra boschi, fiumi e assoli

 

"Brumantica" è un disco 'territoriale', come dice Ducoli, ossia precisamente collocato nello spazio (e assai poco nel tempo, probabilmente). Il dove è il nord, il fiume, la nebbia, anzi la bruma, la luce che d'inverno si abbassa subito e lascia spazio a sere che sfociano in notti i cui protagonisti non siamo noi, ma i tanti animali che abitano la radura e la foresta. La Brumantica, ovviamente sarebbe la scienza che si occupa della nebbia del fiume della Val Camonica, uno spazio mentale in cui perdersi diventa piacevolissimo.

 

"Brumantica" è un disco intimo, grazie  all'arrangiamento per 'quartetto jazz' più voce solista. Ma, ecco un'altra caratteristica originale, non è un disco triste. “Di cantanti che si piangono addosso è pieno il mondo” dice Ducoli. E se non bastasse, la nebbia è attraversata dal groove e dallo swing della musica. La title track d'apertura ha un ritmo travolgente e un giro di basso che mette voglia di ballare. "Un piede nella fossa, quell'altro sulla vanga" è altrettanto movimentata, ma l’apice dello swing arriva con "Tutta colpa sua", brano che Ducoli 'canta'  in modo più ortodosso del solito. Ma lo fa attraverso un megafono, per cui l'effetto ‘fuori – tempo’ è garantito. Il disco si chiude "Maddaluna", struggente ballata suonata a base di hammond e tamburi e con una non-cover de "La canzone di Marinella" di Fabrizio De Andrè. Ducoli cita un verso della canzone, poi il gruppo improvvisa sulla melodia del brano. Il risultato è struggente, ma anche in questo caso, la malinconia non resta sospesa, esplode e si espande.

 

Riassumendo, "Brumantica" può piacere agli appassionati di jazz ma anche a chi ama solo i cantautori. La forma canzone, nel disco, è sempre rispettata e le liriche di Ducoli restano protagoniste assolute. Ma lo sono insieme all'improvvisazione, presente sempre e in ogni brano, insieme a una ricchezza sonora non comune. E' il suono del produttore Paolo Filippi, del  suo Cavò Studio (Bg) www.cavostudio.com, lo spazio in cui la label Double Stroke Records sta  confezionando piccoli e grandi capolavori, soprattutto in ambito jazz.

 

CHI E' DUCOLI

35enne o giù di lì, Ducoli arriva a "Brumantica", dopo un percorso musicale lungo e variegato.  Ad esempio, ancora oggi non interrompe le sue 'scorribande rock' con My Uncle the Dog e Spanish Johnny. Mentre con "Taverne, stamberghe, caverne" (2003), cd della sua "Banda del Ducoli" è stato finalista al Premio Recanati (2004) e al Festival di Mantova. Ancora più recentemente, con "Degeneration beat", omaggio alla "prosa spontanea” e a Jack Kerouac realizzato con i Brother K e Mark Murphy, è stato, ancora, finalista al Premio Città di Recanati /edizione 2006). Ducoli per professione conosce più alberi e animali del bosco che le 'tendenze metropolitane'. E' laureato in scienze forestali e 'Istruttore Direttivo Tecnico' del Parco dell'Adamello, ossia passa più tempo all'aperto che tra quattro mura.

 

I MUSICISTI COINVOLTI NEL PROGETTO

 

ALESSANDRO GALATI (piano e arrangiamenti) www.alessandrogalati.com

Nato a Firenze nel 1966, si dedica agli studi classici e contemporaneamente al jazz col maestro Bruno Tommaso. Dopo essersi esibito in numerosi club e festival in tutto il mondo, Galati inizia a pubblicare album con regolarità. Ad esempio, nel 1995 pubblica Traction Avant, nel 1997 Jason Salad, mentre nel 1999 esce Europhilia (il seguito del disco fu poi commissionato dal comune di Sesto Fiorentino e dedicato all’European United Nations). Sin dal 1988, Galati insegna piano e jazz combo all’accademia musicale di Firenze e al Centro attività Musicali. Galati ha poi collaborato con infiniti altri jazzisti, tra cui citiamo almeno Steve Lacy, Kenny Wheeler, Lee Konitz, e Bob Sheppard.

 

ELLADE BANDINI (batteria)

… Tanto creativo nel generare nuove idee nello spettacolo, quanto robusto nel portare il groove. Ma lui il groove lo ha portato nei dischi più famosi della musica italiana, da De André a Mina, passando per più di quattrocento celebri incisioni. Ellade suona il pop con una grande personalità, ma è anche un jazzista vecchia maniera, uno di quelli che danno del tu al piatto e che sanno far suonare le spazzole anche su un pezzo di ferro… Ellade Bandini nasce a Ferrara il 17/07/46. All’età di 4 anni, come regalo di Natale, riceve una piccola batteria giocattolo, dalla quale viene sedotto in modo totale e definitivo. A 15 anni prende alcune sporadiche lezioni presso il  Maestro Roul Ferretti, mentre a 16 già in pedana guardando il batterista Giorgio Zanella cerca di assimilare i principali trucchi del mestiere. A 17 anni inizia con le orchestre professioniste (Ugo Orsatti, Janos D’Este) nelle sale da ballo e night club di tutta Italia, ricevendo da questo lavoro, da lui ritenuto da sempre la migliore palestra per un musicista, benefici inesauribili suonando dalle nove di sera, a volte, fino alle sei del mattino senza pause! Nel '65 con alcuni amici, tra i quali Ares Tavolazzi al basso con il quale già suonava con l’orchestra di Ugo Orsatti, forma il complesso “The Avengers” che diventerà poi il gruppo personale di Carmen Villani. Nel '68 il caso lo porterà ad incontrare Vince Tempera, dando inizio, grazie a lui, ad un lungo lavoro in sala di registrazione che lo vede fino ad oggi presente in oltre 350 L.P. Tra gli altri ha suonato con Francesco Guccini, Branduardi, Mina, Battiato, Conte, Ray Bryant, Lee Konitz, Phil Wood, Marc Ribot, Franco D’Andrea.

 

ARES TAVOLAZZI (contrabbasso)

Ares Tavolazzi è un contrabbassista jazz italiano. Studia violoncello e contrabbasso al Conservatorio di Ferrara. Nel 1969 inizia a lavorare come sessionman nelle sale di registrazione milanesi incidendo dischi di musica pop con artisti diversi quali: Paolo Conte, Francesco Guccini, Mina, Eugenio Finardi, Lucio Battisti ed altri. Dal 1973 al 1983 fa parte del gruppo storico d'avanguardia AREA insieme a Demetrio Stratos, Patrizio Fariselli e Giulio Capiozzo, registrando con il gruppo oltre 10 LP e partecipando a numerose manifestazioni anche internazionali. Nel medesimo periodo si avvicina alla musica jazz, frequentando l'ambiente jazzistico di New York. Nel 1982 partecipa al tour italiano dell'orchestra di Gil Evans, con Steve Lacy e Pietro Tonolo. Per tre anni consecutivi (dal 1984 al 1986) è primo in una speciale classifica dei bassisti italiani indetta da Guitar Club. Nel 1987 vince il premio A. Willaert come migliore musicista dell'anno. Dal 1990 ad oggi collabora in concerti live e registrazioni discografiche con numerosi musicisti italiani e stranieri, tra i quali: Sal Nistico, Max Roach, Lee Konitz, Phil Woods, Mau Mau, Massimo Urbani, Enrico Rava, Stefano Bollani, Franco D'Andrea, Dado Moroni, Ermanno Maria Signorelli, Enrico Pierannunzi, Roberto Gatto, Danilo Rea, Mike Melillo, Ray Mantilla, Carlo Atti, Paolo Fresu, Tino Tracanna, Gianni Basso, Gianluca Petrella e molti altri. Collabora negli anni a diversi lavori teatrali componendo e suonando dal vivo (di recente Ruth e Il Cantico dei Cantici per la Fondazione Teatro di Pontedera). Ha tenuto seminari sull'improvvisazione in tutta Italia, insegnando anche a in scuole jazz di Milano, Bologna, Ferrara, Rovereto. (tratto da wikipedia.org)

 

 

 

FABRIZIO BOSSO (tromba) www.fabriziobosso.com

Nato a Torino nel 1973 è uno dei più noti ‘giovani talenti’ del jazz italiano ed è ormai session man affermato in tutto il mondo. Il suo è un suono originalissimo che tocca il jazz tradizionale, l’hard e il be bop e poi sfocia in forza, freschezza, lirismo.Dal  1994  svolge un'intensa attività di  free lance  collaborando, e incidendo come sideman, con vari musicisti fra cui: Gianni Basso, Paolo Di Sabatino, Riccardo Zegna, Enrico Pieranunzi, Maurizio Giammarco, Massimo Moriconi, Emanuele Cisi, Gabriele Mirabassi, Mario Negri, Gegè Telesforo, Claudio Baglioni, Stefano Di Battista, Pietro Condorelli, Roberto Gatto, Sandro Gibellini, Marcello Rosa, Flavio Boltro, Tullio De Piscopo, Piero Odorici, Slide Hampton, Randy Brecker, Bob Mintzer, Irio De Paula, Hein Van De Geyn, Steve Lacy e numerosi altri. Nel corso della sua attività di Free Lance Artist Fabrizio Bosso ha suonato in diversi contesti nei seguenti paesi: Francia, Germania, Finlandia, Etiopia, Kenya, Tunisia, Arabia, Tunisia,  Stati Uniti, e al  Festival do Jazz a Cuba.

 

Al disco hanno partecipato anche: MARIO STIVALA (chitarra), SANDRO GIBELLINI (chitarra), TINO TRACANNA (sax), Paolo Filippi (contrabbasso), Teo Marchese (batteria).

 

 

CARTELLA STAMPA 1997-2007

 

 

DUCOLI

 

 

Brumantica – Salvatore Esposito (www.bielle.org;  dicembre 2007)

 

Alessandro Ducoli è uno dei più prolifici cantautori italiani della nuova generazione. Non si contano quasi più i suoi dischi, le sue collaborazioni e i suoi side-project, tuttavia i maggiori consensi li ha ottenuti con La Banda del Ducoli, partecipando anche alla prima edizione Mantova Musica Festival, e con Bacco il Matto calcando i palchi di tutto il Nord Italia, portando in giro un live act particolarmente coinvolgente.

Nonostante i tanti progetti paralleli e le band create, ha sempre mantenuto viva la sua carriera come solista di cui si ricorda Lolita (che sarà presto ristampato in una doppia versione). Il suo nuovo album come solista, "Brumantica", è senza dubbio il lavoro migliore fin qui prodotto da Alessandro Ducoli, e questo non solo per la presenza di un grande cast di musicisti (Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi alla basso, Fabrizio Bosso alla tromba, Tino Tracanna al sax, Sandro Gibellini alle chitarre, e Alessandro Galati alle tastiere) ma per l’ottima qualità delle composizioni. Si spazia da influenze che partono da Tom Waits per incontrarsi con Roberto Vecchioni e Paolo Conte, il tutto condito da sane atmosfere jazzate. n vestito splendido insomma per canzoni che raccontano la scienza che studia le nebbie del fiume, ovvero la "Brumantica". E chi meglio di Ducoli poteva raccontarci questa scienza, essendo lui un esperto di scienze naturali e forestali. Le canzoni di questo disco, dipingono atmosfere autunnali, intimiste con tratti malinconici pieni di nostalgia. La consistenza del disco la si percepisce ascoltando l’ultimo brano, una splendida resa jazz de La Canzone di Marinella di Fabrizio De Andrè, a cui Ducoli ha cucito un vestito nuovo dai tratti elegantissimi con la tromba di Fabrizio Bosso in grande evidenza. "Brumantica" necessità qualche ascolto in più per essere apprezzato a pieno, poi esplodono come lampi brani come Blou, Maddaluna, Nebbia e Sabbia ma soprattutto la toccante Tutta colpa sua. Sono canzoni d’amore ma anche di demoni interiori che toccano il cuore piano, lentamente, fino a conquistarlo. Brumantica è una piccola gemma nascosta, che merita di essere scoperta da tutti coloro che amano la canzone d’autore.

 

Brumantica – Andrea Rossi (www.musicmap.it;  febbraio 2007)

 

Se il jazz (quello vero, non quelle insipide contaminazioni che oggi vanno tanto di moda...) incontra la canzone d'autore, che succede? Succede qualcuna delle invenzioni di Paolo Conte, qualche brano di Cammariere, e poco altro. Tanti, ora, fanno canzone d'autore "jazzata" (a volte anche bene, nulla da dire), tanti viceversa suonano jazz facendo il verso alla canzone d'autore: sono proposte spesso valide, lo si è detto, ma sono e rimangono spurie. Fino ad oggi. Oggi c'è questo disco. Autentica canzone d'autore in autentico jazz. Nulla da eccepire. Ciò che pareva quasi impossibile, oggi è accaduto. Quindi era possibile. Bravo Ducoli, a mostrarcelo, ed a fare ancora di più: a farcelo sembrare facile. Naturale. Questo è il pregio dei grandi: fare cose geniali facendole apparire normali, quasi banali. Quindi Ducoli è geniale, non abbiamo paura a dirlo. Se c'era bisogno, in questo viaggio, di compagni di livello, beh, non è che si sia lesinato impegno: qui c'è l'autentico gotha del jazz italiano. Ellade Bandini alla batteria, Fabrizio Bosso alla tromba, Ares Tavolazzi al basso. Devo continuare? Ducoli diviene così un innovatore del jazz, partendo (sì, è così) dal rock. Incredibile? Non tanto. La sua "Banda del Ducoli" (rock di ottima fattura) è tutt'ora viva e vegeta, e nel proprio carniere ha anche risultati importanti come la finale del Premio Recanati. A volte la musica è totale, e sa smentirsi, in quanto a generi e frequentazioni, con fantastica semplicità. La Brumantica, poi, sarebbe la scienza che si occupa della nebbia del fiume della Val Camonica. Dubito di trovarla sui libri scolastici di mia figlia. Diventa così, la Brumantica, uno spazio mentale, in cui perdersi diventa piacevole, piacevolissimo. Perdetevici anche voi, grazie a questo disco. Che potrà arrogarsi il merito, non banale, di portare nuovi fans al jazz prelevandoli tra gli amanti della canzone d'autore. E, viceversa, di far amare la canzone d'autore ai puristi del jazz. E' poco?

 

 

Brumantica - Christian Verzeletti  (www.mescalina.it;  novembre 2006)

 

È sempre più difficile seguire il percorso artistico di Alessandro Ducoli, che abbiamo via via incontrato nelle spoglie di Bacco Il Matto, de La Banda Del Ducoli, dei My Uncle The Dog, dei Brother K, degli Spanish Johnny e anche di sé stesso in qualche disco solista.
Più che di un problema di identità multiple, il songwriter camuno soffre di un approccio famelico che lo porta ad ingerire enormi quantità di musica e a produrne altrettanta senza mai saziarsene. Nel corso degli anni ha assunto dosi elevate di rock’n’roll, trangugiato la parte più genuina del cantautorato italiano e addentato qualche boccone di jazz. Non avremmo però pensato che uno come lui, abituato a riempirsi la bocca a grandi morsi, potesse sedersi a tavola e attenersi ad un menu esclusivo, masticando ogni portata come si deve. Invece non solo c’è riuscito, ma ha addirittura invitato gente come Ares Tavolazzi, Ellade Bandini e Sandro Gibellini. Ducoli ha fatto trovare pronte le canzoni e poi le ha servite ad un ensemble di numi del jazz che si è talmente ingolosito da abbuffarsi alla sua stessa stregua.


Ne è venuto un disco che non è il jazz altezzoso concesso alla canzone né tantomeno la canzone che si pavoneggia con il jazz più fumoso. Non aspettatevi di trovarvi un Capossela da ora tarda o l’ennesimo cantautore italiano infatuato da arrangiamenti nobili: sarà per via della nebbia, che è l’ambiente da cui le canzoni muovono il loro sguardo, o sarà perché il punto di vista del Ducoli è sempre più lontano dal mondo, ma qua jazz e cantautorato non conservano le loro solite forme addomesticate. Ducoli canta, spesso parla, come un cane rognoso e gli arrangiamenti lo assecondano nei lenti più reietti, lo provocano sui tempi più ansiosi. Tromba (Fabrizio Bosso), basso (Ares Tavolazzi), chitarre (Mario Stivala e Sandro Gibellini), piano e Rhodes (Alessandro Galati), spazzole e batteria (Ellade Bandini) scendono al fiume della scrittura del Ducoli e avanzano sui suoi argini conoscendo e disconoscendo il mondo.


Addentrandosi nella nebbia si scorgono pezzi inquieti, una “Un piede nella fossa” swingata dagli stacchi del Rhodes e una manciata di ballate che non si rassegnano al romanticismo. Il finale fa venire i brividi dentro le ossa con una “Maddaluna”, tutta voce e tamburi come il De Andrè più “indiano”, e poi con una versione de “La canzone di Marinella” improvvisata, che scivola davvero verso il fiume. “Brumantica” sarà anche la scienza che studia la nebbia, ma neanche quella basta a definire un personaggio come Alessandro Ducoli, uno che ogni volta assume una forma e un nome diverso, ma che in fondo è sempre e solo sé stesso: affamato e selvatico come pochi.

 

 

Brumantica – Marco Quaroni (www.giornaledisondrio.it;  novembre 2006)

 

Che Alessandro Ducoli fosse uno dei nuovi cantautori più interessanti del panorama nazionale ce ne eravamo accorti già dieci anni fa, quando con il gruppo rock Bacco il Matto riscaldava le nottate di buona parte dei pub valtellinesi, camuni e oltre. Poi il suo lavoro è ulteriormente cresciuto, all’anima rock che oggi sfocia nel complesso springsteeniano Spanish Johnny si è unita quella solista, più riflessiva e raffinata, che lo ha portato a pubblicare un pugno di album davvero notevoli negli anni scorsi (su tutti l’opera “Taverne, stamberghe, caverne” del 2003, uscita anche in versione letteraria). Oggi il musicista di Breno ci regala un nuovo lavoro di questa sua facciata intimista, “Brumantica”, semplicemente la conferma di un talento misconosciuto e ancora non giustamente analizzato dalla critica e dal pubblico. Un gran bel progetto cantautorale sulle orme del jazz, con trombe e piano su tutto, echi di Conte e una grandissima personalità. “Brumantica” è un album complesso, per palati fini, ma ascoltandolo e riascoltandolo si ha la sensazione di essere di fronte ad un cantautore a tutto tondo, che racconta della montagna e del fiume, della bruma, della durezza della provincia, delle notti d’amore alcoliche, delle sofferenze quotidiane e delle piccole soddisfazioni. Da notare che in questo album il 34enne camuno è affiancato da musicisti del calibro di Ares Tavolazzi al basso e Ellade Bandini alla batteria. Tanto per essere chiari, mezza band di Francesco Guccini, che volentieri si è prestata a suonare nell’album di un uomo sincero e onesto, che per guadagnarsi da vivere e racimolare i soldi necessari alla pubblicazione dei suoi dischi fa il dottore forestale al Parco dell’Adamello. Poi la sera si toglie gli scarponi (a volte li tiene), infila l’armonica a bocca in tasca e va per locali, festival, teatrini di quart’ordine a mettere in piedi show che hanno sempre una caratteristica, quella di essere veri. Inutile stare a descrivere brano per brano un lavoro che va ascoltato, ma nella sola “Maddaluna” c’è tutto il Ducoli che più amiamo, ci sono tutte le sue doti di narratore brumantico e selvaggio in questo mondo ormai lontano da certe cose. L’omaggio finale a De Andrè con “La canzone di Marinella” la dice lunga su quali siano sempre state le sue fonti di ispirazione. Presto sarà ospite della trasmissione Radioattività su Tsn per presentare il disco e i prossimi concerti; contatti a baccoilmatto@libero.it. Bravo Ducoli, speriamo che l’Italia prima o poi si accorga di avere ancora degli artisti in giro per la strada. Ma temiamo sia una speranza vana.

 

 

Brumantica – Cesare Casalini (www. debaser.it; novembre 2006)

 

La brumantica, per chi non si intendesse di fiumi e di foreste, è la scienza che si occupa della nebbia del fiume che fa la sua comparsa nei mesi di ottobre e novembre (almeno così sostiene il Ducoli), ed ecco che, per l’appunto, questo è un disco da ascoltare di notte, oppure in una di quelle malinconiche giornate autunnali con le foglie cadenti e con la nebbiolina a far da cornice.

Attenti, però, perché la fantasia del Ducoli, quando sembra che vada da una parte, può anche sterzare di colpo e cambiare totalmente rotta, e le sue storie non hanno mai un finale scontato.

 

Ducoli ha smesso di fumare (beato lui!), ma non ha smesso e non smetterà mai di sognare. Una serie di canzoni da ascoltare di notte, in silenzio, entrano sottopelle come delle lame e per questo meritano attenzione, come direbbe Tom Waits, “in cerca di qualcuno che si prenda cura di loro, non abbiate paura, non mordono”. Questa volta ha deciso di regalarsi e di regalarci un’insieme di perline in territorio puramente jazz, accompagnato da una serie di veri fuoriclasse del pentagramma.

 

E’ una delle sfaccettature di Alessandro Ducoli, questo poliedrico musicista che a volte è jazzman, a volte rock’n’roller, a volte cantautore italiano.

L’elenco dei musicisti è veramente da “bocca aperta” (lui la chiama “una scampagnata di pazzi”, per me è un’insieme di fuoriclasse): Alessandro Galati al piano e alle tastiere, Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi al basso, Fabrizio Bosso (un vero talento emergente della tromba), il fido Mario Stivala e il grande Sandro Gibellini alla chitarra, nientemeno che Tino Tracanna al sax, più Paolo Filippi (basso in “Lettera”) e Teo Marchese (batteria in “Blou”).

 

Da un elenco simile di musicisti ascoltiamo un disco che è pura poesia sia testuale che musicale, ascoltare per credere cosa questi uomini hanno fatto alla “Canzone di Marinella” di De Andrè, (semplicemente stupenda), oltrechè su tutto il resto del disco.

A mio parere tutto il disco è su livelli decisamente superiori alla media, ma a spiccare sono due canzoni che personalmente non riesco a passare giorno senza ascoltare almeno tre-quattro volte: “Blou” e “Maddaluna”, ma in generale è l’intero album a lasciare un segno, e non va ascoltato in mezzo alla confusione, per poterlo apprezzare al meglio va ascoltato in tranquillità e per almeno tre volte di fila. La superficialità non può abitare in dischi come questo.

 

 

La Milonga di Ducoli diventa poesia d’autore” - Brumantica – Bresciaoggi (venerdi 16 novembre 2006)

 

“Una scampagnata di pazzi”. Così Alessandro Ducoli definisce con spiccato senso ironico l’intesa esperienza artistica che l’ha portato ancora una volta a dar forma a emozioni e pensieri, avvalendosi di musicisti del calibro di Ares Tavolazzi, Ellade Bandini. Fabrizio Bosso, autentico astro nascente della tromba, nonché Tino Tracanna e Sandro Gibellini.

 

Nei giorni scorsi è stato ufficialmente presentatoli cd “Brumantica”, il dodicesimo del cantautore camuno: 7 brani inenditi e e una cover, La canzone di Marinella, omaggio al grande Fabrizio de André. L’album di Ducoli trae ispirazione dalle trascinanti atmosfere del “Paris Milonga” di Paolo Conte, catalizzatore di umore e ricordi, di posti e paesi, di amori e situazioni. “Brumantica” è prodotto da Paolo Filippi del Cavò Studio di Bergamo e tutte le composizioni originali sono frutto della stretta collaborazione di Ducoli con Mario Stivala e degli arrangiamenti del pianista Alessandro Galati.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne – Silvano Rubino (www.bielle.org; giugno 2005)

 

Arriviamo un po' tardi, a recensire "Taverne, stamberghe e caverne", l'ultimo lavoro di Alessandro Ducoli e della sua Banda, uscito ormai un anno fa. Meglio tardi che mai, è il nostro motto. Soprattutto quando si tratta di un artista con le carte in regola come Alessandro. Il buon Ducoli, orgoglioso camuno della Val Camonica, è sulla breccia ormai da parecchio tempo, con dischi all'attivo con la band Bacco il matto e da solista. L'esperienza, quindi, c'è. E in questo cd si sente: un prodotto maturo, fatto da gente che ha alle spalle molti concerti sui palchi e nelle taverne (appunto) della provincia profonda (Brescia e dintorni, in questo caso). Un album in cui convivono due anime diverse. Quella cantautoriale e quella rock (più legata all'esperienza della band di Bacco il matto).

 

Inutile dirlo, noi preferiamo la prima, quella in cui Alessandro e il suo coautore Massimo Saviola si sforzano nella ricerca di un sound raffinato, attento alle radici popolari. Il brano di apertura (e di chiusura), La Fiera, ne è un bell'esempio, oltreché una dichiarazione di intenti per tutto il disco: atmosfere e storie di provincia, per una ballata che si distende morbidamente sulle ali della fisarmonica di Fausto Beccalossi. Non a caso la canzone è finita a rappresentare la Banda nel cd del Mantova Musica Festival.

 

In quest'ottica, i momenti migliori del disco, insieme alla Fiera, sono Un sabato felice, Delirio ordinario, A proposito di questi giorni e, soprattutto, Nina. Sin dal titolo, un omaggio dichiarato a Fabrizio De André, con citazione del ritornello di Creuza de ma e addirittura una nuova registrazione delle voci dei mitici venditori del mercato del pesce di via Statuto a Genova. Un omaggio bello e sentito, che si dipana in una melodia dolce e malinconica e in un testo pudico: "Dal Porto di Genova partirà/ Con altri colori, per altre città./Nina sorride mentre guarda di fuori,/ Dal porto di Genova lo aspetterà./ Ho bisogno di canzoni/ Nina che vola, con le canzoni."

 

Ducoli è l'ennesimo esempio della vitalità della provincia, dei luoghi più periferici della Lombardia. Al riparo della Val Camonica (lui la definisce "Terra di passaggio, con intorno le montagne" ), Alessandro ha imparato a mettere a frutto molteplici influenze, a dosare nei testi ironia (come in Sgangherata, scanzonato swing alla Sergio Caputo) e impegno (come in Maledetta Africa), nelle musiche anima pop-rock (Berlicche, Maligno, L'alluvione) e raffinatezza jazz (Lenta).

 

Anche se non tutto ci convince, di questo disco (che forse proprio per la doppia anima di cui dicevamo, rischia di perdere in omogeneità, di non avere una cifra stilistica prevalente e vincente), lo promuoviamo a pieni voti, perché è un prodotto onesto, ben suonato dalla banda (Arcangelo Buelli, batteria, Massimo Saviola, fender jazz bass '66, fretless, contrabbasso, Lorenzo Lama, chitarre, Renato Saviori pianoforte), ben cantato, con una voce un po' ruvida da folksinger americano. Attendiamo la prossima tappa, per vedere quale delle due anime prevarrà, nel cantuatore Ducoli e nella sua banda.

 

 

La Banda del Ducoli – Paolo Redaelli (La Provincia di Sondrio; 17 aprile 2004)

 

Banda del Ducoli: la magia è assoluta. Chissà quando verrà riconosciuto degnamente il talento di Alessandro Ducoli? Cantautore ricco di energia Rock, ma anche scrittore finissimo e poetico, il musicista di Breno ha degnamente assorbito la lezione di De Andrè, Dalla, Rino Gaetano, Paolo Conte, insomma il meglio dei grandi autori italiani. Ducoli è un uomo di montagna, che per vivere spegne incendi nei boschi (come Kerouac in “Angeli di desolazione”), dominato comunque dalla smania di vagabondare territori musicali diversi. A suo agio tra Rock, Folk, Reaggea, spruzzate di Jazz, malinconie Blues, assecondato da una band (Massimo Saviola al basso e alla direzione musicale, Arcangelo Buelli alla batteria e dietro la console di registrazione, Lorenzo Lama alle chitarre e Renato Saviori al pianoforte) che è più una fratellanza di amici che un collettivo musicale (tipo E Streeters, per intenderci) in questo disco estrae dal cappello magie assolute, brani che si scolpiscono nella memoria. Così, La fiera apre il cd, preceduta da un breve intro di cornamuse, con la fisarmonica di Fausto Beccalossi a disegnare atmosfere da balera, e lo conclude assumendo cadenze Blues. Nel mezzo ci sono ammalianti rumbe caraibiche (Maligno, una cover  riadattata degli Aterciopelados), Funcky rinvigorito da foalte di Hammond (Berlicche), una bella canzone dedicata a Fabrizio De Andrè (Nina) in cui si infilano echi di Creuza de ma, reggae asimmetrici (Maledetta Africa), tanghi sbilenchi (Delirio ordinario), languide ballate condotte dal pianoforte di Renato Saviori (Lenta) o dal sax Guido Bombardieri (A proposito di questi giorni). Insomma un bel campionario di suoni, onnivoro e stratificato, in un album che colpisce per le sue improvvise svolte, i continui piazzamenti all’ascoltatore, che crede di aver capito l’antifona. E invece …..

Le Taverne sono l’ulteriore capitolo della vita discografica di indipendente di un musicista autentico, sincero, capace di emozionare come pochi in concerto, ruvido cocker ma anche delicato verseggiatore, ironico e disincantato autore della vita d’oggi. Un lavoro che per qualità espressiva, varietà musicale, tecnica e raffinatezza esecutiva, non ha nulla da invidiare a più celebrate produzioni italiane.

 

La Banda del Ducoli – 10/04/04 Storyville (www.mescalina.it settembre 2003)

 

È la realtà: non hai successo se non sei un figlio di puttana. Figuriamoci poi se addirittura osi scrivere canzoni sui figli di puttana: diventi un reietto, un escluso. Forse così si spiega perché nessuno si fila la musica di Alessandro Ducoli e della sua banda: troppo scomode le canzoni e troppo libero l'uomo che ci sta dentro. Non ce ne voglia la mamma del Ducoli, ma nella musica di suo figlio scorre il sangue di un mondo peccaminoso e libertino, sbandato e triviale. Intorno al suo bambino ci sono puttane, a cui non piace essere chiamate per nome. E lui si ostina a vivere un ideale di canzone rock, osando cantare in faccia a quelle buone donne: alla fine, agli occhi del mondo, diventa lui il figlio di puttana, quello che è fuori posto, quello che si fa il sangue cattivo. Anche se il suo animo è nobile.

Basta vederlo dal vivo con la sua Banda per cogliere questo istinto di purezza, che lotta per liberarsi da urla e da smorfie animali.

 

Così, tanto per cammuffare la propria voce, canta in un megafono, balla a mo' di invasato come ne "Le iene" (quelle di Tarantino). Poi dedica una canzone, che si intitola "Rosa", a chi si arrampica sui muri per spiare le signore che si spogliano: un modo non proprio ortodosso per suggerire uno sguardo diverso, un punto di vista spostato, di chi scruta, valuta e dice la sua senza trattenersi.

Provate a tenere alla catena un cane che ha addocchiato una femmina, provate a dirgli di non abbaiare quando un gatto entra nel suo territorio. Smania, ringhia, morde, anche se magari poco prima era l'animale più mansueto del circondario. Provate ad ostruire il marciapiede ad una puttana.

Ducoli e la sua Banda sono così: prendere o lasciare. Grandi aperture, melodiche e strumentali, moine da gran signore, poi improvvise impennate d'orgoglio, d'istinto, che mostrano i denti e lasciano via libera solo ai più impavidi.

 

Possono farti manicure da musica leggera e poi eccitarsi al richiamo della carne, sfogarsi quando sembrava si fossero trattenuti: in altre parole, canzone d'autore, reggae, rock. Il blues e un po' di jazz, perché la pioggia non manca mai quando la fortuna non gira dalla parte giusta.

Sono una combricola di burloni, un branco di bastardi, un crocchio di puttane là all'angolo, ma hanno movenze di gran classe: "Little wing" diventa "Mariposa libre", in spagnolo come la faceva Sting, ma con la coscienza di chi sa che per possedere una cover ci vuole passione. Passione e professionalità: quella che ti permette un voodo-blues sotto un funk in italiano, quella che fa suonare logica la sigla di "Quark" prima delle protesta sottile di "Maledetta Africa". Quella che ti fa passare dallo swing all'assolo di chitarra rock, da un piano ragtime a qualche scomposizione di basso, come se fosse tutto una cosa sola (e alla fine lo è). Quella che ti fa apparire sincero quando tutti si strusciano, senza badare nemmeno se la vittima di turno è già cadavere (nessuno lo ha capito, ma "Nina" è uno dei pochi omaggi rispettosi dello spirito di Fabrizio De andrè).

 

Ma poi chi si accorge di come è composto il riff di "Prevert"? Chi la nota la forza di Bob Marley dentro a "Tre linee confuse" (quando ormai il reggae è diventato un surrogato dello ska)? Chi li sente i sussurri che borbottano alla Paolo Conte tra le note del piano di "Lenta"? Chi lo vede il fantasma di Dylan che si affaccia sul palco mascherato in un beat prima di "Uomini delle taverne"?

Eppure era di nuovo tutto lì, un'altra volta: era un sabato, verso il tardi, il tempo era di un grigio scuro infreddolito, ma bastava solo mettere la testa fuori. Non era una serata da puttane (niente ingresso da pagare) e nemmeno la vigilia di Pasqua (nessuna benedizione dall'alto).

Era un concerto de La Banda del Ducoli: chi c'è stato, ha goduto. Ed è tornato a casa bello soddisfatto.

 

 

La Banda del Ducoli – 04/09/03Palio delle Quadre di Chiari (www.mescalina.it settembre 2003)

 

Secondo il teorema, ripetutamente dimostrato, che la buona musica va ricercata negli angoli più nascosti, la Banda del Ducoli si esibisce in un chiostro di Zeweto, all’interno dell’annuale Palio delle Quadre, lasciando i palchi principali delle contrade ad altre musiche da intrattenimento. Poco male, perché Ducoli e compagni sono abituati a suonare ovunque e non ci mettono molto a radunare un pubblico attento: anche per chi non conosce la band camuna, non è difficile intuire la qualità della loro musica. La canzone d’autore, la musica leggera e il rock sono i principali ingredienti del loro suono: già “Rosa” e “Un sabato felice” mettono in mostra parti strumentali inedite, che aumentano la dose rock dei pezzi rendendoli più corposi. Ducoli poi si conferma un personaggio, un vero animale tipico delle vallate bresciane: farcisce le sue canzoni con storie, barzellette, smorfie. Oltre che a divertire, riesce così a sdrammatizzare se stesso e i suoi personaggi, lasciando comunque alla leggerezza tutto il significato e il sapore della vita. Il pubblico apprezza e lui risponde dimenandosi sul palco come un clown e contagiando tutta la band, sempre pronta a dargli botta con entusiasmo e con parti strumentali da veri professionisti. Con la stessa intensità si passa dal funky-blues di “Io convivo bene con la mia pazzia”, al voodoo di “Berlicche” fino alle raffinatezze cantautorali di “Nina”, dedicata a Fabrizio De Andrè. Lo show è una vera goduria: “Io convivo bene con la mia pazzia” ha lo swing pianistico de “La stangata” e del miglior Buscaglione, poi ulteriormente accelerato con “L’amore arriva come un temporale”, in cui Ducoli rivela tutta la sua identità di romatico disperato e la band può sfogarsi a pieni giri, lanciando in velocità la chitarra di Lorenzo Lama. “Maledetta Africa” arriva con la giusta dose di rabbia, cantata da un megafono, perfettamente calata nella piccola piazza che ospita un’esposizione di prodotti del commercio equo-solidale e opere d’arte africana / sudamericana. Ducoli è un animale difficile da contenere, lo si capisce dal medley finale e dall’energia con cui attacca “Prevèrt”, un via libera al rock con l’organo e la batteria a fare da traino. Lui e la sua band meriterebbero di scorazzare liberi su territori ben più vasti, ma, si sa, oggi la vera musica dispone di spazi ristretti.

 

Taverne, stamberghe, caverne - Paolo Bardelli (Reporter; giugno 2003)

 

Raffinatezza e poetica musicale di un cantautore: la fiera della banda del Ducoli. Le canzoni del Ducoli sono calore per l'anima. Questo artista orgogliosamente "camuno" (della Val Camonica, nel bresciano) ha confezionato il suo secondo lavoro musicale assieme all'ormai inseparabile Banda, raggiungendo una perfezione che solo pochi cantautori italiani si possono permettere. "Taverne, stamberghe, caverne", questo il titolo del cd distribuito dalla I.R.D., racchiude melodie che nascono dalla provincia e sanno trasmettere (o, meglio, raccontare) quella sincera e spigolosa vita dove tutto ruota ancora attorno al "giorno della fiera". Un po' Vinicio ("Sgangherata"), un po' Paolo Conte ("Lenta"), la Banda del Ducoli sfoggia, senza alcuna presunzione, una raffinatezza poetica e musicale di alto livello sempre al servizio dei pezzi, utilizzando il jazz, il funky, il rock e la migliore tradizione cantautorale (Ciampi, Gaetano) con una facilità estrema, segno di un affiatamento invidiabile e di una vera maturità nell'arrangiare i pezzi 'del Sandro'. Sia che parli di sentimenti ("Un sabato felice"), sia che si scontri con le regole della vita ("Delirio ordinario") o si rivolga a indimenticati maestri ("Nina", dedicata a Fabrizio De André), la Banda del Ducoli canta di storie comuni con una sentita profondità che si stempera, come per ogni buon avventore di un'osteria, nella leggerezza de "La Fiera", brano che significativamente viene posto all'inizio e alla fine ("Uomini delle Taverne - La Fiera") del cd.

E il Ducoli è un artista nato per suonare dal vivo in quelle 'taverne' a cui ha dedicato il disco. Chi ha avuto la fortuna di assistere a un suo spettacolo è rimasto colpito dal suo apparire 'vero', dalla sua capacità di comunicare al pubblico ed essere narratore musicale. Qualità di chi viene dalla provincia che nel Ducoli si uniscono all'eleganza, questa sì non provinciale, dei suoi testi. Ascoltare "Taverne, stamberghe, caverne" è un po' come alzare al cielo il calice: se lo si fa assieme ad un compagno di viaggio è un gesto allo stesso tempo semplice e profondo. Che scalda.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne – Alex Saccomano (Suono; giugno 2003)

 

La periferia, i piccoli paesi nascosti tra le valli, storie che si intrecciano nella quotidianità di chi è, per scelta o per destino, emarginato dalla vita metropolitana. Storie deliranti, racconti di rane catturate, personaggi improbabili che popolano la fantasia di Ducoli e della sua Banda. Una storia noire grottesca e teatrale, con immagini  musicali a tratti sfocate. Uno squarcio di luce nella produzione indipendente. A dimostrazione che volendo si può fare un prodotto intelligente, dove semplici stati d’animo si traducono in canzoni. Un disco onesto e per questo interessante e valido, senza l’appoggio di produzioni faraoniche la musica può fare e dare.

 

Tra il rock e il cabaret, ballate e canzone d’autore, fiere di paese e fusion, le atmosfere scorrono piacevolmente e anche la stesura musicale di alcune parti, inevitabilmente deboli, riescono a superare l’esame grazie alla loro freschezza compositiva. Un ringraziamento a latere, nelle note dei credits, è per il “Signor G”: “Nei giorni in cui stavamo chiudendo le riprese – dichiara Ducoli – è mancato Giorgio Gaber”. Bisogna riconoscere che se il Ducoli si occupa di “canzonette”, qualche maestro c’è stato e fra questi sicuramente Giorgio Gaber è uno dei maggiori.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne – Alessio Gambaro (GENOVAGANDO; giugno 2003)

 

E’ un’opera imperdibile per chi ama le cose semplici, profonde, tradizionali ma non antiquate, di classe e, soprattutto, di casa nostra.

 

In principio era il Ducoli: cantautore poliedrico di sangue camuno, ibrido artistico fra un’ispirazione da folksinger americano di razza (con una devozione particolare per Neil Young), una sensibilità poetica tutta italiana e un estro bizzarro da sbronza molesta, lo stesso che sfoggerebbe un Capossela imbarbarito dal sesto / settimo whisky della serata. Per dare una forma, uno sfogo e una destinazione alle pulsioni più propriamente rockettare esisteva, a onor del vero, anche un gruppo, dedicato alla figura grottesca e misteriosa di un qualunque Bacco il matto di provincia, e artefice di uno degli esordi di rock tradizionale più maturi del suo tempo. Di tutte quelle multiformi ispirazioni oggi non è rimasta che una banda: non certo una banda qualunque ma, naturalmente, la Banda del Ducoli, quintessenza di uno stile evolutosi negli anni e vittima inerme -come molti altri ensemble odierni- di un pubblico qualunquista che ha decretato, impietosamente, l’affermarsi di un rapporto inversamente proporzionale tra qualità e notorietà. Dispiace quindi, in fin dei conti, ascoltare un disco come Taverne, un pò perché si sgretola un altro pezzetto di speranza circa la presenza di una “giustizia” musicale, un po’ perché potenziali singoli di presa non mancano e, perdio, questa volta non c’è neppure l’alibi dell’album cervellotico o eccessivamente impegnativo.

 

E’ forse la cura, a lato pratico, quella che non paga: una cura maniacale, favorita anche dalla presenza (inedita, nel curriculum del Ducoli) di una produzione di alto livello; cura nel dosare gli umori in maniera equilibrata, cura nel rielaborare e fondere i temi -e, per così dire, i generi- degli album precedenti senza concedersi troppi favoritismi e, soprattutto, cura nel porre la musica a servizio di Testi con la T maiuscola che, inseriti in un vago continuum narrativo/concettuale di provincia, al di là della sostanziale immediatezza sono capaci di innescare riflessioni che non si esauriscono al secondo ascolto. Insomma, Taverne è un album troppo raffinato per il grande pubblico, e probabilmente ne sconterà le conseguenze con la solita, deprecabile indifferenza. Noi ci auguriamo che non sia così e anzi, approffittando della buona distribuzione, ne consigliamo caldamente l’acquisto: per l’eleganza matura dei brani soft, su cui si posano dolcemente i coretti femminili di stampo easy listening, mitigandone la cruda malinconia di sottofondo (La fiera, squisito folk nel senso più genuino del termine, A proposito di questi giorni, che chiude l’album in un tripudio di assoli variegati e Un sabato felice, dallo sguardo meno pessimista); per l’acume irresistibile della vena goliardica, di tradizione assolutamente ducoliana (Berlicche, con la sua goffaggine funky irruente quanto un inno freak punk, e Sgangherata, forte di un ritornello accattivante che potrebbe nobilitare da solo una hit parade di obbrobri); per il deja vu de L’alluvione che, con una buona dose di grinta in meno e una di classe in più, ci riporta agli episodi più propriamente rock di Malaspina e soprattutto Anche io non posso entrare. Non possiamo poi, da buoni genovesi, dimenticarci di Nina, omaggio commosso al talento musicale e narrativo di Fabrizio De Andrè, ricordato attraverso un’immagine straordinariamente evocativa sullo sfondo dei cori di Creuza de ma (riadattati per esigenze metriche) e di un nuovo vociare di pescivendoli, proprio come sarebbe piaciuto a Faber. Ma il vertice dell’album risiede forse altrove, in quel capolavoro di teatralità malata che è Delirio ordinario, in cui domina il contrasto fra le tinte fosche di un accompagnamento retrò e il brio macchiettistico, vivacissimo, dell’autore, capace di cantare con ironia leggera la disperazione quotidiana di una provincia uggiosa. Quello che resta, da Maledetta Africa a Lenta, passando per un’efficace italianizzazione di Maligno degli Aterciopelados, non è certo da meno, complici gli arrangiamenti studiati fin nei minimi particolari da una squadra di musicisti di primo livello che, quando allentano i freni, si lasciano andare a excursi strumentali jazz-pop degni di un’ipotetica Dave Matthews band italiana.


Tirando le somme, abbiamo per le mani un album di undici buone ragioni, esattamente quante sono le sue tracce: per comprarlo, per ascoltarlo, per anteporlo alla tristezze dei concorrenti blasonati cui nulla è rimasto da dire. Aspettiamo solo, disillusi come sempre, che qualcuno se ne accorga.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne - Christian Verzeletti  (www.mescalina.it giugno 2003)

 

 “Un libro e un disco, praticamente la stessa cosa”, si legge nel booklet. Del libro c’è solo qualche traccia tra i credits, ma il disco c’è, eccome, e si sente. Taverne, stamberghe, caverne è il quarto album di Alessandro Ducoli, con una band “nuova” e un pugno di storie, tutti dotati di quella dose di verità indispensabile per un disco e per un libro: canzoni che hanno bisogno di essere sentite sulla pelle, come una musica, e di essere viste, immaginate, come una storia. L’album si presenta come un corpo narrativo, che si apre e si chiude con la stesso pezzo, La fiera, inquadrando un paesaggio di provincia e mettendo a fuoco una serie di voci quotidiane, che diventano appunto storia, nel senso più popolare e vero del termine. Taverne, stamberghe, caverne è un disco che sarebbe riduttivo definire di solo cantautorato, perché ha in sé una dote rara. Se è vero che, per non rimanere sommersi nell’attuale panorama musicale, è indispensabile suonare con personalità, Ducoli e la sua band hanno scelto il modo più intelligente e, forse, più difficile per farsi notare: dodici canzoni che contengono un mondo tutto loro. Ideali coordinate geografiche fanno risalire ad una “terra di passaggio con intorno le montagne”, non solo quelle delle valli bresciane, mentre i punti di riferimento musicali vanno da De Andrè a Capossela, da Ciampi a Gaetano, oppure da Jackson Browne a Bruce Hornsby, se ci si vuole spostare oltre i confini nazionali. Ducoli e la sua band sono dei viandanti, attratti da qualunque forza in movimento: la gravità che fa scendere il vino in un bicchiere, la spinta che muove l’onda del mare, il fischio di un treno o il ritmo sgangherato di una vita, in perenne altalena tra felicità e nostalgia. Logico allora spostarsi da un genere all’altro, con grande dignità ed eleganza, dallo swing-soul di Sgangherata, al funk di Berlicche, al rock energico di L’alluvione, passando attraverso raffinate ballate. Fisarmonica, sax, clarinetto e hammond la fanno da padrone, con la signorilità di chi è sempre pronto ad offrire da bere e a fare da spalla a chi si racconta: Taverne, stamberghe, caverne diventa così un disco che offre rifugio a chi ha voglia e tempo per ascoltare, per sorseggiare della buona musica e delle buone storie. Anche con leggerezza, come in Un sabato felice, un esempio di che cosa potrebbe davvero essere la musica leggera italiana. Come dice lo stesso Ducoli: “in origine l'uomo trovò rifugio dagli elementi all'interno delle caverne; successivamente imparò a costruirsi rifugi sempre più adeguati alle sue nuove esigenze. Ora è arrivata l'esigenza di tornare alle caverne”. La canzone quindi diventa un mezzo per rimanere attaccati alla vita, per proteggersi da una pioggia che non smette di cadere, per non arrendersi ad un destino troppo comune. A conferma poi del lavoro svolto sia in fase di arrangiamento che di registrazione, tutto si muove con omogeneità e con spontaneità, quasi che fossero le storie stesse a dar vita ai loro personaggi e ai loro autori. Così come succede nei migliori dischi (e libri), piano piano l’arte si fa talmente personale da uscire dal suo autore: “le mie navi nel porto / sono andate da sole / per amore del sale / hanno messo le vele”.  

 

 

Taverne, stamberghe, caverne - Emiliano Coraretti (Avvenimenti 23-29 maggio 2003)

 

Ducoli Blues. Il Blues della Sgangherata. Il Rock in stile Creedence Crearwater Revival del L’alluvione. In Lenta e Delirio ordinario si avvertono persino l’odore delle notti di Tom Waits. È una musica che ama l’America quella di Alessandro Ducoli. Ma ogni volta, l’America, viene fatta passare lungo i confini della provincia italiana. Brescia e dintorni, dove il cantautore (già voce e penna della band Bacco il Matto) raccoglie storie di personaggi, che potrebbero essere nati in Lombardia come nel Nebraska. I posti migliori vengono suggeriti dal titolo del disco che il musicista realizza con la Banda del Ducoli, Taverne, stamberghe, caverne (IRD), dove il vino scalda cuori pieni di una vita che aspetta solo di essere tradotta in canzone. Ballate che preferiscono la grazia della strumentazione acustica, per riempirsi di strada, delle sue voci e dei suoi rumori. Sempre in equilibrio tra la voglia di essere felici e la necessità di trovare la forza per sopravvivere.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne - Mauro Eufrosini (JAM – maggio 2003)

 

Questo disco doveva essere un concept e doveva viaggiare assieme a un libro di Marco Quaroni, L’uomo delle taverne, stralci del quale sono disseminati nel booklet di Taverne, stamberghe, caverne. Il libro non c’è ancora ma il Ducoli ci assicura che (…) un libro e un disco sono la stessa cosa (…). In effetti questo disco, il quarto progetto solista di Ducoli, già protagonista dell’avventura Bacco il Matto, ha una forte connotazione narrativa, sottolineata dai rumori che colorano e introducono le singole canzoni: dal gracidare delle rane al passare di un treno, dai passi sul selciato alle grida di una fiera, al vociare di bimbi. La fiera è il trait d’union dell’interop progetto, canzone che apre e chiude il disco. Circoscrivendo così il racconto in una immaginaria unità di tempo (l’oggi) e di spazio (da qualche parte in provincia), e dentro la Banda ci mette il matto del villaggio, le rane, una alluvione, l’amore disperato, la vita insomma.

 

Ma un disco non è un libro e Ducoli e la sua Banda lo sanno bene. Oltre alle storie scritte nei testi, ci sono quelle scritte sugli spartiti, ci sono le voci degli uomini e quelle degli strumenti, la produzione, gli arrangiamenti: bene, tutto, in questo disco funziona egregiamente. Gli arrangiamenti sono superbi e sempre centrati sulla canzone, i musicisti impeccabili, i suoni eleganti e levigati. Le canzoni poi abbracciano uno spettro consistente dei diversi linguaggi del Rock d’autore, dal Blues/Funk di Berlicche, che assieme alla roccata Delirio ordinario è il momento più gridato del disco, alle citazioni di De andré nell’omaggio Nina (dove riecheggia Creuza de mä), al Blues cialtronesco di Sgangherata, alla melodia accattivante di Un sabato felice (in un mondo perfetto, potenziale hit radiofonico). Alessandro Ducoli e la sua banda, nella quale spiccano Massimo Saviola e Arcangelo Buelli, sezione ritmica, co-autori e soprattutto produttori, sono una realtà della musica italiana con la quale bisogna fare i conti.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne -  Fabio Zamboni (Alto Adige, aprile 2003)

 

L’irrequieto Bacco il Matto degli anni Novanta e il più poetico e visionario Alessandro Ducoli incrociano la loro urgenza di raccontarsi dentro una band che diventa il centro di un progetto cantautorale intenso e coinvolgente. Il musicista camuno (Val Camonica) porta i sui personaggi romantici e poco allineati dentro i luoghi della sua vita quotidiana, una periferia alpina dove ci si racconta nelle taverne e si frequentano le fiere, e dove storie di amori balordi s’incrociano con storie di rane che ti attraversano la strada. Dopo il disco raffinato, da vero cantautore (”Anche io non posso entrare”) Ducoli sforna”il disco della band”, che trasuda appunto tutto il piacere di suonare assieme di un gruppo di musicisti di razza. Meno ricercatezze e orpelli da studio, ma più vita vissuta. E suonata.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne -  Gian Paolo L’affranchi (Bresciaoggi, 17/04/03)

 

Taverne, stamberghe, caverne è il titolo dell’album realizzato da un gruppo di esperti musicisti, tutti bresciani: Quelli della «Banda del Ducoli». Un disco profondamente bresciano, legato alle radici, aperto alle suggestioni. È, soprattutto, un bel disco: da ascoltare quando piove e si ha poca voglia di parlare, ma anche da sentire quando si ha voglia di far festa senza staccare la spina al pensiero. «Taverne, stamberghe, caverne» è il manifesto della Banda del Ducoli: un supergruppo che sventola anche la bandiera dell’ironia ma non assomiglia a Elio e le Storie Tese, che non prova nemmeno a scrollarsi di dosso la «fatal malinconia» ma non annoia mai come certi cantautori vecchia scuola.

 

Per questo progetto nuovo e ambizioso, che vuole dar voce alla provincia che suona e fa davvero della musica un’arte, Ducoli ha formato una squadra d’eccezione tutta bresciana. Musicisti esperti, tecnicamente impeccabili, artisticamente corretti: fra ballate acustiche, tentazioni jazz e suggestioni americane non fa mai capolino il motivetto commerciale. Il risultato: un’ora di canzoni di classe, senza cadute di tono. Tra Fossati e Cammariere, con un sorriso amico sulle labbra. La fiera apre il disco in modo lieve e intelligente, chiarendo le coordinate artistiche. Si parla di “ … stelle filanti, di sogni e desideri”, della malinconia di chi costruisce la gioia senza essere creduto. Il pianoforte stende un tappeto alla Bruce Hornby, gli arrangiamenti privilegiano il cuore pop del brano senza trascurare l’indole folk. Sgangherata potrebbe tranquillamente appartenere alla storia di Sergio Caputo, swinga fra una luna fuggevole e una metropolitana che non c’è. L’assolo di Lorenzo Lama illumina quella “…terra di passaggio con intorno le montagne, terra sulle scarpe sulle suole c’è il catrame. …  rogna dentro al sangue da decontaminare”. La Banda del Ducoli ha la mente aperta e le dita allenate: suona bene e suona di tutto, dal folk al funky. Gioca con la tradizione americana anni ’70 scatenandosi in Berlicche (Ducoli come George Clinton), prima che la melodia di Massimo Saviola disegni l’acquerello di Un sabato felice (cantato da Marco Bortoli). Nina vola e sorride galleggiando su armonie soffici e ritmi lenti, riecheggiando e omaggiando il maestro De André. “….Diavoli e santi sono nient’altro che niente, un rifugio sicuro per chi odia la gente”: affiora il disincanto misto a risentimento in Maledetta Africa, che vibra grazie ad un riff americano quanto basta. Maligno, opera contagiosa degli Aterciopelados di Caribe Atomico, rivive in italiano riadattato da Ducoli prima che L’alluvione reinventi una pioggia acustica briosa e limpida. Delirio ordinario commuove, Lenta dà i brividi: sussurro jazz, picco emozionale. La dolcezza e l’allegria di A proposito di questi giorni paiono mettere la parola fine, ma La Fiera ritorna fumosa e notturna a chiudere il cerchio intorno agli Uomini delle taverne.

 

Registrato in un tempo lunghissimo (fra il marzo 2002 e il febbraio 2003), inserito nel catalogo Ird (dunque in vendita nei negozi di dischi), l’album della Banda colpisce fin dal primo ascolto. In "Taverne, stamberghe, caverne" ci sono la voce «romantico-distratta» di Ducoli, i bassi e i contrabbassi di Saviola, le chitarre di Lama, piatti e rullanti di Arki Buelli, il pianoforte di Renato Saviori. Il disco (prodotto da Buelli & Saviola) conta una sfilza di ospiti eccellenti (dalla corista Elena Sbalchiero alle tastiere di Oscar Del Barba, dal sax di Guido Bombardieri alla fisarmonica di Fausto Beccalossi, dall’hammond di Paolo Mazzardi alle voci di Beppe Donadio & the Bluesisters). Recentemente la Banda è sbarcata in Rete: www.labandadelducoli.it.

 

 

Taverne, stamberghe, caverne - Furio Sollazzi (www.miapavia.it, 31/03/2003)

 

Ogni tanto, in un panorama asfittico di cantanti e autori "omologati", spunta un fiorellino che si distingue dal mazzo. Alessandro Ducoli (voce, chitarra acustica, armonica) ha suonato in vari gruppi dell'area camuno-bresciana (Springs, Kantina Occupata, Pond Spashing e Blesk) partecipando a vari festival e manifestazioni locali. L'esperienza più importante la fa con il gruppo Bacco il Matto; artefici di un live act assolutamente coinvolgente (e spesso arricchito da una manciata di cover tratte dai songbook dei loro principali padri ispiratori: Bruce Springsteen, Neil Young, Lou Reed, Iggy Pop, Steve Earle, John Mellencamp), sono una band di spacconi della Val Camonica un po' naive, ma personaggi veri, sinceri e di cuore, per un rock italiano sanguigno, ad alto tasso alcolico ed energetico, dal suono scarno, dinamico e valvolare che rimanda agli stilemi del rock texano più puro. Dopo due album (San Marco -1999, Cercatori d'oro -2000) il gruppo si scioglie ma l'esperienza del palco resta nel DNA di Ducoli.

A suo nome ha pubblicato anche quattro album ottimamente autoprodotti: Sopra i muri di questa città (1995), Lolita (1997), Malaspina (1999) e Anche io non posso entrare (2000).

 

Ho ascoltato Malaspina (molto bella la copertina) e l'ho travato un disco con alcune intuizioni, dei buoni testi e molte ingenuità. La voce ricordava un po' quella di Carboni nel suo "essere molle". L'ascolto di Anche io non posso entrare mi ha confermato le buone qualità di questo autore e una sua notevole maturazione (anche dal punto di vista vocale). Quell'album contiene almeno tre brani notevoli: Io ti sparerò per primo, Giovanna e Anche io non posso entrare. Dalle esperienze come solista e da quelle con Bacco il Matto esce questo ibrido La Banda del Ducoli che è un disco di un cantautore ma suona come quello di una band.

 

La voce di Ducoli sembra abbia raggiunto una sua maturità pur rivelando ancora le radici dei suoi amori musicali con decisi riferimenti a Springsteen, Tom Waits e anche al nostrano Capossela. Nei brani lenti, invece, ha completamente abbandonato le "mollezze" per assumere un'identità personale nelle modulazioni e nell'espressione (dobbiamo forse ringraziare il nostro amico Boris Savoldelli che so essere interessato al "soggetto" ?).

Quello che appare sorprendente è la freschezza delle proposte e la sincerità con cui evita di "vestire" le canzoni per renderle gradite. C'è invece, oltre alla naturalezza rock di fondo, un'eleganza che ha spolverate di blues e jazz in alcuni arrangiamenti.

Acustiche, elettriche, Hammond e strumenti a fiato si alternano a brevi inserti di voci e rumori che rendono il disco assolutamente omogeneo e quasi un concept-album. Se vi capita di trovare in giro questo album, investite (per una volta) qualche euro in un nuovo autore italiano.

 

 

TAVERNE, STAMBERGHE, CAVERNE (2003)

Recensione di Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk


La Banda Del Ducoli, è la versione 2003 del multiforme Alessandro Ducoli, Taverne, Stamberghe, Caverne, questo il titolo del disco, è solo una parte del progetto, infatti al disco doveva essere affiancato un libro dal titolo "L'uomo delle taverne" scritto da Marco Quaroni, di cui nel booklet ci sono alcuni stralci. Il musicista camuno (Val Camonica) in questo disco svela una galleria di personaggi strani, dai tratti romantici, mai allineato con il quotidiano e soprattutto abituali frequentatori di taverne e di fiere, dove si incrociano le loro storie, le loro illusioni, i loro amori. Così dopo il raffinato Anche io non posso entrare Ducoli cambia ancora rotta, e diventa un cantastorie pronto ad immergersi nella realtà dei bohemien di provincia accompagnato da una band eccellente che riesce nell'impresa di rendere stradaiolo il disco infatti, sembra suonato nel mezzo di un paese in festa senza tempo dove si affollano rumori, voci, treni, bambini. Ad accompagnare Alessandro Ducoli troviamo una band di tutto rispetto dove spiccano i nomi di Massimo Saviola e Arcangelo Buelli, che due tipi che con la musica ci sanno fare. E ciò lo si sente fortemente nel sound complessivo che ha subito, rispetto ai dischi precedenti di Ducoli, un evoluzione totale facendosi ricettore di un meltin' pot in cui si fondono rock d'autore, blues, funk e spruzzate qua e là di jazz. Venendo all'ascolto il brano che colpisce di più è sicuramente Nina, che suona come un omaggio a Fabrizio De Andrè e alla sua Genova che viene rievocata dal suono del mare sul finale. Sul versante rock mi piace segnalare due grandi canzoni come Berlicche e Delirio ordinario, in cui riemerge a tratti il Ducoli indomabile rocker. Non vanno sottovalutati anche episodi come la radiofonica Un sabato felice e il blues scanzonato di Sgangherata.

 

 

Anche io non posso entrare - Fabio Zamboni (Alto Adige)

 

La doppia vita di Alessandro Ducoli, cantautore camuno (ovvero Val Camonica), si esprime in due progetti paralleli: quello legato al suo nome di battesimo e quello legato allo pseudonimo Bacco il matto. Con questi due nomi ha realizzato finora una mezza dozzina di dischi, che lo hanno portato dal vivo a esibirsi anche al prestigioso Alcatraz di Milano e sulla carta ad incassassare una lusinghiera recensione di "Musica!" di Repubblica al suo penultimo album.. 

 

Ancora di più meriterebbe questa nuova raccolta di canzoni in cui l'anima folk-rock, springsteeniana, di Bacco il Matto si fa da parte per mostrare quella più cantautorale, più intensa, di un musicista che racconta storie di amori balordi o di sogni in compagnia di alcuni ottimi musicisti, a partire dal sax soprano di Guido Bombardieri che impreziosisce i brani più riusciti: Lulù e Alcune cose inutili. Gustosi siparietti alla Daniele Silvestri, convincente la voce soprattutto quando evita di indurire i toni come nel brano che dà il titolo all'album. Una voce fumosa e sincera, atmosfere etno-jazz o delicatamente folk-rock, testi originali e suoni preziosi sono gli ingredienti di un disco che per ora potete rintracciare quasi soltanto alla fonte entrando nel curioso sito di Ducoli.

 

 

Anche io non posso entrare - Emiliano Coraretti (Musica! 28-06-2001)

 

Alessandro Ducoli appartiene alla schiera dei cantori che raccontano il mondo sempre dalla parte di chi, con i propri sogni, ha un debito destinato a non azzerarsi mai. Già mente e voce di Bacco il Matto, Ducoli pubblica il suo nuovo disco da solista dimostrando ormai un pieno e intelligente controllo su tutti quegli elementi che fanno della musica di John Mellencamp, Willy De Ville e Calvin Russell, un formulario universale per dare voce ai sentimenti dei loser.

 

Anche io non posso entrare si snoda allora in undici episodi dove versi che fanno il punto sui movimenti del cuore (Arrivederci ancora, Perfetta) sono sorretti da arrangiamenti concentrati più sull'eleganza della strumentazione (il reggae di Tre linee confuse, l'atmosfera fossatiana di Il primo ballo) che sulla forza delle chitarre. Canzoni di vita, scritte per ricordare che, nella vita, la felicità si concede solamente in attimi da respirare con la testa sgombra dalla paura e un boccale di birra sul cuore.

 

 

Anche io non posso entrare - Alex Saccomano (SUONO; gennaio 2002)

 

Noto nel panorama discografico con lo pseudonimo di Bacco il Matto, Alessandro Ducoli, trentenne della Val Camonica, entra dritto d'infilata nell'olimpo della nuova canzone d'autore. Non è il solito folksinger, non è il cantautore triste, anche se i testi trattano di serietà della vita quotidiana. 

E di concretezza è fatto questo disco, che vede l'autore e la sua band insidiare il territorio di caccia magari di Vinicio Capossela; una voce roca e fumata e una band che lo supporta con introduzioni trascinanti e cambi di ritmo improvvisi e toni da rock band. C'è molto in questo disco, complicato nei suoni e nelle atmosfere tese, impegnate e anche irridenti: il rock di Lou Reed, lo ska di Tre Linee Confuse

 

Gli undici episodi del nuovo CD solista sono tutti coinvolgenti, e offrono una competenza musicale degli strumentisti che non si perdono nel virtuosismo esasperato ma, quando necessario, si esibiscono in eccellenti assoli e fraseggi di supporto eleganti. Whisky facile e rock americano alla camunese ma non è mistificazione, né un surrogato di un "vorrei ma non posso": Ducoli può e lo fa tranquillamente, percorrendo la strada della musica di qualità, italiana. Un vagabondo affidabile del blues dove Io ti sparerò per primo, una canzone d'amore appassionante, e Dieci metri sotto la città, sono un alito alcolico di Tom Waits.

 

 

Anche io non posso entrare – Alessio Gambaro (GENOVAGANDO; giugno 2002)

 

A dispetto della scarsa fama, è un album che comunica una maturità raggiunta propria dei grandi cantautori. Quel che più colpisce di cantautori come Alessandro Ducoli e di gruppi come Bacco il matto, suo progetto parallelo, è la scarsità quasi grottesca di attenzioni da parte di media e pubblico in rapporto alla freschezza della proposta. Questo non perché l’ultimo album della sua piuttosto giovane carriera sia una capolavoro storico ma perché, rapportato a molte altre uscite di genere baciate da una fortuna ben maggiore, “Anche io non posso entrare” fa scintille. E, curiosamente, non per quella speciale immediatezza, diremmo quasi quel certo impeto selvaggio, che si e’ un po’ persa nel qualunquismo del pop mainstream e che invece sopravvive grazie a molti gruppi rock underground. Al contrario, l’album si distingue per il tocco raffinato degli arrangiamenti, per il sapersi rendere intrigante e dire qualcosa che valga la pena di ascoltare, addirittura per la capacità di evocare un inedito scenario musicale, una sorta di epica rock come tante altre in passato ma che, al giorno d’oggi, è raro rintracciare fra gli orpelli dei vuoti packaging discografici. Ed è un epica che avvince, quella del Ducoli. L’epica della dannazione provinciale che serpeggia fra i locali notturni della Val Camonica, e che avvolge abbozzi di storiacce sfigate e rituali da sabato sera fra le spire di fumo delle sigarette. L’epica degli amori che ancora prima di cominciare annegano nel vino novello e nei terrei doposbronza della mattina successiva. L’epica, ancora, di chi si sente un po’ un outsider in un mondo che dopo 25 anni di vita ha gia disilluso tutte le speranze della giovane età, e sente che proprio di domani non c’e’ certezza… Il mondo del Ducoli, insomma, che trova in questo album la sua sintesi migliore.

 

Abbandonate le riletture colte del southern rock padano (quello, per intenderci, che fece follie alla fine degli anni ’80 con gruppi come Rats e Negrita, e che trovò in Ligabue il massimo rappresentante a livello “popolare”) su cui e’ imperniato il Bacco il Matto più recente, e trovata una forma più corposa e concludente per i bozzetti da music hall del precedente “Malaspina” (accattivanti in certi casi, un tantino logorroici in altri), il rocker di Breno sforna undici brani tra il blues rock e la tradizione cantautorale italiana, riuscendo a conciliare Springsteen e Fossati, Tom Waits e Guccini, John Mellencamp e Capossela, il tutto con grande disinvoltura e, soprattutto, con grande personalità, tanto che delle innumerevoli ascendenze proposte non una convince appieno. Va detto - ed e’ una precisazione fondamentale nel nostro caso - che si tratta di un disco estremamente omogeneo. Anche per questo ha poco senso definire perentoriamente le influenze e proprio per questo, se è vero che tutti i brani funzionano alla perfezione, senza un solo momento di stanchezza, non ci sono lampi particolarmente geniali.

 

Lo stile dell’autore è solidamente a fuoco: concreto, pungente, poetico ma mai serioso, diretto ma mai grezzo, pessimista ma mai arreso. E, musicalmente parlando, decisamente sopra la media, grazie soprattutto al buon cast strumentistico di cui Alessandro si è circondato. Forse proprio a questa chiarezza d’intenti, che più volte comporta il rischio di ripetersi, è da imputare la mancanza di episodi sopra le righe. E se ci soffermassimo a lodare un campione di eleganza come “Il primo ballo”, impreziosito da garbati virtuosismi che sfumano in un malinconico finale latino-americano , o la farsa tragicomica del picaresco protagonista di “Giovanna”, ma anche il pub rock di “Dieci metri sotto la città” o il reggae composto di “Tre linee confuse”, faremmo senz’altro un torto agli altri sette brani, che rappresentano esattamente, al pari dei quattro citati, ciò che vorremmo ascoltare dopo le due di notte in qualche bettola avvinnazzata di provincia, ormai certi che il bruciore del whisky sul palato ci accompagnerà fino all’alba. Sperando che proprio in quel locale, prima o poi, arrivi un misterioso avventore chiamato Bacco e, imbracciata una chitarra, ci regali le sue affascinanti e non troppo fortunate canzoni.

 

 

Anche io non posso entrare – Lucio Franceschetti (L’ISOLA CHE NON C’ERA; marzo 2002)

 

Alessandro Ducoli, mente e voce di Bacco il Matto, è uscito con un nuovo CD solista, con arrangiamenti curati fin nelle sfumature. Gli strumentisti che lo accompagnano sono di qualità: Arcangelo “Arky” buelli, Massimo Saviola, Mario Stivala, Beppe Gioacchini, Oscar del Barba, Lorenzo Lama, Fausto Beccalossi e Guido Bombardieri; formano un gruppo omogeneo e ben affiatato ed è evidente che credono nel progetto. Si sanno districare bene sia quando si tratta di volare alto, sia quando si tratta di picchiare duro. E ducoli con loro esplora territori diversi con leggerezza: dal rock-blues penetrante di Io ti sparerò per primo, al richiamo della melodia di Il primo ballo e Alcune cose inutili, dallo ska di Giovanna, al reggae di Tre linee confuse. La voce è calda anche se nei pezzi più duri diventa fumosa, fino ad arrivare ai maltrattamenti dei filtri ed alle distorsioni del megafono. Ma. Come lui stesso dice: “Il più grande imbroglio della nostra vita sono le parole….”, parole che raccontano della vita, soprattutto della sua. Eventi piccoli e grandi, mediati dalle emozioni, dall’amore, dall’accanimento. Sono i racconti di uno che vive da non-allineato, che gioca a fare il rocker duro e dissoluto, quello che maltratta e si maltratta, ma sicuramente dentro ha un’anima da buono. Testi immediati, ma non banali. Parole eruttate di getto, senza cercare fronzoli o la poesia a tutti i costi. Una per tutte Anche io non posso entrare urlata al megafono e con accenti waitsiani. Emblema di questa apparente contraddizione tra il bisogno di esprimersi e la ricerca di sintesi, tra il vagabondo dissoluto e l’anima romantica.

 

 

Anche io non posso entrare - Gian Paolo Laffranchi (BRESCIAOGGI; 24 settembre 2001)

 

Bacco, tabacco e rock nell’America del Ducoli. Ma la notte è solo un particolare. Un luogo comune del blues, uno stereotipo del “Rock made in America” sincero e sanguigno, come la nicotina, il whisky, il cappello.Ma c’è molto di più nella musica appassionata e indolente di Alessandro Ducoli, fantastico “loser” camuno. Le sue canzoni riempiono la testa di suoni e il cuore di pensieri. Sono scritte per essere conosciute, mandate a memoria, digerite, amate, come si ama l’odore della propria cucina, il rumore della chiave che apre la porta di casa. Profumo di sensazioni quotidiane, dolcezza di slanci spontanei e genuini.

 

L’istinto guida il Ducoli  fin dall’incipit: il disco si apre con Perfetta, giro armonico e alcolico nella “contrada dei pazzi”. Poi “..la nebbia agli irti colli piovigginando assale”: è la chitarra di Lorenzo Lama che è un serpente a sonagli, sibila riff Hendrixiani in Io ti sparerò per primo e penetra nello stomaco, poi sale dritto fino al cuore. Un pezzo strepitoso. Il primo ballo si sposa con Arrivederci ancora: suggestioni romanticamente fossatiane, elegantemente crepuscolari. Prevért è rock metropolitano, poesia e rabbia che s’addolcisce in Lulù, melodia avvolgente, quasi DeGregoriana. Rino Gaetano rivive e suona con Willy De Ville nella seduttiva, sinuosa Giovanna. Tre linee confuse è un omaggio al miglior reggae italiano (ancora Fossati per intenderci). Il rock alla Mellencamp riaffiora in Dieci metri sotto la città, privilegiando il vigore delle chitarre senza trascurare gli arrangiamenti, curati impeccabilmente in tutte le tracce da Massimo Saviola e Arcangelo Buelli. Dopo le schegge taglienti della title-track (Anche io non posso entrare), Alcune cose inutili riscopre il gusto della pioggia. Il vento che soffia in un sax.Se il belpaese fosse America, questo disco, in distribuzione in tutti i cataloghi IRD Italia, dovrebbe consacrare la carriera solista del Ducoli.

 

Il suo non è un debutto: nato a Breno nel 1971, già in prima fila nell’ensamble Bacco il Matto, ha alle spalle due opere (“Lolita”, 1997; “Malaspina”, 1999). Negli anni ha intrecciato collaborazioni significative. In “Anche io non posso entrare” una band dal sound torrido (Lorenzo Lama alle chitarre, Renato Saviori al pianoforte, Massivo Saviola al basso e Arky Buelli alla batteria; i due della sezione ritmica hanno registrato e missato tutto il disco all’ARKY STUDIO di Paratico), con il talento di Oscar Del barba (piano, organo e tastiere), Mario Stivala (chitarre acustiche), Beppe Gioacchini (percussioni), Guido Bombardieri (sax e clarinetto) ed Elena Sbalchiero (cori). 

 

 

Anche io non posso entrare - Mauro Eufrosini (JAM – Ottobre 2001)

 

Bella e complicata l’anima (musicale) di Alessandro Ducoli, tentata tanto dalle dissolutezze di certo Rock and Roll sulle tracce di Lou Reed e Neil Young, inseguite con Bacco il Matto, quanto da dissoluti vagabondaggi alla ricerca dell’ultimo bar aperto, con il mangianastri della macchina a sfiatare i versi di Ciampi, Gaetano e Capossela. Questi sono i vagabondaggi che Ducoli racconta nei suoi album solisti, già tre ai quali oggi si aggiunge Anche io non posso entrare. Un album bello e complicato come il suo autore, denso di suoni e tensioni, scomodo nella sofferta dinamica tra urgenza espressiva, quasi prepotente, e ricerca di sintesi, piacevolmente evidente nella cura minuziosa degli arrangiamenti, dei toni e dei colori di ogni singolo intervento, strumentale o vocale.

 

Per certi versi anche l’album della (temporanea) maturità di Ducoli, che riesce con maggior frequenza, rispetto alle prove precedenti, a costruire sembianti verbali incisivi e ben incollati allo svolgimento musicale della canzone. Quasi perfette sono ad esempio canzoni come Il primo ballo, Lulù, Arrivederci ancora o la conclusiva Alcune cose inutili, sospese tra respiro di ottoni solitari e punteggiate da fraseggi ritmici nervosi ed eleganti. Sono il lato romantico di Ducoli, dove anche la voce si accomoda sull’eco dei rimpianti, ed il richiamo della melodia è più intenso. Altrove, nei brani più duri e “rocckati”, Ducoli arriva a maltrattare anche la propria voce, sfigurandola con megafonie filtri vari, e le chitarre e l’hammond prendono il posto dei ottoni e del fretelss, nel gioco delle complicità solistiche. Tra questi piacciono particolarmente la title track, dall’accento Waitsiano e Io ti sparerò per primo, dagli inaspettati risvolti brit blues vintage.

 

Malaspina / Anche io non posso entrare - Gordon Ipaloma (Nessun Dorma)

 

Malaspina

Quando la vita ci trascina in un porto non possiamo far altro che seguirla. Soprattutto in giornate ventose, in mezzo a onde di dieci metri che rischiano di trascinarci sott’acqua, è difficile trovare la folata giusta, quella costante, quella pronta ad accompagnarti alla fonda. Raro è trovarne una sola; spesso sono infatti diverse le correnti che direzionano il nostro scafo. Ci sono marinai che seguono la scia lasciata da imbarcazioni precedenti, altri che tracciano un solco proprio in mezzo alle onde. C’è però anche chi inconsciamente, in tempi di tempesta, prende dritto per il mare aperto. Tutti di corsa in porto e qualcuno che inverte la rotta, sfidando su di una goletta spartana ma profondamente confortevole, la forza del mare. Unico lusso che si concede questo pazzo è la raffinatezza delle vele, l’elemento essenziale affinché la barca cammini. L’eleganza della semplicità potrebbe essere una delle cose che, una volta in mezzo a cotante onde, ti può salvare.Ora vi è lecita la domanda sulla reale direzione che il nostro ardito uomo di mare sta prendendo. E’ presto detto. In mezzo al mare c’è un’isola dove la poesia dell’amore non cessa, c’è un isola di quindici allettanti sirene. La barca si avvicina all’isolotto e, con la leggiadria di un ubriaco che si trascina senza mai cadere a terra, approda all’isolotto caricando tutte e quindici le dannosissime donzelle. L’epica ci ha insegnato che sirene vanno rifuggite come il peccato, almeno che il salvarci non ci interessi.Tenerle a bada non dev’essere stata cosa facile per Alessandro Ducoli che di questa folle storia ha fatto un disco al quale ha aggiunto, in un’elegantissima confezione, un delirante libercolo di sue composizioni poetiche. Storie sincere, a tratti affascinanti e commoventi, a tratti grottesche e guascone. E’ un disco da marinaio, un disco di quindici canzoni che spesso prendono correnti diverse, seguendo la scia di altre barche o frequentemente guidate verso il mare aperto. A tracciare la rotta di questo viaggio insieme a Ducoli ci sono musicisti sapienti ed eleganti, strumenti acustici dei quali spesso rischiamo di dimenticarci. Quindici opere di artigianato musicale che trovano nella linearità il loro punto di forza, pochi elementi messi in fila uno dietro l’altro. Sono situazioni ed esperienze fissate senza alcun desiderio nostalgico. Si sente l’esigenza da parte del nostro marinaio camuno di congelare questi attimi e di donarli così… a noi decidere il loro destino. Divertenti e malinconici giochi verbali girano sulle note. E’ un disco da rispettare per la necessità che ne traspare.

 

Anche io non posso Entrare

E tutto ancora una volta è disteso lì.

Gli scogli sono scomodi, sembrano volerti trafiggere l’animo ma questa è una storia d’altre stagioni; ora, tra le onde, ruota il tempo di “Anche io non posso entrare” e l’onda si protende ad ammirarti da una prospettiva diversa.Tra le rocce più alte rimane imprigionata l’acqua della burrasca. Sembra quasi che lo facciano apposta, gli scogli; il mare li schiaffeggia da millenni e loro, tra le rughe che solcano i loro visi, ne rapiscono un pò. Lì starebbe un briciolo di un’effimera fine del mare, lasciandone al primo sole solo un pugno di sale. Sarebbe un misero modo di chiudere il sipario per l’elemento che tanto taluni impaurisce e altrettanti fa sognare. Ma Sandrino però non ci sta, non porta rancore ma decide di ridare la libertà al mare. Ancora una volta ha deciso che le cose è meglio che vadano diversamente. Allora eccolo unire le sue mani a formare una tazza e poi pian piano riempirle con l’acqua rimasta fra le rocce, rigettandola in mare, orfana per poche ore ed ora di nuovo nel grembo materno. Quando per Sandro sarà di nuovo il momento di riprendere il largo vedrete che il mare se ne ricorderà; il mare, come del resto molti di noi, non dimentica i ducolosi gesti. E poi io sono sempre stato dell’idea che il mare ama la gente di montagna, quantomeno perché, stando dove sta, lo lascia in pace. A questo punto però il sole sfuma e Sandro torna solo e riflessivo verso la fonda in cui Malaspina l’aveva tratto. La goletta è in porto, pronta ad accogliere chiunque voglia passarci del tempo e Sandro non è altro che un tenero ed un po’ imbarazzato padrone di “casa”. La proverbiale eleganza delle vele, che da sempre accompagna il viaggio del Ducoli è ancor più memorabile, vi assicuro che danno al vento un suono mai udito, sarà mai che l’artista che dimora in lui si sia ulteriormente affinato? Probabilmente sì ma vi confesserò, in tutta sincerità, che questo timido ubriaco (questo resta, non fatevi ingannare) ha finalmente una famiglia attorno a sé. Una famiglia che lo stima e che lo rimprovera, che corre in suo aiuto quando elementi distillati lo trascinano su di una rotta non necessariamente errata, ma insensatamente più lunga del dovuto. Una famiglia  che gli ha permesso, stavolta fuor di metafora, di aprire la sua voce. Questo disco è la voce di Alessandro Ducoli, una voce che dentro di sé raccoglie un po’ di mare (vi dicevo che il mare non dimentica). La sensazionale e disarmante normalità di ciò che è profondo.               

 

 

 

MALASPINA (1999)

Recensione di Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk


A vedere la copertina sembra uno di quei libercoli vecchi ed ingialliti che si trovano nelle nostre polverose soffitte e invece lo apri, e trovi le pagine dei testi, poi una raccolta di poesie distorte come una chitarra scordata ed infine il disco. L'ascolto è un viaggio entusiasmante nella poesia, trasportati dalla corrente di un fiume di musica in piena. Le tracce svelano arrangiamenti soffusi quasi jazzy che non smettono mai di sorprendere, la poesia a volte scanzonata e ubriaca, a volte passionale al punto da toccare e riscaldare il cuore, sono le passioni, le impressioni di un uomo, di un cantautore che si mette a nudo attraverso le proprie canzoni. Più vicino alla poetica di Waits che a quella del nostrano Capossela, Alessandro Ducoli, nelle nei panni da solista, è un cantutore dal songwriting raffinato, pulito che tocca il suo vertici in brani come la prima traccia del disco L'amore arriva come un temporale, Tutti al bar, Omicidio Consentito e Il soldato dell'amore, quest'ultima traballante e sconclusionata come nessuno riuscirebbe ad immaginare. Insomma 15 brani tutti da ascoltare e da scoprire, per conoscere solo uno spicchio della multiforme personalità di Alessandro Ducoli

 

 

ANCHE IO NON POSSO ENTARE (2001)

Recensione di Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk


Anche io non posso entrare è la terza prova da solista di Alessandro Ducoli, è un disco che impressiona sempre di più ad ogni ascolto e che lungo le undici tracce lascia che l'ascoltatore attraversi la poetica tutta italiana vicina al miglior Piero Ciampi, il songwriting stradaiolo di Willie De Ville e John Mellencamp e il cantautorato tutto americano di Neil Young e Lou Reed. Si tratta dunque di brani molto coinvolgenti in cui emerge ancora una volta l'alta competenza musicale di Alessandro Ducoli che riesce nell'impresa di mescolare sapientemente tutte le sue influenze creando un disco vario e mai piatto. Durante l'ascolto emergono con grande forza alcuni ottimi brani come Perfetta, reincisa di recente e in parte tradotta in inglese per il progetto My Uncle The Dog, la tenue e romantica Il primo ballo, Lulù, Arrivederci ancora e il quasi ska di Tre Linee confuse che spezza per un attimo la tensione del disco. Alessandro Ducoli, con questo disco conferma tutte le sue qualità e va a posiszionarsi ben oltre le promesse del cantautorato emergente italiano, diventando una certezza. Un consiglio questo è un disco che non dovrebbe mancare nelle collezioni degli appassionati di cantautorato italiano.

 

 

Anche io non posso entrare – Marco Quaroni (Il ritorno di Ducoli, musicista raffinato; Il Giorno 03-04-2001)

 

Anche io non posso entrare; un titolo che evidenzia anche un preciso percorso artistico e culturale, una dedica speciale ad un artista che intitolò il suo disco d'esordio "Ingresso libero".

Alessandro Ducoli, è un musicista di stampo antico e prezioso, residente a Breno ma artisticamente legato alla Valtellina, terra che ha dato i natali alle sue prime, entusiasmanti esibizioni dal vivo. Negli ultimi quattro anni ha inciso due dischi con il gruppo come Bacco il Matto, San Marco e Cercatori d'oro, e altri due da solista "Lolita" e "Malaspina". 

 

Con uno stile che alterna un rock'n'roll crepuscolare ad un cantautorato italiano che molto si avvicina alla lucida maestria di Rino Gaetano e Vinicio Capossela., il Ducoli si presenta con la terza fatica solista. Si tratta di un'opera che contiene 11 importanti tracce di vita e che da Perfetta a Giovanna, da Io ti sparerò per primo a Alcune cose inutili, alterna un rock spesso urlato in un megafono waitsiano a ballate romantiche e vagabonde rette da una voce calda e da un gruppo di musicisti di valore assoluto. Ducoli presenterà il disco in Valtellina con una serie di serate che lo porteranno nel mese di maggio in Aprica e poi a Tirano.

 

 

“La nuova canzone d'autore ha anche la voce di Ducoli; CONCERTI A Bolzano per pochi una grande serata”- Fabio Zamboni (L’Alto Adige; 15-10-01).

 

Quando si scrive di un concerto, lo si fa un poco per chi c'era, al concerto, e un poco per chi non c'era: ai primi si offre una chiave di lettura, ovviamente e giustamente soggettiva, della serata; agli altri la notizia di un evento a cui non hanno potuto o voluto partecipare. In questo caso - il concerto che il cantautore Alessandro Ducoli ha offerto con la sua band nel secondo sabato live del circolo Masetti, a Bolzano - i pochi che c'erano hanno vissuto così intensamente il rapporto con il musicista da rendere superflua qualsiasi interpretazione. Racconteremo perciò agli altri: agli assenti giustificati ma anche a tutti quelli che si lamentano ché a Bolzano non c'è mai niente di nuovo e a tutti i musicisti locali che avrebbero bisogno di aria fresca, di un confronto con realtà diverse.

A tutti questi diremo che Alessandro Ducoli, trentenne camuno (Val Camonica) con alle spalle una mezza dozzina di dischi col suo cognome ma anche con lo pseudonimo di Bacco Il Matto nella sua versione più folk-rock e springsteeniana, ha offerto oltre due ore di canzoni piene di vita e di musica, esaltandone le qualità intrinseche (quelle che si possono ascoltare nel cd) con una performance fatta di una voce fumosa e sincera, di introduzioni folgoranti, di uno spessore musicale dovuto alla qualità dei singoli strumentisti ma anche e soprattutto alla credibilità di un progetto in cui tutta la band crede pienamente: con molta ironia e molto divertimento ma anche altrettanto impegno e fantasia.

Il rock-blues di Io ti sparerò per primo e di Rosa, lo ska di Tre linee confuse, i dolci languori di Lulù e il rock possente di Berlicche danno allo show un andamento che rinnova curiosità e interesse canzone dopo canzone, passando per qualche pezzo più datato e per alcuni inediti tra cui un commovente omaggio a De André (Nina).

 

Il Ducoli racconta la sua vita, piccoli e grandi accadimenti quotidiani tutti condizionati dall'amore. Ma è una vita (e un amore) per niente banale, vissuta con la passione di un non-allineato, di uno che tira tardi la sera, che non accetta compromessi, che le canzoni le suda e le fuma, e le scrive con la penna intinta nella schiuma della birra. Parole semplici, immagini immediate, eppure nessuna banalità. Fatte le debite proporzioni, scorrono davanti i fantasmi di Capossela e di Tom Waits, ma non c'è imitazione, nemmeno nelle ballate sghembe come Sgangherata in cui paragona le rane illuminate dai fari su una strada piovosa agli artisti che si agitano sotto i riflettori del palcoscenico. Poesia e ironia, e tanta voglia si cantare e di suonare.

 

Insomma, i nuovi cantautori italiani esistono, anche se il mercato crede che non ci sia più nessuno dietro ai De Gregori e ai Fossati. E se non se ne accorge il mercato, figurarsi se ne accorgono i bolzanini, e di loro quei pochi che ancora cercano qualcosa di nuovo nella canzone d'autore italiana.

 

 

Anche io non posso entrare - Corrado Spotti (Bergamo settimanale 11-11-01)

 

L'apertura dell'album è di quelle che attizzano. Perfetta è una canzone che fa onore al suo titolo e sembra tratta da un Tom Petty d'annata ,diciamo all'altezza di "Damn the torpedos". Poi il resto del disco si dipana con piacevole consapevolezza,attraverso un rock cantautorale che non si trattiene da sconfinamenti inaspettati. C'è la fisarmonica e c'è il contrabbasso,il sax e il clarinetto,un bel po' di tastiere e,di tanto in tanto, una chitarra elettrica curiosamente riminescente dei suoni di Donald "Buck Dharma"Roeser dei Blue Oyster Cult più accomodanti. Ma soprattutto, c'è molta scrittura cantautorale , presa in mezzo tra l'Italia impegnata e il rock americano .

 

Alessandro Ducoli non è sconosciuto dalle nostre parti. Viene da Breno e vanta all'attivo,prima di questo album, un paio di dischi in proprio e con i Bacco il matto,il suo progetto collaterale.

Ha frequentato a lungo i locali della zona bergamasca, meglio se dell'area Sebina, ed è un indubbio piacere vederlo crescere musicalmente, con un album di livello che gli permette una visibilità più ampia anche su scala nazionale. Di Anche io non posso entrare parliamo con qualche mese di ritardo sull'uscita, grazie anche alla circostanza di un'esibizione di Ducoli: il prossimo 1 dicembre al Ninfea di Spinone al Lago. Ma ne vale la pena, perché si tratta di un album di qualità. Ora, però, per Alessandro Ducoli le cose diventano complicate. Come dare un seguito ancora più grande ad una carriera alimentata da un evidente talento? A questo punto non basta più fare belle canzoni.

 

 

“E' tenera la notte a Villa di Tirano”. Paolo Redaelli (La Provincia; 28 –01-02)

 

E' tenera la notte a Villa di Tirano e risuona di parole e di musica, perché sul palco del Funanà ci sono Alessandro Ducoli, cantautore con band e Marco Quaroni, scrittore tout court. Insieme danno vita ad una strana serata in questo locale dal nome esotico e misterioso (nessuno sa spiegarcene il significato, ma «fu» sta sicuramente per fumoso, come appunto si addice alla bisogna), pieno di ragazzi che in un venerdì di gennaio han voglia non solo di bere ma anche di ascoltare suoni e parole. 

 

Quando la temperatura è giusta, parte Quaroni, cappello nero e sciarpa scarlatta, recitando le recensioni giunte on line ai suoi prodotti letterari, la più benevola delle quali recita, parafrasando il titolo dell'ultima sua fatica: «gli struzzi sono buoni solo al forno». E' un modo per rompere il ghiaccio, perché il giovane vecchio ragazzo (1976) sa scrivere bene e i suoi libri meriterebbero maggior fortuna, anche se sono oggetto di culto appassionato.  Quaroni è di Villa e in questo piccolo paese è cresciuto anche un altro scrittore (e saggista e regista) come Grytzko Mascioni. Mica male per un agglomerato di duemila anime, sparpagliato qua e là sui monti. Marco dichiara il suo affetto per il borgo natio e selvaggio e poi lascia spazio ad Alessandro Ducoli da Breno, Valcamonica, cantautore roc(k)cioso e ironico che a me ricorda Rino Gaetano e John Hiatt, destreggiandosi tra rock e swing e ragtime e blues e reggae con una musica composita che non conosce la parola noia.  La band è più che all'altezza e si lancia in gustose improvvisazioni, anche Ducoli è uno che con la penna ci prende (non solo quella della chitarra) e canta di amori perduti e di storie malate e di caserme. Ma non è un lagnoso songwriter. La sua musica possiede qualità ed energia e i titoli colpiscono come slogan: «Io ti sparerò per primo», «Io convivo bene con la mia pazzia». E la band (Lorenzo Lama chitarra, Massimo Saviola basso, Renato Saviori tastiere, Arcangelo Buelli batteria), macina chilometri su strade polverose e c'è un bellissimo momento quando Lama insegue echi hendrixiani in una «little wing» cantata in portoghese da Ducoli. 

 

Pausa per un po' e Quaroni vuol fare leggere a Veronica Sbergia (bella voce blues prestata alla letteratura) il suo racconto su Vladimir Kaifa, novello Icaro salvato dal provvidenziale letame, ed è una bella parabola sull'umiltà. Però il pubblico borbotta e le parole si perdono. C'è più rispetto per la musica che per le lettere, ma la ditta «Quaroni e Ducoli» forgiata da amicizia vera va dritta per la sua strada con pervicace ostinazione e a ottobre uscirà un «lisco» (o «dibro») a quattro mani e queste serate servono a collaudare il prodotto che verrà. Siamo ansiosi.

 

 

“Poesia e ironia, la band del Ducoli stupisce e conquista”. Ilenia Posterla (Il Giorno; 27/01/02)

 

VILLA DI TIRANO: Poesia e ironia, Musica e impegno. Quando una voce calda e sincera riesce a dare colore ai versi di un prosatore può nascere una serata particolare. Canzoni, deliri e sentimenti sono stati gli ingredienti del venerdì sera al pub Funanà di Villa di Tirano. La band del Ducoli ha stupito i numerosi presenti con arrangiamenti e assoli, vocali e strumentali, di sicuro effetto e di qualità. Il rock metropolitano, con tratti di blues e reggae, si è fuso magistralmente con la tradizione della musica italiana d'autore.  Le canzoni di Alessandro Ducoli, trentenne camuno con al suo attivo due dischi da solista e due con il gruppo, oltre all'ultimo lavoro "Anche io non posso entrare" sono un inno alla vita, riempiono il cuore di pensieri e la mente di sensazioni. La voglia di trasmettere musica, parole e canzoni del Ducoli, della sua band e di Marco Quaroni, giovane valtellinese compagno di avventura, autore di un romanzo, una raccolta di racconti e un monologo, "Struzzi da corsa", ha contagiato i giovani e i meno giovani che si sono trovati al Funanà la scorsa notte.

L'insolito e indovinato sodalizio musicale e letterario si va consolidando con serate nelle varie località non solo di Valtellina e Valcamonica, ma anche al di fuori del territorio regionale (sono stati a Bologna e a Roma). Il prossimo appuntamento in calendario è a Bergamo città (per avere maggiori informazioni si può digitare l'indirizzo www.ilducoli.cjb.net) il 29 gennaio. Da risentire.

 

 

Lolita – Gianpaolo Laffranchi (Bresciaoggi; 17 ottobre 2007)

 

Un album da bere. Doppio come un whisky, distillato nel 1996 e imbottigliato nel 2007. Alzi la mano chi ricorda un esperimento del genere. Originalità: è il marchio di fabbrica di Alessandro Ducoli, cantautore Doc orgogliosamente distante dalla categorie di ieri, oggi e domani. Con «Lolita’s Malts» sale sul macchina del tempo e gioca a confondere le acqueviti con un disco che è a tutti gli effetti il suo primo, tirato a lucido con marchingegni tecnologici.
Crudo e nudo nella versione originale «Middle cut», elettronico e nervoso in quella speciale «11 years old», questo doppio Ducoli è una prova divertita di maturità e coraggio. La prima facciata dei Malti di Lolita seduce con un mazzo disordinato di canzoni imprevedibili (incantevole «Cupido è un pazzo») e il consueto valzer di collaboratori eccellenti (spiccano Fausto Beccalossi alla fisarmonica, Arcangelo Buelli alla batteria, Andrej Kutov al pianoforte e alle tastiere). Il remake rimasterizzato immerge le stesse canzoni in una salsa elettrica. Rintocchi liquidi, bassi profondi. Un mare ai confini col trip-hop («Benny Jag Blue»), illuminato da un sole dub, solcato insieme a Valerio Gaffurini che condivide il timone del progetto (ci sono le sue mani su pianoforte e tastiere, ma anche nella programmazione, negli arrangiamenti, nella registrazione). E fra le onde al malto non mancano certo le sirene (Stefania Martin e Veronica Sbergia ai cori).


Classe 1971, camuno di Breno, artista prolifico, chitarra e voce delle sue fantasie, il «Ducolo» ama la musica pura. Dà forma a un’ispirazione ruvida con colori diversi, ora tenui ora sgargianti. Passa con disinvoltura dal jazz al blues, da Jack Kerouac a Neil Young,. Ora come Bacco il Matto, ora come Spanish Johnny. E come il miglior whisky, «Lolita’s Malts» è in edizione limitata («1000 bottiglie»). Può essere acquistato al Disco Story di Darfo Boario Terme oppure richiesto direttamente all’autore attraverso il sito Internet www.ducoli.eu (baccoilmatto@libero.it). Impegnato da mesi nella promozione di «Brumantica» con i Bartolino’s (Mirko Spreafico alle percussioni, Andrej Kutov al piano, Alessandro Cecala al contrabbasso, Mario Stivala alla chitarra), Ducoli si è esibito proprio ieri a Roma al Festival «Dallo sciamano allo showman».

 

 

Lolita – Cesare Casalini (Vocecamuna; ottobre 2007)

 

L'aveva detto, il Ducoli, che aveva l'intenzione di rimettere mano ai nastri del vecchio "Lolita", l'album che ha rappresentato il suo esordio su CD nel 1996. Quello che non aveva preannunciato è che l'intenzione era quella di rivisitare i pezzi di quel bel disco, originariamente molto jazzato, in chiave elettronica, una cosa un po' difficile da aspettarsi da un tipo come lui. Fa infatti un po' specie pensare ad Alessandro Ducoli in mezzo a un techno raver studio a registrare questi pezzi, ma il risultato che ne viene fuori è sicuramente interessante ed affascinante, visto che nella nuova versione le canzoni non perdono un'oncia del loro significato e del loro fascino, anzi, in certi casi ci guadagnano, come in "Benny Jag Blue", dove viene accentuato e messo in evidenza il ritmo reggae, che peraltro non è presente solo qui. Tra i miei preferiti, sicuramente "Luna ubriaca", con voce filtrata e un ritmo ipnotico, "Nuda e cruda", e "Sapore nero", che personalmente mi ricordano il Tom Waits più sperimentatore e folle. Tutte le canzoni sono poi accompagnate dalla descrizione minuta del tipo di whisky adatto all'ascolto di volta in volta. Per coloro che si dovessero scoraggiare davanti a un ascolto così inatteso, niente paura: c'è sempre il "Lolita" vecchio, denominato "Middle Cut", visto che è l'imbottigliamento che viene dall'alambicco (cioè l'originale). Invece la "1st release" (che poi sarebbe "Lolita's malts") è la prima distillazione dopo l'invecchiamento di 11 anni. Io non sono un intenditore di whisky, ma una bottiglia invecchiata di 11 anni dovrebbe essere al punto giusto, no? E allora, alla salute!

 

Lolita - Giorgio Baratto (Viceversa)        

 

Opera prima per Alessandro Ducoli, in verità esisteva già un demo ma purtroppo la mancanza di esperienza e una produzione sicuramente non idonea alle sue composizioni avevano fatto sì che quel nastro non lo rappresentasse. Discorso diverso per questo CD che si avvale della collaborazione di ottimi musicisti che rappresentano l'elite della musica jazz italiana, il risultato è un disco denso di atmosfere jazz e solo il brano introduttivo Lolita varrebbe i soldi dell'album, il tessuto sonoro di tutto l'album ricorda molto gli ultimi lavori di Guccini la struttura delle liriche è però meno complessa del più famoso cantautore emiliano.

 

Un CD autoprodotto dalle atmosfere molto eteree dove i testi e le musiche di Ducoli vengono arricchite dagli interventi dei singoli musicisti, e l'ascoltatore viene cullato dalla fisarmonica di Fausto Beccalossi dalle tastiere di Andrej Kutov dal contrabbasso di Andrea Donati e il sax di Federico Putelli. Cercatelo e non ve ne pentirete.

Il CD è di difficile reperibilità in quanto autoprodotto ma potete richiederlo direttamente all'autore: Alessandro Ducoli Via Gera N. 6, 25043 Breno (Bs).

 

 

Lolita - ZenRen (360°)

 

Nove pezzi tendenzialmente swingati in questa autoproduzione di Ducoli, diluiti in atmosfere crepuscolari - perchè come canta lui stesso “qualche volta questi raggi di sole danno veramente fastidio” - ben realizzate con fisarmonica, allunghi di violoncello e definiti espressionisticamente dagli urli del sax.

 

Suppongo che alcuni riferimenti musicali possono essere Conte o forse di più Capossela. Anche il canto è swingato, forse un pò ripetitivo, come le melodie, ma del resto qui stiamo ciondolando sull'ultimo bicchiere, nell'ultimo bar, nell'ultima delle tante noti sempre troppo brevi e troppo inutili. Stiamo aspettando quel qualcosa di non ancora definito, quel qualcosa di puro cui aspira ogni anima immatura, inondata di interrogativi, gonfia di sentimento che ancora non sa davvero cos'è l'amore è l'oggetto della lacerata ricerca che sta svolgendo su un campo vasto quanto lo spazio tra paradiso e inferno. Che ancora non sa che servirà a niente. Buoni anche i testi, che parlano per lo più di amori annebbiati della sfumata tristezza giovanile dalla quale però emergono i tratti decisi di un carattere forte in divenire. Amori che si consumano di notte, tra sangue, pelle, carezze, desiderio, calore, baci, suoni e odori, mentre la finestra dell'alcova è una tela nera su cui i lampioni disegnano nell'aria fredda della notte fitte macchie di luce, come un firmamento. E a parte la ingenuità o la ruffianeria di versi come “la notte è fatta per sognare ... amare ... ballare” - troviamo anche “la coda del diavolo incollata all'asfalto” e “l'uomo è un cane che urla alla luna anche quando è contento”.

 

Qualcuno ricorda che l'amore è un cane che viene dall'inferno secondo Bukowski? Insomma i pezzi reggono ottimamente queste atmosfere notturne. Il che ne conferma la validità. Se avrete occasione di sentirle dal vivo, vi sorprenderanno per l'energia che covavano e che esplode nel riarrangiamento per gruppo rock. Il lavoro è tutto scritto, arrangiato e prodotto dal Ducoli. Visti i risultati non mi pare poco.

 

 

 

 

INTERVISTE

 

Cesare Casalini, www.vocecamuna.it

CESARE: Il terzo e ultimo elemento a esibirsi stasera al Conary Goes Acoustic 2004 è stato un signore che tutti noi ben conosciamo e che si è nascosto dietro il nome di Grapefruit Moon, in realtà è Sandro Ducoli. Come mai questa denominazione fittizia?

SANDRO: Nella tavola degli elementi io mi configuro come lo stronzio. Dovevo venirci con Mario Stivala e Federico Troncatti, doveva essere una cover band di Tom Waits, dovevamo fare Grapefruit Moon, però poi non avevano tempo.

CESARE: E ti hanno lasciato solo.

SANDRO: Sono stato presentato da un DJ che è griffato Sisley sopra e Rocco Barocco sotto. Una serata veramente storta all'inizio.

CESARE: Ho notato una serie di cover più qualche pezzo tuo pre-Bacco il Matto che tu hai rispolverato e che io ti dicevo da una vita di rispolverare, ma tu non mi ascoltavi, ad esempio "Benny Jag Blue"...

SANDRO: Ho scelto le cover perchè sapevo che qua alla gente non glie ne frega niente, quindi faccio un po' di ever green perchè evito di proporre le mie allucinazioni mentali, ma mi sono accorto che anche degli ever green non glie ne frega niente, probabilmente devo smetterla di fare queste pantomime rovk'n'roll. C'è troppo rock'n'roll in giro per pensare di proporre il mio.

CESARE: A proposito di rock'n'roll in giro, sto avendo notevoli riscontri tramite la radio e tramite gente che ha ascoltato il disco, sull'album di My Uncle The Dog, e che mi dice che è un bellissimo album.

SANDRO: Deve essere poca la gente che ha ascoltato il disco perchè ce li ho ancora quasi tutti a casa. Però quei pochi che lo hanno ascoltato sappiano che gli sarò eternamente grato.

CESARE: Sappiano che si tratta del miglior disco rock mai uscito in Val Camonica e in Lombardia, in Italia non so, va bè,

non andiamo troppo oltre, però...

SANDRO: Non so quali dischi di rock italiano conosci, io ne conosco veramente pochi.

CESARE: Comunque tra quelli che conosco io è uno dei massimi, soprattutto una canzone che mi è piaciuta parecchio e su cui vorrei chiederti qualche lume, "Lacqua".

SANDRO: "Lacqua" è una canzone un po'... ma poi sai, quando scrivi queste cose qui poi la gente non le capisce. Una canzone che cerca di raccontare il pentimento di un guardiano delle riserve idriche del 2040, siccome l'acqua fra qualche anno sarà il petrolio del futuro, il guardiano si pente di quello che sta facendo e vuole liberare questa riserva idrica per lasciare che l'acuqa corra di nuovo. Non so se bisognava dirla questa cosa, comunque è una canzone abbastanza difficile.

CESARE: Ultima domanda: come mai hai iniziato con Bob Dylan?

SANDRO: Ho iniziato con Bob Dylan perchè dovevo preparare la canzone per gli Spanish Johnny, siccome ci metto molto a imparare i testi, faccio molta fatica, ho cominciato a prepararmela da solo, ho detto: la faccio perchè è un pezzo che funziona sempre. Mi sono dimenticato le parole della terza strofa.

CESARE: Grazie e speriamo di vederci in finale.

 

 

Mescalina (Christian Verzelletti; giugno 2003).

 

Mescalina è orgogliosa di pubblicare la prima intervista mai realizzata in assoluto ad Alessandro Ducoli in quindici anni di presenza nel Folk-Rock italiano, ammesso che questo esista e che non sia piuttosto una sorta di limbo.  Sulla scia di “Taverne, stamberghe, caverne”, disco da poco pubblicato con “La banda del Ducoli”, siamo risaliti alla lunga storia di questo cantautore, originario della Valcamonica, fino a colmare un lasso di tempo personale ed artistico trascurato da molti. Pubblichiamo questa lunga chiacchierata nella speranza che qualcuno, oltre a noi, riesca a farne tesoro … prima che passino altri quindici anni.

 

Allora, Alessandro, vi ho conosciuto solo ora con questo disco: dove siete stati voi o dove sono stato io? Credo sia più un mea culpa …

Io sono sempre stato qui, “rinchiuso” in Camunia mentre i miei compari hanno sempre suonato nel circondario di Brescia. Forse non è colpa di nessuno, semplicemente l’Italia offre spazi e occasioni sempre più piccole per potersi esporre e proporre.

 

Raccontaci un po’ la tua/vostra storia, da Bacco il Matto …

In una riga: “…. disperato paroliere chitarraio camuno. Praticamente ignoto, altrimenti dimenticato ….”. In realtà: “…. Ho iniziato verso la metà degli ‘80 avvicinandomi alla musica attraverso il cantautorato italiano più o meno “classico” e qualcosa del folk americano più conosciuto. Con un gruppo di amici ho fondato gli Springs con cui, oltre a canzoni mie, proponevamo alle festicciole canzoni di Neil Young, Bruce Springsteen, De Gregori, Dylan, De Andrè, Waterboys, U2, ecc. In questa formazione suonavo l’armonica e cantavo. Le prime cose che scrivevo ovviamente soffrivano dell’inesperienza giovanile (ad esempio trattavano i “grandi” temi della vita che, un quasi 18enne spesso non riesce a rendere in maniera adeguata). Erano comunque buone cose e alcune di esse ancora oggi le suono privatamente … conservo un demo registrato molto bene di un concerto in cui ci sono le cose migliori che abbiamo costruito con gli Spings …

 

Magari un giorno lo potrai vendere come un pezzo da collezione … o magari un po’ prima di quel giorno, non si sa mai che qualcuno leggendo l’intervista …

Il primo grande cambiamento è arrivato con l’Università. I Jane’s Addiction, i Pearl Jam, gli Alice in Chains, gli Screeming Trees e i Nirvana (capisci di cosa sto parlando? Erano finiti gli anni ’80!). È stato un momento che mi ha portato a sviluppare una certa curiosità nello stile di scrittura “non italiano” ed a conoscere infinite quantità di musica: Tim Buckley, Nick Drake, Joni Mitchell, Tom Waits, John Martin. Nel frattempo ho approfondito la conoscenza dei cantautori Italiani che amavo di più: De Gregori, Conte, De Andrè e Rino Gaetano. In quel periodo nascono i Pond Spashing (letteralmente “sguazzare nella pozza”), poi ribattezzati Cantina Occupata (credo in segno di protesta alle occupazioni gratuite di certe fazioni studentesche del periodo; qualcuno forse si ricorderà la Pantera). Proponevamo un “Grunge camuno” che mischiava una serie di cose (forse perché non eravamo in grado di darci un’identità precisa), tra cui anche spunti “rubacchiati” ai Cure che in quel periodo mi hanno appassionato molto (soprattutto per quanto attiene le liriche). Il progetto è finito per questioni di lavoro di alcuni componenti intorno al 1993.

I due anni successivi, con l’aiuto di Luciano Mirto (chitarrista camuno), ho realizzato un demotape nel 1993 (“Rosso”) e uno a cavallo tra il 94 e il 95 (“Sopra i muri di questa città”). Nonostante la pesantezza dei due lavori sono riuscito a farmi ammettere ad una delle infinite semifinali di Rock Targato Italia (certamente uno degli episodi più tristi della musica italiana). Suonavo da solo su una base preregistrata: uno schifo di spettacolo.

 

Mi sa che di questo sarà ancora più difficile piazzarne la registrazione!

L’anno successivo ho deciso di cambiare registro e di costruire il mio primo vero album solista: “Lolita”. I demo precedenti mi avevano deluso perché non ero riuscito a dare la forma giusta alle canzoni; questa volta volevo un disco di fisarmoniche, contrabbassi, pianoforti e sassofoni. Ci sono riuscito. Forse per fortuna o forse perché ad aiutarmi ho chiamato dei musicisti di prim’ordine tra cui anche Arcangelo Buelli che nemmeno si rendeva conto di quale collaborazione negli anni successivi avremmo intrapreso. “Lolita” è un disco che contiene diversi errori tecnici e alcune ingenuità compositive che tuttavia si equilibrano in maniera meravigliosa nel mood complessivo del lavoro. La mia intenzione era quella di produrre un disco notturno di canzoni romantiche e deliri alcolico-amorosi (forse Tom Waits in quel periodo era l’artista che mi interessava di più ma non credo sia andata del tutto così) per cui anche l’ingenuità doveva essere una componente poetiche delle liriche e delle musiche. “Lolita” contiene alcune canzoni che ancora oggi la gente mi chiede di cantare ai concerti; forse un giorno riapriremo i nastri del lavoro per correggerlo (forse ricantarlo) e per farne una masterizzazione dignitosa.

 

Scusa se insisto, è che di solito gli archivi dei musicisti vengono recuperati e resi noti dopo la morte degli stessi … questo ribadire vuole essere un augurio a due sensi …

La partecipazione ad un concorso musicale (l’ultimo della mia vita) è stato il “pretesto” per rimettere in piedi una banda. Mi piaceva il nome Bacco il Matto perché contiene un omaggio alla mia terra (in camuno “bacco il matto” significa letteralmente “faccio il matto”) e soprattutto perché sottolinea l’unico dio che ritengo davvero interessante. Ho coinvolto nel progetto Nicola Bonetti (che conoscevo perché spesso mi chiamava nella sua band per suonare l’armonica), e Mario Stivala che era uno dei migliori chitarristi che la camunia potesse schierare. Alla fine del 1996 è nata la Bacco il Matto Band, poi ribattezzata semplicemente Bacco il matto, un progetto elettrico centrato sulle loro due chitarre che suonava “schieratamene” Rock.

Abbiamo iniziato a mettere in piedi il repertorio arrangiando  alcune canzoni di “Lolita” in veste elettrica (è incredibile ascoltare come in entrambe le situazioni il contesto delle canzoni venga mantenuto intatto e ne sia rispettata l’esigenza comunciativa) e canzoni di Young, Springsteen, Iggy Pop, Lou Reed, ecc. Abbiamo fatto una serie di serate molto intense e la gente ha risposto con grande entusiasmo: “Questa sera andiamo a vedere il Bacco”, ecco cosa diceva la gente in camunia (eravamo davvero una buona Rock’n’Roll band). Purtroppo nel 1997, quando le cose con il Bacco stavano girando a mille all’ora, sono dovuto partire per il Corpo degli Alpini e c’è stato un anno intero di stop. Al ritorno dalla Tridentina di Bressanone ho trovato una banda praticamente sfasciata per i soliti motivi: matrimoni, impegni di lavoro ecc.

 

Nella tua storia c’è sempre qualcosa che si fra te ei tuoi progetti, fra te e la realizzazione della musica … anche questo è molto “rock”, intendo come difficoltà e sofferenza per giungere alla musica …

Nicola Bonetti ha deciso di riprendere in mano le redini della situazione e abbiamo rimesso in piedi il Bacco. Abbiamo chiamato al basso Luca Pedrazzi e alla batteria Mauro Ferretti. È stato un anno intensissimo di concerti che è culminato con la registrazione di “San Marco”. Due giorni in un garage di Berbenno con il fonico Giuseppe Salvatori e il primo disco del Bacco era pronto. San Marco esprime la “necessità di Rock’n’Roll”; canzoni come “Cane randagio”, “San Marco”, “Nuda e cruda”, “Marisa ha un nome”, “Babilonia”, lo sottolineano con tutta la forza che avevamo (ti assicuro che era davvero tanta). Il disco è stato ben accolto dalla critica anche se i tuoi colleghi non si sono mai spesi molto per riconoscere che in quelle canzoni oltre a tante buone cose c’era davvero del Rock (intendo nel senso più filosofico del termine – senza nessuna presunzione - per me per “essere Rock” prima bisogna “vivere Rock”, poi dopo si capisce cosa significa e si riesce a dare il proprio contributo, grande o piccolo che sia; band che copiano il Rock americano ti accorgi che non sono rock perché non vivono così). Il pubblico ha salutato il disco gloriosamente. “Nuda e cruda” è addirittura diventato il grido di battaglia degli operai della ferriera di Lovere alla fine della giornata di lavoro. Cheap Taylor, in vacanza in quel periodo a Bologna, riceve da un nostro amico (Mauro Eufrosini) un copia di “San Marco” e lo trova molto sincero: ci regala una canzone speditaci direttamente da NY in una busta contente soltanto la registrazione DAT di Raffaella. Incredibile: Rock, troppo Rock! Euforia, non credevamo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, eravamo già pronti per iniziare a lavorare al disco nuovo.

Parallelamente ho cominciato con Mario Stivala ad arrangiare un pugno di canzoni cui volevamo dare una veste decisamente acustica. Abbiamo lavorato come dei folli e ad aiutarci abbiamo chiamato Arcangelo Buelli che oltre ad aver suonato ha interamente curato la realizzazione del disco. Inizialmente volevamo fare un doppio album di 18 canzoni, ma per motivi soprattutto di tempo e risorse abbiamo registrato 15 canzoni. “Malaspina” è il disco che amo di più tra quelli che ho realizzato, anche per il contesto in cui è stato realizzato: era la mia via di fuga da un periodo devastante per questioni familiari ed era il mio modo di affermare che si può fare musica di buon livello anche al di fuori dei grandi centri della produzione musicale italiana. Il disco doveva apparire come una sorta di episodio nel mio percorso musicale che in quel periodo era praticamente centrato sul progetto Bacco il Matto. Non è stato del tutto così, perché le canzoni contenute in “Malaspina” hanno colpito i coraggiosi che hanno ascoltato il disco riconoscendomi finalmente la qualifica di cantautore. Bellissimo, grande musica. La confezione del disco è molto particolare (praticamente un suicidio finanziario) e contiene un booklets ricchissimo cui sono allegate una serie di poesie deliranti del mio periodo universitario (molti non hanno capito il vero senso della cosa e mi hanno accusato di presunzione e volgarità gratuita; io oggi credo aver fatto la cosa giusta anche se si può ammettere che qualche animo sensibile possa rimanere urtato da certi “bassi” contenuti del “simpatico” componimento: il miracolo della poesia). La promozione di “Malaspina” è stata praticamente sacrificata perché inconciliabile con l’intensissima attività live del Bacco. Praticamente con i Bartolino’s (io, Mario Stivala, Oliviero Testa, Mirco Spreafico e Giorgio Premoli) abbiamo fatto due sole serate entrambe aperte dalla canzone “Aguaplano” di Conte tanto per far capire di che genere stavamo trattando: un successo. Cominciavo a sentirmi su di giri e volevo a tutti i costi produrre altre canzoni. I tempi erano maturi per registrare un disco nuovo del Bacco.

“Cercatori d’oro” è il secondo e ultimo disco realizzato dal Bacco. L’ingresso di Dario Filippi al basso in sostituzione di Luca Pedrazzi sposatosi in Valtellina, è stata l’occasione per approfondire il percorso musicale del Bacco e il pretesto per scrivere nuove canzoni. L’esigenza di Rock’n’Roll espressa in “San Marco” rimane intatta in questo disco che però approfondisce i temi lirici tutti centrati sulla metafora del “cercatore d’oro”. Il disco è stato realizzato con l’aiuto di Roberto Ortolan, di Arcangelo Buelli e di Valerio Gaffurini. Questa volta non volevamo realizzare un lavoro “garage” perché i temi erano più riflessivi e in un certo senso più delicati. La critica questa volta ha accolto il lavoro con qualche entusiasmo in più (comunque mai eccessivo). Nel momento di maggior successo del Bacco, Nicola Bonetti ha mollato la presa per questioni di lavoro trasferendosi in Friuli. Evidentemente l’esigenza di Rock’n’Roll non era più così forte. Il Bacco ha finito la sua avventura all’inizio del 2001. Quello che è successo dopo è la storia recente, praticamente quella della Banda del Ducoli.

 

Di nuovo la difficoltà nel perseguire, nell’inseguire e nel trovare il “rock”?

… però avevo iniziato a intuire i primi problemi del Bacco già un po’ ed avevo deciso di mettermi a produrre un nuovo disco solista. Ad aiutarmi ho chiamato ancora Mario Stivala che ha curato la preproduzione di “Anche io non posso entrare”. Arcangelo Buelli ancora una volta è stato il “direttore d’orchestra” e ha scelto come collaboratore Massimo Saviola che già in “Malaspina” aveva suonato il basso. Massimo è stato chiamato perché servivano arrangiamenti nuovi e occorreva “azzardare” musiche più complesse di quelle finora realizzate. Considera che il suo ruolo alla fine si è rivelato determinante anche per dare una decisa svolta alle mie canzoni. Fino a quel momento infatti la mia esigenza era sempre stata quella di badare  unicamente ai testi lasciando la fase di arrangiamento e studio delle musiche “forse” in secondo piano. Anche io non posso entrare” è stato identificato come il disco della mia maturità artistica. Non so se sono d’accordo, ma comunque, se lo dicono tutti, forse è così.

La svolta di tutta la faccenda forse è proprio successa a cavallo tra le vicissitudini del Bacco e la lavorazione di “Anche io non posso entrare”. Visto come si erano messe le cose con il Bacco, ma soprattutto in considerazione dei buoni risultati ottenuti lavorando insieme ad Anche io non posso entrare, credo Arcangelo e Massimo mi abbiano letteralmente salvato la vita. La Banda è stata pensata e costruita interamente da loro che ne hanno curato gli arrangiamenti e la direzione musicale. Abbiamo fatto diverse serate e abbiamo iniziato a scrivere canzoni insieme. Ad un certo punto la nostra collaborazione era così sinergica che abbiamo definitivamente dato vita al progetto La Banda del Ducoli e cominciato pensare al disco delle Taverne. …..

Forse sono stato un po’ prolisso ma è la prima volta che mi viene chiesto di raccontare la mia storia. Sorry.

 

Non sembra proprio che comunque la storia possa considerarsi conclusa, visto quello che sta facendo “La banda del Ducoli” …

Il progetto “La banda del Ducoli” è un po’ complesso da descrivere in due righe perché racchiude cinque personalità tra loro molto diverse. La forza del progetto credo sia anche questa, dal momento che la collaborazione tra di noi ha dato solo ottimi risultati (almeno per noi è così, credo anche per gli altri). Oltre ovviamente ad Arcangelo e Massimo che sostanzialmente sono identificabili nei “direttori” artistici” (non so cosa voglia dire esattamente ma sostanzialmente intendo “quelli che si sbattono per dare un senso musicale ben definito al progetto”), suonano Lorenzo Lama alla chitarra e Renato Saviori al pianoforte. Anche loro sono musicisti molto conosciuti e apprezzati nel circondario musicale (ovviamente escludo il Ducoli che di circondario ha ben poco da parlare). Siamo un ottima band, purtroppo abbiamo poche occasioni per poterci promuovere. Per ora va bene così, anche se un po’ di rammarico comunque c’è. Senza nessuna presunzione, ritengo infatti che proponiamo ottima musica e soprattutto un concerto intensissimo (sia dal punto di vista umano che dal quello tecnico). Purtroppo sembra che nemmeno questo basti a garantire rispettabilità e occasioni. Pazienza..

 

Parlando di storie non posso non chiederti del libro che avrebbe dovuto accompagnare il disco … I due progetti sono nati insieme già come idea o si sono incontrati strada facendo?

Il libro è stato scritto da Marco Quaroni con cui, oltre all’amore per il Rock’n’Roll,  condivido deliri alcolico-culinari e avventure notturne in giro per le bettole delle Alpi. Ci siamo conosciuti, perché ad un nostro concerto del Bacco ho suonato una versione di “Adam raised a Cain” del Boss particolarmente riuscita. La nostra prima collaborazione è identificabile nello “scambio di prefazioni” tra il disco “Anche io non posso entrare” e il libro “Struzzi da corsa”. Da lì in poi abbiamo passato molte serate a discutere di musica e lettere ed è nata l’idea di convogliare i nostri successivi progetti in un opera comune. Nei momenti più deliranti abbiamo sostenuto che “Le taverne” sarebbero state la più alta espressione dell’arte dei “finiti” mai realizzata in Italia. Forse abbiamo un po’ esagerato, ma lo spirito del lavoro doveva essere quello altrimenti si rischiava di costruire un’opera fiacca.

 

Ma il libro di Marco Quaroni quando uscirà?

Purtroppo quando tutto era pronto per stampare i nostri lavori e le serate di presentazione pronte sul calendario, Marco ha avuto problemi grossi in famiglia (brutte faccende) e la cosa è saltata. Ora lui è nel suo “bimestre sabbatico” in giro per l’Europa ai concerti di Bruce Sprigsteen, per cui credo che non prima del 15 luglio al Public house o il 22 a Fino del Monte verrà ufficialmente presentato “Uomini delle taverne”.

 

Tra l’altro anche il disco ha un quadro narrativo: comincia e finisce con la stessa canzone, una sorta di struttura ciclica … poi ha un suo paesaggio e delle storie che precisano ancora di più l’ambiente … Di provincia?

Questo fatto è stato dettato proprio dalla necessità di dare al disco una forma quasi di “colonna sonora” del libro. Intendiamoci, nel libro non succedono le cose che succedono nel disco, tuttavia il concetto della storia e il percorso umano dei personaggi del libro è stato costruito pensando alle canzoni e viceversa.

 

Tu hai mai scritto qualcosa che non fosse una canzone?

A parte poesie volgari, no. Una raccolta di poesie, come ti accennavo, è già contenuta in “Malaspina” (Il miracolo della poesia), poi ci sono altre due raccolte: Millennio e L’ultima perla. Un giorno sicuramente le proporrò, forse in un'unica opera intitolata “Miracoli e simili”; oggi non credo che il pubblico sia ancora pronto.

 

Scrivere è un modo per ripararsi dalla realtà, per cercare un rifugio, un ambiente proprio?

Per me no. Credo che la realtà sia la più importante fonte di ispirazione per un cantautore. Scrivere quello che ti accade è il metodo migliore per riuscire ad analizzare il tuo comportamento e quindi che tipo di essere umano sei nei confronti del mondo in cui vivi. Io in genere scrivo per descrivere: a volte descrivo quello che faccio e quello che sono io, a volte quello che fanno e sono gli altri, altre volte per descrivere semplicemente una strada, un cortile, una montagna, ecc. Mi piace inoltre pensare che una mia canzone possa essere letta anche come la mia opinione nei confronti dell’argomento che sto trattando. È un modo per far capire che ho intenzione di espormi, non di fuggire. Quando le canzoni si staccano dalla realtà si tratta, almeno nel mio caso, di un “gioco della fuga” verso qualche tipo di sogno (in genere le cose inventate appartengono ai miei deliri notturni, guidati quasi esclusivamente dall’alcol, ma sono comunque quasi sempre ancorate agli episodi reali della mia vita).

 

Però potrebbe essere interpretato così il titolo del disco?

Il disco rappresenta il mio personale omaggio alla vita di provincia delle Alpi. Attenzione: non si tratta dell’apologia delle “piccole cose” della “piccola provincia italiana” (la canzone italiana di queste stronzate è piena; l’ipocrisia è sempre in agguato, ma aiuta a vendere dischi), ma più semplicemente della descrizione dei ritmi e abitudini dell’Italia in cui io vivo.

 

Io l’ho inteso come se la musica stessa fosse quella taverna / caverna, un possibile riparo a quello che ci sta attorno …

Forse è più corretto parlare di musica come possibilità di avere un amplificatore al posto delle corde vocali e quindi di poter essere ascoltati più lontano. Oppure più semplicemente di musica come fonte di colore sonoro alle cose che scriviamo.

 

Allora la musica viene amplificata dalla caverna / taverna! … Nel booklet accenni al fatto che da sempre l’uomo è andato costruendosi ripari, sin dai tempi delle caverne … da qui ci si è evoluti verso le taverne, ma comunque l’uomo ha sempre cercato di rifugiarsi in qualche buco …

Non proprio, quella frase vuole semplicemente simboleggiare la necessità di una involuzione. Stiamo procedendo con un po’ di presunzione verso ritmi che non vanno d’accordo con la nostra natura. Oppure semplicemente io mi ritengo inadeguato a questi ritmi e non ritengo giusto che io e quelli come me vengano esclusi. Le (t)caverne sono la mia forma di protesta nei confronti dei “rifugi moderni” in cui ho la sensazione che la gente sembri essere più una parte dell’arredamento che l’elemento principale della bolgia. Forse sono un po’ disadattato ma non importa, in questo momento mi sento così e devo scriverlo nelle mie canzoni.

 

Che poi è anche la situazione del mercato discografico, dove ogni artista per sopravvivere deve trovare il proprio buco … ciascuno più o meno dignitosamente …

Sì, anche se nel mercato discografico italiano l’unico buco in cui puoi trovare posto oggi ti lascio immaginare qual’è. Ovviamente ognuno sviluppa un proprio stile e un proprio genere, ma non si tratta della ricerca di una personale collocazione in questo o quello stile, ma credo più semplicemente dello sviluppo del proprio “io artistico” secondo un cammino che dovrebbe coincidere con la maturazione personale. Io oggi non cerco più una collocazione o la mia nicchia, faccio i dischi perché ho delle canzoni che mi piacciono e ho immaginato più o meno quale arrangiamento voglio dargli. Tutto qui.

 

Ma torniamo a parlare del disco, che è ben più interessante: storie di uomini e di vite, ma anche di suoni … il cantautorato italiano, prima di tutto, no?

Certo! Trattandosi di un disco di canzoni, il cantautorato italiano è il primo punto di riferimento. Del resto anche noi abbiamo dei maestri (sono certamente meno di quello che vogliono farci credere, ma ci sono; alcuni purtroppo non ci sono più) e non ritengo sia possibile prescindere dal loro insegnamento. Certo non bisogna limitarsi a scopiazzarne gli stilemi, come fanno tanti “artisti” anche di acclamata fama.

 

 “Nina” è un omaggio a De Andrè, che prende spunto da “Ho visto Nina volare”? Quasi che vogliate salutarlo, ora che è volato e che Nina lo sta a guardare …

“Anime salve” è l’ultimo disco italiano che mi ha commosso. “Nina” vuole essere un omaggio alla bellezza di certe canzoni e di certe immagini che solo qualche autore è riuscito a trasmettere con la sua opera. Non è una canzone per De Andrè, ma una canzone per parlare del suo modo di scrivere De Andrè. La metafora “del vento alla schiena” in “Ho visto Nina volare” mi ha disarmato, anche io ho avuto i brividi quando l’ho ascoltata dalla voce del Faber e ti assicuro che dove stavo ascoltando il disco non c’era vento. Questa credo sia la grandezza di un autore: riuscire a trasmettere sensazioni.

 

Tra l’altro il riferimento va ad una canzone che “dipingeva” la morte … lo sguardo nostalgico è per la mancanza di uno come De Andrè nel panorama della nostra musica? Per questo la necessità di fare provviste di canzoni?

Per forza di cose. L’Italia di oggi propone poche belle canzoni e bisogna andare a trovarle in mezzo a migliaia di puttanate di basso gusto e infima fattura. Quando se ne trovano è meglio metterle da parte e conservarle per i momenti di carestia! De Andrè non scriveva canzoni, dipingeva dei veri e propri quadri; ascoltando i suoi dischi la musica e le parole servono a trasmettere immagini e farti entrare nella storia che viene raccontata. Questa è stata la mia impressione. Siamo molto più poveri da quando è morto De Andrè.

 

Mi sembra che nel vostro bagaglio ci sia anche del rock americano, sia per le ballate che per alcuni pezzi con una matrice più robusta … ti butto lì alcuni nomi che mi sono venuti in mente: Jackson Browne, Bruce Hornsby, Steve Earle?

Questo fatto deriva certamente dalla produzione di Arcangelo e Massimo che ascoltano poca musica italiana. Forse gli stilemi di Steve Earle erano rilevabili più in Bacco il Matto, ma per quanto attiene Jackson Browne e Bruce Hornsby ci siamo appieno. Considera che l’ultimo lavoro di Browne è stato utilizzato come “ascolto comparativo” in fase di mastering. Tra l’altro in quel disco c’è una canzone intitolata “Sergio Leone” che dimostra come anche gli americani sanno che l’Italia ha prodotto dei maestri; il fatto è che si sforzano più di noi di salvarne la grandezza.

 

E la musica leggera: “Un sabato felice” mi sembra un canzone perfetta in questo senso …

“Sabato felice” è un omaggio ad un nostro carissimo amico che ama la musica e la vive giorno e notte. Volevamo costruire una canzone che potesse simboleggiare la forza della musica intesa come momento di aggregazione. Doveva per forze di cose essere una canzone melodica, una canzone ascrivibile alla categoria della “musica leggera”: mi sembra di capire che ci siamo riusciti. La “canzonetta” diventa nobile quando non è ipocrita; quando è sincera diventa canzone e la canzone è uno dei vettori di comunicazione storicamente più forti e sentiti.

 

Il suono è molto raffinato, con clarinetto, sax e fisarmonica, nonostante non perda in spontaneità e in quell’essere “sgangherato” …

Se ti riferisci al suono generale del disco, certamente sì. Era l’obiettivo della produzione di Arcangelo e Massimo costruire un disco di canzoni supportato da musica di alto livello. I dischi italiani spesso non danno la giusta importanza alla comunione tra musica e lettere, suonano “scollegati”. Cosa che non succede ad esempio nei dischi di Jackson Browne, tanto per citare un nome già utilizzato. Io credo che siamo riusciti a rendere bene sia la musica che le lettere: siamo un’ottima squadra. Se avessimo un “rettangolo di gioco”, daremmo del filo da torcere a tanta gente anche di serie A.

 

Avete arrangiato, registrato e prodotto tutto voi?

Il disco è stato prodotto da Massimo e Arcangelo nello studio che Arcangelo possiede a Paratico. Io sostanzialmente ho portato degli ibridi di canzoni che poi sono stati analizzati discussi e arrangiati. Altre canzoni sono state scritte insieme utilizzando musiche preparate da Massimo. Per un lungo periodo abbiamo poi rodato i pezzi eseguendoli dal vivo, fino a quando non eravamo sicuri che funzionassero sotto tutti i punti di vista ovvero che fossero pronti per essere registrati. Arcangelo e Massimo sono dei veri professionisti, è difficile sbagliare qualcosa con loro (forse il cantante qualche errorino è riuscito a farlo comunque). Un lavoro estenuante, ci siamo praticamente prosciugati il cervello (.. e le palle), ma non volevamo più tirarci indietro. Del resto non è facile produrre questa mole di lavoro e contemporaneamente conciliare tutto il resto, soprattutto se si tratta di sacrificare lavoro e famiglia.  Spero che questo disco serva anche a dimostrare che non servono grandi mezzi e infinite risorse per fare buona musica, ma semplicemente buone canzoni e tanta voglia di confrontarsi con la musica stessa e soprattutto una grande dose di professionalità (a questo però ci hanno pensato soprattutto Arcangelo e Massimo).

 

Nelle tue canzoni mi sembra di percepire una certa leggerezza, ma anche la precarietà della vita … insomma, storie di perdenti, ma non arresi e comunque felici di rimanere attaccati alla vita …

Se per “perdenti” intendi gente che non farà il presentatore televisivo o non si occuperà di sondaggi da spiaggia, sì. Se invece intendi persone che non riescono a dare un contributo a questa società, no. I miei personaggi sono vincitori, sempre. Anche quando perdono lo fanno per dimostrare che nessuno riuscirebbe a perdere come fanno loro e quindi in un certo senso si sentono i migliori. Io poi sono interista, figurati.

 

Ti senti così anche tu?

Ovviamente.

 

Ovvero la pioggia che non smette di cadere e il vino che riconcilia?

Se ti riferisci alla canzone “Delirio ordinario”, sì. Quella canzone parla dell’ultimo stadio che può raggiungere l’uomo (secondo me): quando ha perso anche il cappello e la pioggia gli cade in testa. Però il mio personaggio non smette di stare sotto la pioggia, lo fa perchè è giusto, perché vuole essere sicuro di avere perso, del resto come afferma nell’ultima strofa non è del tutto colpa sua o forse non è del tutto sicuro che sia proprio tutta colpa sua.

 

Dalle tue canzoni proprio si percepisce la “lentezza” della vita di provincia, o almeno di una certa provincia, forse più ideale che reale …

Realissima. Io sono così e cerco di vivere questo tipo di provincia. La lentezza comunque dev’essere relazionata ad una unità di misura o comunque ad un elemento di confronto: non sono le mie canzoni che suonano lente, sono le canzoni degli altri che suonano veloci.

 

Eppure c’è un continuo movimento nel disco, dalla terra che si muove sotto le scarpe alle onde del mare, dalla pioggia alle nuvole stanche in cielo …. l’inquietudine che attanaglia l’uomo e lo rende un viaggiatore anche quando passa tutta la vita nel suo paese?

Vedo che hai capito cosa intendo dire. Ogni cosa si muove, bisogna solo entrare nell’ordine della velocità con cui lo fà. Saperne parlare in maniera adeguata per me è stato sempre un motivo di ricerca lirica e di grande soddisfazione artistica quando ci riesco (spesso mi accorgo solo io di esserci riuscito). Ad esempio nell’album “Anche io non posso entrare” la chiusura è affidata ad una canzone dal titolo “Alcune cose inutili”, in cui il protagonista si trova a dover “difendere” la propria vita di fronte all’accusa gratuita di una sorta di immobilità. In una frase afferma “ho fatto anch’io il mio giro del mondo, avanti e indietro da una strada”. Se vuoi è un viaggio anche questo.

 

Nel brano conclusivo, che non credo sia una variazione casuale di “La fiera”, le navi vanno in porto da sole, mettono le vele per amore del sale … quasi che ci fosse qualcosa di altro che induce l’uomo, uscendo da quello che è la sua esperienza … la musica? L’arte?

Certo, io vedo la vita come un continuo viaggio verso la conoscenza, verso il confronto di quello che siamo con quello che abbiamo intorno. Il riferimento alle navi che chiude il disco è stato voluto per poter dare a tutta storia raccontata il senso di un sogno circolare: una sorta di viaggio con la metà coincidente con il “ritorno a casa”. Le navi che vanno via senza di noi vogliono simboleggiare la bellezza del ritorno alla propria realtà ovvero di risveglio dal sonno: “la gente si è fermata a pensare come i quadri sul muri e i cani sono andati per strada per cercarsi qualcuno”, questo è quello che amo della mia provincia.

 

Torna quindi quel senso di rifugio che viene dalla musica? Che ci mette in pace?

Più che in pace, ci mette in ordine. Considera però che la musica deve comunicare prima di ogni altra cosa, felicità e ritmo. Il resto è in più. Io spero di esserci riuscito, certamente il merito è tutto di Arcangelo e Massimo: le mie parole non arriverebbero così bene se non fosse una grande musica a trasportarle.

 

Ed è come se fosse la musica a fare noi più che noi a fare la musica? O le storie a fare l’uomo più che l’uomo a fare le storie?

Adesso mi confondi un po’.

 

Forse sto giocando troppo con le parole, mi ci sto attorcigliando … finiamo con qualcosa di pratico: avete concerti in programma?

Pochi, le occasioni sono sempre più rare. Il 24 giugno a Brescia (Lio Bar), il 15 luglio  a Esine (Public house), il 22 luglio a Fino del Monte, il  4 settembre a Chiari (Le Quadre).

 

Magari prima o poi ci si vede e si beve qualcosa insieme!

Certamente sì … davanti a distillati degni del Rock! Grazie a te a Mescalina.

 


My Uncle The Dog (Christian Verzelletti; Mescalina)

 

Una chiacchierata con Andrea Bellicini (alias Bogartz) e Alessandro Ducoli (ex Bacco il Matto), ovvero le due voci dei My Uncle The Dog: tutto si è svolto in cucina tra carne e vino rosso, un po’ di insalata e molte padelle. Lo stereo che suonava Thelonius Monk, una cagnolina che dormiva in poltrona e qualche bicchierino di whisky hanno aiutato a parlare di Rock’N’Roll e di Beat …

 

Mescalina: Come in tutte le interviste per bene cominciamo a raccontare come vi siete incontrati!

Andrea Bellicini: Ci siamo incontrati alle selezioni di Rock Targato Italia!

Alessandro Ducoli: È vero! Lui era nella giuria!

Mescalina: Era uno di quelli che ti ha stroncato?

Alessandro Ducoli: Sì, io cantavo “Binario morto”, una canzone etilica, una sorta di Battello Ebbro adattato in Valle Camonica, dove come sai non c’è navigazione, e lui me l’ha bocciato. Poi è venuto a fare due chiacchiere e a spiegarmi …

Andrea Bellicini: Già all’epoca ero troppo colto per lui!

Mescalina: E come siete arrivati ai MUTD?

Andrea Bellicini: Si era parlato spesso di fare una cosa insieme, ma non l’avevamo mai presa troppo sul serio; l’occasione è venuta per l’intercessione di Davide Sapienza, che ha avuto questa idea di suggerirci di fare qualcosa insieme, che avrebbe potuto essere interessante … ovviamente Ducoli ha insistito, perché era ad un “binario morto” della sua carriera, poi lui sentiva il peso degli anni e, sai, il fatto di suonare con una band giovane e underground lo metteva nella condizione di potersi vantare coi giornalisti di fare queste cose …

Alessandro Ducoli: No, il fatto è che, siccome loro sono ad una svolta commerciale in vista del prossimo disco, io ho sempre paura che la loro onestà morale e il loro spirito da bravi ragazzi della Valle venga traviato da produzioni che non sono adeguate - perché non esistono produzioni adeguate in Italia! - quindi ho pensato di fargli fare un vero disco rock in modo tale che, appena si sputtanano con il disco ufficiale, possono dire “Ma però abbiamo fatto questo disco che è rock’n’roll …”.

Mescalina: Come è salata questa insalata??!!

Alessandro Ducoli: È così salata, perché in questa stanza c’è una persona con poco sale in zucca e quindi ho cercato di compensare …

Mescalina: E il nome My Uncle The Dog da dove è uscito?

Alessandro Ducoli: All’inizio volevamo chiamarci “The Gazza’s coming back”, ovvero “I ritorni di Gascoigne” per significare che eravamo un fiasco a priori …

Mescalina: Cioè che anche voi, colti e talentuosi, avevate bisogno di elomosinare un contratto nella serie B cinese?

Andrea Bellicini: Guarda che lì potrei davvero giocare anch’io!

Alessandro Ducoli: Comunque, non ho mai capito perché il nome non è piaciuto … poi facevamo le prove il sabato pomeriggio, quando loro erano svegli da un quarto d’ora, mentre io già al mattino presto ero in piedi per zappare l’orto, quindi io arrivavo alle prove, sudato e vestito come un contadino, e si era pensato di chiamarci Uncle Dog proprio per questo, poi alla fine Bellicini ha avuto un’idea di metterci l’articolo davanti …

Andrea Bellicini: A me sembrava che ricordasse i contadini di Faulkner, l’America rurale dove i personaggi si chiamano sempre coi nomi degli animali: anche in Steinbeck è così e siccome io sono colto …

Alessandro Ducoli: Io ho letto otto libri di Steinbeck, tra cui “Pian della tortilla” e “Furore”!

Andrea Bellicini: “Pian della tortilla” è davvero grande … ecco, noi avevamo questa idea di rock’n’roll che veniva dal basso, dalla rozzezza, senza riferimenti troppo elevati, sai quei bifolchi americani col forcone, che ammazzano uno solo perché è straniero?

Alessandro Ducoli: Non abbiamo ancora fatto il brindisi …

Andrea Bellicini: A noi!

Mescalina: Ai bifolchi!

Alessandro Ducoli: A noi che siamo così bifolchi veri!

Mescalina: Nel disco c’è questo fattore istintivo, con cui ognuno segna il territorio a suo modo … come dei cani randagi?

Andrea Bellicini: Sì, l’intento della cosa era quello … lui più col cantautorato e noi più underground, se vuoi …

Alessandro Ducoli: Si, è vero, anche se parlare di cantautorato nel mio caso è scorretto, perché ho scritto cose più vicine al folk americano che al cantautorato italiano: il fa diesis per esempio non lo uso quasi mai …

Mescalina: Perché non sai suonarlo?

Alessandro Ducoli: Ma sì e poi perché gli accordi sono tutti lì, quelli che servono: troppe note e troppi accordi ti rovinano. Anche Bacco Il Matto aveva questo approccio: non era così underground, ma il sound era rock’n’roll!

Andrea Bellicini: Ci siamo trovati un po’ a metà: noi che facciamo rock alla nostra maniera, un po’ aggressiva, abbiamo fatto un passo più verso la tradizione e meno rispetto all’underground e a cose più estreme che facciamo di solito, mentre lui ha fatto un passo avanti recuperando un po’ delle cose che faceva come Bacco, magari le cose sue meno tradizionali …

Mescalina: Il suono che ne è uscito dà l’idea di essere esagerato …

Alessandro Ducoli: È perché non avevamo alcun tipo di vincolo ed è venuta fuori l’indole nostra …

Mescalina: Infatti c’è spesso qualche riferimento all’istinto animale!

Andrea Bellicini: Certo, perché, se tu parli di qualcosa di forte, devi dargli una veste sonora adeguata, altrimenti sembri uno  dell’oratorio che dice “Sì, guarda come sono fuori coi capelli lunghi” e sei lì che suoni le canzoni di Battisti, ma non sei veramente così. Ma, se tu parli di cose forti, devi dargli la veste giusta per far uscire …

Alessandro Ducoli: Anche perché comunque si tratta di animali affamati …

Andrea Bellicini: Mmh, penso proprio che mi farò uno spiedino! Guarda che noi siamo rock’n’roll perché abbiamo fame, non perché abbiamo acquisito le capacità o per altro … ti ricordi l’esordio di Eriberto, quando era bravo? Adesso si chiama Luciano (giocatore del Chievo e dell’Inter) … ha esordito e ha fatto un gol dopo una corsa di quaranta metri: Mazzone si è girato e ha detto “Questo c’ha la rabbia che viene dalla fame!”.

Ecco lui non era un fuoriclasse, ma con quel gesto voleva dire qualcosa e così anche il nostro disco: non è un capolavoro, ma non è quello l’obiettivo …

Mescalina: Difatti suona molto sporco, molto sudato, anche voodoo …

Alessandro Ducoli: Il compito era che io ho dato tre canzoni ai Bogartz e ho preso tre canzoni da loro, quindi loro dovevano arrangiarsi i miei pezzi e io arrangiarmi coi loro …

In “Zachary Taylor” anche l’argomento è voodoo e ho usato la stessa ritmica che ho usato già quando ho scritto “Berlicche”: se tu senti il lavoro ritmico sui timpani in “Zachary Taylor”, è molto simile se non uguale a quello che c’è su “Berlicche” …

Andrea Bellicini: È come se devi fare un film sul voodoo e lo fai girare a Spielberg o a Lynch: Spielberg magari dal punto di vista formale è impeccabile, ti fa una gran cosa, ma, se invece lo fa Lynch, di certo non è così perfetto e magari non ci capisci neanche tanto, perché lui segue i suoi percorsi, magari è anche meno valido tecnicamente, però di sicuro è più inquietante, ti spaventa molto di più …

Mescalina: Infatti nel disco c’è questa aria noir …

Andrea Bellicini: Eccome!

Mescalina: … e le storie che pubblicate sul sito dei Bogartz (www.bogartz.it) arrivano così al momento o c’è dietro un copione già scritto?

Andrea Bellicini: Avrei in mente una storia, ma seguo l’ispirazione e la scrivo così a mano: mi piacerebbe scrivere ancora un po’ di puntate, anche perché saltano fuori le storie del disco, sia noi sia i personaggi di cui si parla nel disco …

Alessandro Ducoli: Difatti è ambientato a Tampa in Florida: ci sono le paludi, è un paesino di provincia, c’è Cletus che sarei io …

Mescalina: E c’è il riferimento a James Elroy?!

Andrea Bellicini: Sì, l’ho letto talmente tanto, che per forza …

Alessandro Ducoli: Io ho letto Stevenson, “L’isola del tesoro”, alle medie …

Mescalina: Potremmo trovare qualche punto in comune tra Cletus Cobb e Long John Silver, guarda che anche lì c’è una ricerca inquieta … scherzi a parte, che poi non sono neanche tanto scherzi, il fatto che hai rifatto “Perfetta” dà l’idea di questa borgata di paese apparentemente tranquilla e invece sono tutti pronti al delirio, alla follia, non appena se ne presenta l’occasione …

Alessandro Ducoli: Pensa che io volevo fare “Gesù mi ha chiesto di restare”, un pezzo che secondo me stava molto bene anche dal punto di vista dell’intuizione rock, però avevo visto subito che non funzionava, come se ci fosse l’alchimia sbagliata. Dovevo andare a cercare delle cose, che staccavano dall’obiettivo, che era immediatezza e concretezza: da qui anche l’idea di fare un disco molto corto, con la coda che comunque è ancora “Tonight’s the night” …

Mescalina: Sì, è corto, concreto e breve, ma ha dentro tanta ciccia …

Andrea Bellicini: È grosso! Sono le frequenze basse! Sai, le usiamo tanto anche come Bogartz: i bassi ti fanno vibrare, ti prendono lo stomaco. È quella cosa lì: un impatto come “Tonight’s the night”, che è una cosa grossa, come anche “Lacqua”. E la ricerca di suoni è stata quella: non una faina che va a rubare, ma un bisonte che si muove grosso e fa rumore e è pesante e lo senti che arriva …

Alessandro Ducoli: È tutto dettato dalla esclusiva esigenza di rock’n’roll. Esigenza, proprio: una questione vitale!

Mescalina: E lo avete intitolato “Tonight’s the day” invece che “Tonight’s the night” proprio per dire “questo è rock’n’roll”?

Alessandro Ducoli: Allora, la questione del titolo … innanzitutto, quando ho scelto di riarrangiare secondo il mio stilema “Tonight’s the night”, era perché ne avevo le scatole piene, perché la canzoni che faccio io fondamentalmente le puoi ricondurre alla figurazione ritmica di mi minore o di la o di re, ma soprattutto di mi minore, e siccome “Tonight’s the night” ha una scomposizione che può essere ricondotta al mi minore, la facciamo tutta in mi minore proprio per dimostrare che grandi pezzi si possono fare con questi pochi accordi!

Poi mi sono informato sul significato del titolo, che non vuol dire “Stanotte è la notte”, ma “Questa è la notte più lunga”. Allora io ho scritto “Tonight’s the day”, perché volevo fuorviare tutti quelli che si fanno le seghe mentali sul rock’n’roll. Dopo, nel parlare coi Bogartz di un titolo con un senso ironico, loro si sono entusiasmati, figurati …

Secondo me la gente fa troppa filosofia sul rock’n’roll, per cui cambiare il titolo e giocarci sopra mi sembrava necessario, anche perché l’Italia non è l’America, per cui noi alla fine siamo un po’ più diurni che notturni, e gli abbiamo dato quel senso lì …

Mescalina: Ma i MUTD avranno un futuro o è una cosa che si esaurirà con questo disco?

Andrea Bellicini: Diciamo che ci siamo divertiti a fare il disco e anche le date che facciamo live ci divertiamo parecchio: il nostro obiettivo adesso è di fare più date possibili, ma non dovunque e per qualunque motivo, piuttosto vogliamo mirarle, vogliamo che ci facciano divertire, poi dopo si vedrà … in realtà un altro disco ci sarebbe: abbiamo anche pronto il titolo e abbiamo anche scritto una canzone insieme …

Mescalina:!!??

Alessandro Ducoli: Si intitola “Real Yoko”, sull’influenza nefasta delle fidanzate nel mondo del rock …

Mescalina: Quello sì, non solo sui Beatles, ma anche su tutte le figure femminili che sono venute dopo: sono state rovinate dall’influenza di Yoko Ono!

Alessandro Ducoli: Ma è proprio il concetto di Yoko! Il mio motto è che Mark Chapman avrei anche potuto perdonarlo, se quel giorno sparava anche a Yoko! Pensa che coglione mostruoso che è Mark Chapman che va lì, li vede tutti e due insieme, ha una pistola, quindi almeno sei colpi, e spara solo a John Lennon!

Mescalina: Forse era d’accordo con Yoko!

Alessandro Ducoli: Se era d’accordo con Yoko, allora l’influenza nefasta è proprio dimostrata!

Mescalina: Tra l’altro ci si può vedere anche un filo di continuità con gli argomenti dei Bogartz e con lo spirito dei MUTD, molto noir e centrato sull’omicidio, è così anche per Cletus …

Alessandro Ducoli: Infatti poi Cletus alla fine …

Andrea Bellicini: No, non dirlo!

Mescalina: Va bene, allora, se questo è top secret, parlando di altri progetti che avete insieme come quello sulla Beat Generation …

Andrea Bellicini: Mmh … è una storia lunga: il progetto è nato da Boris Savoldelli e si chiama “Degeneration Beat” … ho avuto anche una discussione su questo argomento col mio professore di letteratura anglo americana …

Alessandro Ducoli: È per quello che mi considerate un buzzurro! Avete studiato tutti e due! Me ne sono accorto tra le righe dei vostri sorrisi ammiccanti …

Mescalina: Non mi sembra che il tuo istinto ne stia uscendo schiacciato … immagino sarà stato così anche per questo progetto, no?

Andrea Bellicini: L’idea sarebbe quella di ricreare l’atmosfera di “On the road”, non tanto delle sue manifestazioni immediate dal punto di vista letterario, di ambienti e di viaggi, quanto piuttosto trasportarne il senso nella realtà, che può essere quella dell’Italia di provincia; difatti il lavoro sarà in italiano, anche se suonare beat in italiano sarà una cosa abbastanza difficile e straniante, perché il beat è inscindibile dalla lingua inglese.

Alessandro Ducoli: L’idea è comunque quella di rappresentare questa cosa attraverso le diverse anime del protagonista, sia dal punto di vista tematico, con le diverse voci che ci sono, sia per le diverse atmosfere sonore, che vanno dal jazz tradizionale, alla ballata folk, ad alcune cose che vivono molto di ritmica, ad altre con dei tempi blues suonati in maniera molto precisa fino ad alcune cose invece con la chitarra distortissima …

Mescalina: Ma non è rischioso scegliere una figura mitica, anche abusata come quella di Kerouac?

Alessandro Ducoli: Infatti! Guarda che io non ha mai letto nulla di quello che può essere definito Beat Generation, quindi in un certo senso il rischio di fare la brutta copia della Beat Generation, già quello non c’era …

Mescalina: … io non sto parlando di fare una copia o una cosa più o meno originale: piuttosto chi si avvicina al vostro progetto, non rischia di farlo in modo prevenuto, di trovarsi costretto, condizionato dal mito che è stato creato attorno a Kerouac?

Alessandro Ducoli: Ho capito, ma sostanzialmente noi partiamo dal fatto che la scrittura Beat segue un discorso musicale, quindi cerchiamo di adattare la lingua italiana a certi tipi di scomposizione ritmica, a certi atteggiamenti metrici … poi, sì, mi sono fatto spiegare la filosofia di vita di Kerouac e che tipo di persona era: io all’inizio pensavo che fossero soltanto drogatifrocialcolizzatimerde, invece ho scoperto che Kerouac era anche un romantico, per cui mi sono inventato questa cosa che è un esperimento linguistico, in cui si cerca di ricostruire l’atteggiamento Beat di scrittura usando però argomenti italiani, ricostruire l’atteggiamento beat di scrittura, però senza essere condizionati da quello che è già stato scritto …

Mescalina: Cosa intendete per argomenti italiani?

Alessandro Ducoli: La storia, che noi abbiamo costruito, parla di un personaggio … praticamente io mi sono immaginato Jack Kerouac, che vive in Italia oggi e passa un sabato sera alla ricerca del Beat, del Beat nel senso filosofico del termine …

Andrea Bellicini: Si parla di muoversi, ma non nel senso di andare per spazi: è l’esigenza di spostarsi per vedere qualcos’altro, non importa se di un migliaio di miglia o di un paio di metri. La storia è mossa comunque da un romanticismo, poi effettivamente prendere proprio “On the road” è una grossa responsabilità, però in quell’opera ci sono i presupposti per dire le cose alla tua maniera, cioè per muoversi, per cercare qualcosa di tuo. Quel libro nasce in fondo da un’esigenza dell’autore di avere un rapporto con il suo te stesso e con quello di ognuno: paradossalmente noi, in questo muoversi limitato dal punto di vista geografico, abbiamo riscontrato le nostre vite, ma soprattutto la stessa precarietà dei rapporti affettivi e sentimentali che si possono ritrovare in persone che viaggiano sulla lunga distanza …

Mescalina: Ma tutto questo si tradurrà in un disco?

Andrea Bellicini: Sì, anche se per ora siamo solo a livello di pre-produzione. Poi abbiamo incontrato anche Mark Murphy e Fernanda Pivano…

Alessandro Ducoli: A cui io ho sottratto questo utensile, che era il cavatappi adoperato da Hemingway!

Andrea Bellicini: Per ora abbiamo lo storybook e tanto materiale, che io e questo essere qua, insieme a Boris Savoldelli e Federico Troncatti, stiamo mettendo in musica, in Beat. Ecco, alla fine anche se sembriamo tanto opposti, quello che mi avvicina a questo animale, perché Ducoli è fondamentalmente un animale, è il suo bisogno autentico di esprimersi. È il Beat.

Mescalina: E tu Ducoli?

Alessandro Ducoli: Io, in quanto animale, non posso che emettere qualche suono strano, qualche grugnito o peggio. O al massimo interpretare la parte di Cletus!

Mescalina: Anche questo è Beat?!

Alessandro Ducoli: Però lui non ne ha la coscienza!?

Mescalina: O forse finge di non averla … 

 

 

Salvatore Esposito, www.rockinfreeworld.tk


Partiamo da lontanissimo, come è nata la tua passione per il rock e in particolare per Young?

Ho iniziato ad ascoltare Neil Young per caso. Per fuggire. A differenza di molti miei amici non ho avuto fratelli maggiori a cui rubare i dischi o qualche cugino che prima di partire per lunghi viaggi riflessivi mi ha lasciato i suoi scaffali in consegna. Niente Led Zeppelin, niente Pink Floyd, niente Stones, niente Hendrix, niente Macartney. Ho avuto due sorelle maggiori e una sola radio in casa fino a quindici anni. Una condanna. Conosco, ancora oggi, quasi esattamente la discografia di Claudio Baglioni fino a "La vita è adesso", Sandro Giacobbe, Enzo "Pupo" Ghinazzi, Riccardo Fogli, Giampiero Artegiani e i Collage. Un calvario, anche Fiordaliso. All'inizio è stato ovviamente un inconsapevole subire (ero troppo giovane) fino a quando la maggiore delle mie sorelle, che ha frequentato l'Università Cattolica a Milano, ha assistito, ovviamente per questioni di mera rappresentanza, al concerto del "vecchio" a Milano. Quello dei lacrimogeni. Mi sembra l'87. Il suo resoconto è stato perentorio. Oltre a sottolineare che certa gente dovrebbe starsene fuori dalla musica disse che Neil Young era vomitevole. Ho cominciato a chiedermi chi fosse Neil Young. Invece di assecondare la mia curiosità ho comprato "Like a virgin" di Madonna. Tutto sommato un buon disco. Non ero ancora pronto. La vera svolta è però arrivata quasi contemporaneamente, forse qualche mese prima, non mi ricordo. La truffa è che è stata proprio per merito delle mie sorelle. La minore delle mie sorelle si è innamorata persa del suo maestro di Judo. Per la cronaca è stata anche campionessa italiana juniores. Questo Ivan, a cui probabilmente devo la vita senza nemmeno sapere chi sia, ascoltava Springsteen. Segue quindi un lungo periodo in cui a casa mia arrivano le note del Boss. In continuazione. Cadillac ranch. Il resto è venuto da solo. Basioli, Cere e Panteghini, compagni della scuola per geometri, hanno già approfondito oltre il Boss, molti altri grandi. Tra questi c'è ovviamente Neil. Riaffiora il curioso aneddoto del Palatrussardi. Richiesta di duplicazione immediata subito accettata da Panteghini. "Harvest", "Zuma", "After the gold rush", "American stars'n'bars" e "Rust neever sleep". Seguono, con calma, anche perché la radio in casa era sempre una, tutti gli altri. Tutto qui. Di tutto questo periodo, a parte ovviamente i ritornelli di Baglioni e le tette di Madonna, mi ricordo ben poco. Mi ricordo che ero un povero pirla che faticava a tenere il passo dei miei coetanei emancipati che partecipavano a concerti (il Boss a Milano, cazzo, David Bowe, Pink Floyd a Venezia, io non c'ero), happening serali di ascolto dei dischi lasciati dal cugino che adesso vive in India. Gli anni '80, che oggi in parte ho rivalutato, sono stati un vero calvario …. e non abbiamo accennato all'arrivo del pop più bieco che però era l'unica arma per limonare. Save a prayer. Pazienza. Per la mia presenza scenica, ero più magro di adesso, e avevo una certa dimestichezza con l'armonica, mi hanno messo a cantare nel gruppetto. Gli Springs. Con Panteghini. De Andrè, De Gregori, U2, Springsteen e anche "Like a hurricane". Una banda di bassissimo livello. Grande passione però. Non credo serva altro per amare il Rock'n'Roll. Il resto è ordinaria follia da rockettaro di provincia. Compreso il periodo Grunge e il classico ritorno alle origini per il ripasso dell'accademia Beatlesiana, di Elvis, Stones e contaminazioni Motown. Abbastanza normale. Molto simile alla faccenda di tanti altri con cui la sera mi trovo a parlare dell'ultimo disco di Mark Lanegan, della perdita di identità del Rock italiano o di come la presenza di Yoko Ono sia stata il triste presagio della nefasta influenza che certe signore hanno avuto sui migliori rocker della storia. Ecc. ecc. ecc

 

Quali sono le cose che ti hanno colpito della musica e dell'arte di Neil Young? E qual'è il perido della sua carriera che preferisci?

Mi piace la forza. La forza anche quando si tratta di accarezzare le corde della Martin. Mi piace il tocco di armonica. Il testo sempre incredibilmente legato alla musica. Mai una parola che non sia perfettamente dentro gli accordi. Mi piacciono i "veci" che nel video ballano "Harvest moon". Non mi piacciono invece certi suoi atteggiamenti autoritari ma chi può dirlo fino in fondo che sia davvero così. Le biografie si contraddicono ogni volta che escono e io finora non conosco nessun amico personale di Neil che possa dirmi veramente quale sia il suo carattere. Non mi piacciono alcune produzioni di difficile ascolto. La stessa immediatezza di "Hey, hey, my, my" non c'è in certe produzioni. Mi fa impazzire "Cortez the killer". Mi commuovono le piccole creature che cercano di fuggire alla stupida "War of man". Molte cose poi non le ho ancora ascoltate. "After the gold rush" e "Rust neever sleep" sono i dischi che preferisco. Ma come fai a dare un giudizio quando ogni suo disco può essere legato a particolari stati d'animo. Un mese può essere Zuma il disco migliore, quello dopo può essere Freedom, Tonigh't the night, Harvest moon, On the beach. Poi ci sono dischi che non mi piacciono a priori ma credo che tutti siano d'accordo sul fatto che "Broken arrow" sia un disco poco riuscito. Gli anni '80 li conosco poco. Mi piacciono molto alcune cose, soprattutto di "Trans", ma altre sono francamente un po' imbarazzanti. Credo, anzi ne sono certo (me l'ha detto Marco Grompi), che tutto sia troppo legato ai suoi rapporti con la Geffen e soprattutto alla sua incredibile capacità di autodistruggere il suo mito nella certezza di poterselo ricostruire in ogni momento.

 

Quanto ti ha influenzato il songwring di Neil?

… Big john's been drinkin' since the river took Emmy Lou … a volte piango quando riascolto Powderfingher. Le immagini sono lì, da toccare, da vivere. Non stai sentendo un racconto. Nessuno ti sta raccontando niente. Sei dentro nel racconto insieme a tutti gli altri e tieni in mano il fucile. Sai che Big John non beve perché è un ubriacone, beve perché la vita non è stata gentile. Non hai più ventidue anni, se li hai sono sempre troppo pochi, oppure non li hai mai avuti. Sai che sulla barca ci sono dei guai. Sai che non consegnano la posta. A volte sento quasi la stessa paura del ragazzo. So tutto di quella famiglia anche se nessuno di loro mi ha mai raccontato niente. Mi piace pensare che si possa scrivere e comunicare la stessa intensità di sensazioni. Non so se ci riesco nelle mie canzoni ma a volte mi piace pensare che è così. L'ascolto ciclico di Powderfingher ovviamente serve anche a guarirmi dalla presunzione.

 

Quali sono stati i motivi che ti hanno spinto ad imboccare la via maestra della vita da rocker?

I Rocker vivono il Rock'n'Roll 18 ore al giorno. Io suono circa 2 ore, altre 6 in genere scrivo e le altre 10 lavoro. Purtroppo non ho mai avuto il coraggio di seguire la strada del Rock. C'è ancora qualche fantasma nella mia vita e fino a che sarà così non potrò mai dirti cos'è la strada del Rocker. Presto lo sarò, a cinquant'anni forse. Non importa. Un giorno sarò un Rocker e te lo dirò con maggior precisione.

 

Cosa è cambiato nella tua vita da quando hai pubblicato il tuo primo album, Lolita?

Sono ingrassato e sono sempre più stanco. Suono anche un po' meglio ma continuo ad essere un chitarrista mediocre. Ho preso lezione di canto e me la cavo sempre meglio con i testi. Mi sono laureato. Ho distrutto tre macchine. Mi piace il malto scozzese. Non fumo più e continuo ad essere interista. Odio Baglioni, Giacobbe, Fogli e Pupo. Fiordaliso non esiste. Considero Mogol la causa principale dell'agonia della musica italiana. Sono orgoglioso che la prima canzone che ho imparato a suonare sia "The river" e non "La canzone del sole". Il Grunge mi ha cresciuto onesto e sicuro dei miei sentimenti. Ho scoperto Stevie Wonder e Caetano Veloso. Mi piace Monk. Chiaverei la figlia di Peter Gabriel, per piacere e per opportunità. Al prossimo concerto acustico presenterò una mia personale rivisitazione di "Into my arms" con chitarra e armonica. Vorrei essere uno degli animali, uno a caso, del booklets di Boys for Pele. Carlito Brigante non ha mai ascoltato Lolita. Adriano Celentano è ospite dei salottini per ricordare il Faber e non consoce il testo di Piero. I miei colleghi comprano 2 dischi all'anno e i dieci che si masterizzano sono peggio della merda. Gigi d'Alessio è in studio con Tony Levin. Canto con gli Sapnish Johnny. Penso che Van Morrison da quando ha abbracciato la fede di Scientology faccia solo dischi pietosi. Rino Gaetano continua a produrre libidine. De Gregori scrive "… ed ho imparato che l'amore insegna ma non si fa imparare …". Spendo più soldi in birra che in vestiti e acconciature. Spendo più soldi in musica che in vacanze. Gli unici giorni di ospedale o di malattia che ho fatto sono attribuibili a contusioni da sabato sera. Ho scritto "Come un Setter". Simona Ventura presenta "Quelli che il calcio" e suo marito è condannato per aver truccato partite. Jannacci nonostante tutto continua a non arrendersi. Ombretta Colli è un grande dubbio. Mi vergogno sempre meno. Rimetto i rimorsi insieme alla birra in eccesso. Mi piacerebbe suonare il piano. Ecc. ecc. ecc. ecc. Oltre a tutto questo ho trovato dei grandiosi compagni di viaggio e continuo a fare musica e canzoni.

 

Qual'è stato il tuo sviluppo artistico e cosa è cambiato nella tua musica in questi anni?

Seriamente questa volta. Non so se si tratta di sviluppo artistico. Forse i cambiamenti sono dovuti al cambiamento della persona. Dal punto musicale, nonostante la fortuna di suonare con musicisti che sanno fare il loro mestiere, credo non sia molto migliorata. Conosco gli stessi tre ritmi di dieci anni fa e suono solo con un po' di precisione in più. Il cambiamento più significativo forse lo osservo nel modo di scrivere. La maturazione non è solo attribuibile alla maggior possibilità di trovare argomenti perché la vita vissuta è un po' di più rispetto a qualche anno fa. Credo sia invece legata alla ricerca lirica di questi anni. Ricerca che continua tutt'ora. Quello che ti ho detto prima riguardo Big John è tutto vero. L'uso della parola dev'essere sacro. Sempre e comunque al servizio della bellezza. Anche se racconta cose brutte. Sempre e comunque per arricchire una figurazione armonica, un ritmo, una melodia. Musicalmente nessuno mi ha mai capito perché ho fatto progetti tra loro molto diversi. Ma nella mia deontologia di canzone "Vito malavita" e "Lulù" raccontano le stesse cose. Sono canzoni e basta.

 

Veniamo alle esperienze più recenti, cominciamo con La Band Del Ducoli, quella che ti ha fruttato la partecipazione alla prestigiosa compilation del Mantova Festival, ci racconti qualcosa di questo progetto?

Mantova ci ha trattato come le pezze del culo. Non mi piace ricordare la Banda del Ducoli partendo da Mantova. Partiamo da Giovanna e dalle sue sorelline. Arcangelo Buelli e Massimo Saviola mi hanno salvato da una brutta situazione. Gravi problemi in famiglia, sul lavoro e il progetto Bacco il Matto finito nel cesso per le priorità di qualcuno (… forse il Bacco ritornerà, ma adesso le priorità sono le mie). Mi avevano già aiutato con "Malaspina" ed erano incuriositi dal pazzo Ducoli di "Ubriachezza molesta" e di "Io convivo bene con la mia pazzia". Il disco successivo hanno poi deciso di aiutarmi a costruirlo in maniera più decisiva. Le canzoni di "Anche io non posso entrare" sono praticamente già Banda del Ducoli anche se in quel periodo la cosa non era ancora ufficiale. Il disco è stato arrangiato da Mario Stivala con cui avevo fatto già "Malaspina" ma molte cose sembravano ancora troppo legate a certe figurazioni ritmiche e armoniche sovrautilizzate nei miei dischi. Massimo e Arky hanno arricchito il lavoro con arrangiamenti nuovi e soprattutto con nuove soluzioni ritmiche e armoniche. Sono stati a loro a chiedermi se ero interessato a promuovere il disco con una nuova Band. Sono stati chiamati Lorenzo Lama alle chitarre e Renato Saviori alle tastiere. Lorenzo era già stato contattato per suonare le chitarre di "Anche io non posso entrare" e quindi conosceva già praticamente metà del repertorio. Massimo e Arky conoscevano già anche "Malaspina". Renato impara un repertorio in un paio di settimane. Ci sono voluti molti concerti per capire il suono e per trovare una dimensione che potesse valorizzare sia il mio personaggio sia la grande forza di una band con un sound non proprio "italiano". Un periodo prezioso. In primo luogo sono stato messo di fronte ad alcune lacune assolutamente inaccettabili per chi pretende di essere pagato, anche solo 50 euro a serata, per proporre la sua musica. Sistemati alcuni ulteriori dettagli abbiamo iniziato a scrivere il disco delle taverne. Alcune canzoni erano bozze di idee e canzoni già scritte nell'ultimo periodo. Altre le abbiamo scritte insieme. Il disco era già rodato un anno prima della sua uscita. Abbiamo suonato diverse canzoni nelle più diverse situazioni live. Per cercare di capire la risposta del pubblico a certi pezzi non sentiti. "Berlicche" e "Sgangherata" erano canzoni che già ci venivano richieste alla data successiva. "Lenta" fu eseguita la prima volta al Vamolà di Bologna ci viene ricordata ancora oggi. Altre canzoni erano più complicate e avevano bisogno di più cura. Quando le canzoni erano ormai completamente assimiliate abbiamo deciso di registrarle. Tutto fatto da Arky e da Massimo che in studio, per la cronaca lo studio è di Arky, se la cavano come sul palco. Non so se si può dare una definizione della musica della Banda. La cosa che credo sia più importante è il fatto che il nostro suono conserva grande orecchiabilità nonostante la complessità di alcune soluzioni (non è così naturale come si potrebbe pensare). Questo significa che vengono rispettati sia i capricci narcisi del musico sia l'obbligo di non aggredire il pubblico delle canzoni, perché comunque di questo si tratta, con cose troppo complicate. Forse non è nemmeno vero questo. La complessità dev'essere riferita alla tua unità di misura delle cose. Bisogna però comunque ammettere che l'Italia della canzone oggi non propone grandi ricerche e complessità. Tenco era avanti anni luce rispetto a troppi personaggi che oggi vendono canzoni e vanno in giro a dire a tutti che suonano e cantano. Sostengono di suonare persino i dj (il minuscolo non è una distrazione). La Banda cerca di suonare mettendo il suo bagaglio musicale a servizio della canzone. Il mio mestiere è quello di rendere accessibile a più gente possibile il messaggio. Il resto, come sempre, lo fa il ritmo. Adesso stiamo cercando di capire se il disco delle taverne ha finito il suo corso promozionale (peraltro magrissimo come sempre) oppure se occorre proseguire a promuoverlo perché comunque non lo conoscono in tanti (1300 persone finora). Resta il fatto che abbiamo quasi spremuto le nostre risorse mentali, fisiche ed economiche, peraltro già affossate dall'estenuante lavoro di produzione del disco. Vorremmo verificare ancora una stagione, per poi decidere. Io personalmente spero che la decisione sia per il nuovo disco perché non mi piace aspettare che succeda qualcosa. Ci sono in giro troppi figli, cugini, nipoti, leccaculo e fratelli d'arte per pensare che ci succeda qualcosa. Il materiale per il nuovo disco è già pronto. Vorrei fare un trilogia cantautorale che comprenda tre situazioni tipicamente care al cantautore: la canzone d'amore, la canzone crepuscolare e la canzonetta. Ovviamente tutto condito di sano delirio. Un'opera a scaglioni (come nell'esercito). Ne riparliamo quando la Banda ha metabolizzato il mio desiderio e ha deciso definitivamente di seguirmi in questo suicidio musicale. L'unico vero rammarico che ho è l'assenza di situazioni per suonare dal vivo. Intendo situazioni in cui ti vengono riconosciute almeno le spese o un po' di riconoscenza per aver fatto ballare e bere un po' gente (… anche altro, succede). Credo che questa cosa dipenda più dal fatto che la musica in Italia è in un baratro molto scuro, piuttosto che dall'indisponibilità di spazi. La gente oggi non ascolta musica e non vuole sentirla quando ha del tempo libero. Intendo la maggior parte della gente. Se si occupasse più tempo alla ricerca di un po' di musica (non è vero che costa troppo, se sai cercare costa anche meno di quello che pensi), piuttosto che ai consigli dell'esperto o della "pulizia del viso" e di altre cagate che fino a due anni fà non erano nemmeno presenti nel vocabolario, le cose sarebbero forse migliori. Non importa io continuo a mantenere attiva la mia flora intestinale con del Caol Ila e lascio i fermenti vivi a quelli che stanno fermentando.

 

Taverne, Stamberghe e Caverne, è un disco che si pone in controtendenza rispetto al Ducoli rocker, quanto c'è di rock nella tua personalità e quanto di cantautorato alla Tom Waits per capirci?

Ti ho già accennato che non vedo alcuna differenza. Molte canzoni proposte da Bacco il Matto erano già presenti nella parte che se vuoi possiamo definire più "canautorale". "Sgangherata", "Berlicche" e anche "Delirio ordinario" stavano per essere arrangiate per il terzo disco del Bacco (mai finito). Tom Waits al Tropicana Motel suonava ballads ma era pieno di Rock'n'Roll e di Blues. Mi piace pensare soltanto che una canzone debba servire alla comunicazione. Occorre raccontare qualcosa, ovviamente sperando che ci sia qualcuno disposto a sentirla, perché hai qualcosa da dire. Se usi il Rock o altri stili non importa, il senso è quello. Se poi ti riferisci ad alcune atmosfere "latin" presenti nelle taverne occorre considerare che comunque quel disco fa parte di un progetto più ampio che non comprende solo canzoni del Ducoli ma di una Banda in cui il Ducoli è canta anche e scrive i testi.

 

Ho letto che insieme al disco ci doveva essere un libro? Raccontaci un po' di questo progetto multiforme, la tua idea di recente è venuta anche a Young, con il libro su Greendale...c'è da non crederci?

Infatti. Il progetto delle Taverne è un'opera scritta insieme a Marco Quaroni. Il disco è la colonna sonora ipotetica di un lungometraggio ispirato al libro di Quaroni. L'opera nel suo insieme si intitola "Uomini delle taverne". Il libro si intitola "L'uomo delle taverne" e comprende diversi argomenti molto cari sia a me che a Quaroni. Credo che sia un'opera interessante. Sicuramente rappresenta la radiografia esatta del mio modo di vedere le cose. Per capirla fino in fondo ovviamente occorre leggere anche il libro ma non ho quasi nemmeno la mia copia. Bisogna chiederle direttamente la lui. Purtroppo le cose con Quaroni non sono andate come speravo. Sono temprato.

 

A proposito di concept album, non ti è nuova come esperienza, qual'è il tuo giudizio su Greendale? E secondo te come mai un artista decide di dedicare un album intero ad un solo argomento?

Tutti i lavori che ho fatto sono concepiti come concept, almeno l'argomento è a grandi linee lo stesso. In questo la scuola di Neil è stata molto determinante. "Zuma" io lo vedo come un concept, idem per "Tonigh't the night". "Harvest moon" anche. Certo Greendale è un'unica grande canzone. Un unico argomento. Forse la tua idea di concept è più approfondita della mia. Non importa. Rimane il fatto che mi piace molto. Anche se contiene una sorta di latente rassegnazione per le cose che succedono, belle e brutte, che lascia un senso di offuscata malinconia e tristezzezza. Credo che forse occorrerebbe conoscere quella parte di America per capire fino in fondo cosa può significare davvero questo disco. Però conosco gente che dice cose che possono sembrare "when I was young people wore what they had on". Anche qui. Young è grande. Rimane comunque il fatto che gli argomenti di Greendale mi piacciono molto. Poi c'è il megafono di "Be the rain". Sono un ecologista convinto. Lavoro per il territorio. Tutti i giorni faccio i conti con chi sostiene la sostenibilità delle proprie azioni e si fotte una parte di territorio. Non credo però che sia l'uomo a dover salvare "mother earth", credo che l'uomo debba mettersi semplicemente un po' da parte e che il mondo sappia benissimo come salvarsi da solo. Comunque denunciare un certo schifo è sempre molto importante. Forse il disco è nel complesso un po' difficile ma in questo caso credo che sia il racconto a fare la differenza. Certo se la produzione italiana curasse dei booklets con traduzioni autorizzate e magari con una approfondita traduzione dei testi e più approfondite chiavi di lettura, sarebbe tutto molto più semplice ma non importa. Forse devo ancora attutire l'emozione dello Smeraldo (forse anche il costo) per approfondire meglio il lavoro ma non tarderò.

 

Sempre parlando di Taverne, Stamberghe e Caverne, in quel disco mi ha colpito molto il tuo omaggio a Fabrizio De Andrè, devo essere sincero ascoltandola bene, arriva a commuovere, come mai hai deciso di scrivere una canzone con la Nina e la Genova di Faber come protagonisti?

… un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena….. Esattamente uguale a Powderfingher. La bellezza mi commuove. Più schifo abbiamo intorno e più le cose belle appaiono grandi. La musica italiana ha bisogno di esprimere questa bellezza. Ce la stiamo sputtanando. Soffriamo ipocrisia. La nostra musica puzza lontano un chilometro di ipocrisia. Io personalmente ne ho pieni i coglioni di gente che scrive canzoni che descrivono realtà assolutamente lontane dalla vita quotidiana di oggi. Anche se si tratta di scrivere questioni intimiste o di denunciare che non sei d'accordo con la realtà, o ancora per protesta. Siamo pieni di canzoni con testi che hanno solo un senso musicale (peraltro mai pienamente calzante con la musica e con il ritmo che accompagna le parole) ma non sai cosa raccontano. Quando te lo spiegano capisci ancora meno. Risultato: la settimana successiva non ti ricordi nemmeno cosa dicono. Si ricordano soltanto fregnacce orecchiabili per decerebrati (" … it's a Piece of crap"). Quando non si sa più che cazzo fare si fanno tributi a Battisti. Giusto perché Mogol ha ancora bisogno di soldi. Il rock è grande perché ognuno che ascolta "Back in black" pensa di camminare come un uragano. Tutti quelli che hanno cantato "Bobby Jean" hanno un amico che avrebbero voluto salutare. Chi cavalca il sabato sera pensa di essere Johnny Yen. Quelli che cantano "Rock in the free world" si battono ogni giorno perchè anche il loro piccolo mondo sia libero. Tutti comunque personaggi che possono essere la tua realtà. Anche se si tratta di altri continenti e di altri sabati sera. Nel rock italiano di oggi puoi riconoscerti in una canzone per qualche settimana, la settimana successiva sei già cambiato. La canzona non va più bene. Io sono stato Johnny Yen 15 anni fà e a volte lo sono ancora oggi. A volte sono Big John. Altre quel pirla del Ducoli. La musica dei cantautori barcolla ma riesce ancora a raccontare qualcosa (anche se molti cantautori oggi sono narcisi peggio di Elton John, che almeno suona come un dio). Gente che scrive testi apocalittici, sentenziosi e autodistruttivi e poi fa colazione con i biscottini della nonna. Gente che parla di grandi sentimenti e poi si spara enormi strisce di cocaina in mezzo alle puttane. L'uinica purezza di cui veramente sentono il bisogno è nel taglio della polverina. Iggy Pop dovrebbe fotterseli tutti. Poi ci sono quelli che scrivono secondo gli stilemi del Rock ma non si capisce da che parte stanno. Chiedete a Ligabue se c'è anche solo un 1% dei suoi fans che conosce Neil Young. Io la radio che passa Neil Young non la conosco, non esiste. Nelle sue radio da fumetto cinematografico forse. Bella situazione. Scusate lo sfogo. Comunque De Andrè cantava la bellezza di tutte le cose. Questo è il senso delle cose.

 

Veniamo al presente, com'è nato il connubio Bogartz e Ducoli?

L'idea di fare un disco insieme ad Andrea Bellicini, basso e voce dei Bogartz, c'era già da un po'. Sempre sospesa fino a quando Davide Sapienza ci ha ricordato che poteva essere curioso ascoltare Ducoli e i Bogartz insieme. Io avevo alcune canzoni rimaste indietro dalle scorribande di Bacco il Matto. Altre cose mi sarebbe piaciuto rubarle ai Bogartz e mettermele addosso. Quindi ho iniziato a parlarne con loro che hanno capito l'intenzione del lavoro e abbiamo costruito "Tonight's the day". Abbiamo iniziato ad arrangiare i pezzi che avevo proposto e a riarrangiare le canzoni che mi erano piaciute immediatamente del loro repertorio. Andrea Bellicini ha scelto dal mio repertorio "Perfetta" per riarrangiarla a loro modo. Insomma uno scambio di idee. La scelta di inserire una cover è nata dalla necessità di segnalare immediatamente all'ascoltatore che i Dogs sono assolutamente schiavi, discepoli o qualcosa di simile, del rock'n'roll (… prisoners of rock'n'roll"). La scelta di "Tonight's the night" era praticamente obbligata. L'arrangiamento che ne ho proposto ai Bogartz è stato subito approvato. Loro hanno completato l'idea e hanno scelto i suoni. Tutto molto immediato. Quasi naturale. Un’escursione in territorio alieno …..

 

Domanda banale ma perchè il nome My Uncle The Dog, e i soprannomi alla Travellin' Wilburys? Volevate fare la superband?

La cosa è nata per caso perché loro mi hanno sempre pigliato per il culo per il mio atteggiamento un po' selvatico. La storia di "Moody Crow Pit" che si legge nel sito dei bogartz è nata proprio così, così come l'idea dei nomi. Sono contento di essere Cletus, Ducoli, Bacco il Matto. Mi piace l'idea. Molti adesso mi chiamano Cletus. Prima mi chiamavano Bacco. Ducolo. Adesso sono Cletus perché pensano che vivo davvero in una palude. Forse è vero. Abbiamo scelto nomi che potessero rispecchiare la personalità del gruppo, ad ogni nome è stato dato un soprannome altrettanto cercato. Il mio soprannome ad esempio è quello di uno Small Batch della Jim Beam. Nella palude non si beve solo fango.

 

Quanto c'è di istintivo in questo disco, io lo sento rabbioso, folle incontrollato.....

Tutto. The Mud! Come dice Bellicini, dovevamo costruire un pungo di canzoni affamate. I cani che ho in mente io hanno sempre molta fame. La follia non è clinica, è fisica, è solo riconducibile al desiderio di bruciare tutto in un colpo solo …. ti ricorda niente!?

 

E' la stessa follia che anima i personaggi del Ducoli?

Certamente. Io più che di follia preferisco parlare di delirio. Per me il deliro è una sorta di follia reversibile. Quindi ti permette anche di sopravvivere a te stesso. Dev'esserci sempre un po' di delirio perchè aggiunge teatro alla vita. Credo che la renda più piacevole. Più interessante. La cosa difficile è rendere il delirio, oltre ad assicurarsi che sia reversibile, sempre rinnovabile. Per non ripetersi. Per non copiare se stessi. Finora, senza grandi presunzioni, penso di esserci quasi riuscito.

 

Di chi è la colpa dell'aria da noir che tira nell'album dei Bogartz o di Ducoli?

Della palude.

 

Quali sono i riferimenti letterari presenti in Tonight's the day?

I riferimenti letterari dovete chiederli a Bellicini perché è un grande appassionato e studioso di letteratura americana. Io conosco solo Jack London e Steinback. Leggo molto poco. Potrei anche raccontarvi cifre di cui vergognarmi sulla mie letture. Ho letto alcune cose che mi sono piaciute molto ma non credo nemmeno di ricordarmi gli autori. Forse "Lacqua", ultimo pensiero di un vigilante pentito di una multinazionale delle risorse idriche in un ipotetico futuro negativo, può essere avvicinata a qualche racconto ecologista di Sepulveda ma l'ho scritta prima di leggerlo. Un certo cinema americano riesce ad essere molto letterario. "Angeli con la faccia sporca" è la storia di Ducoli e dei Bogartz. … ?

 

Perchè avete scelto il titolo Tonight's The Day?

Dovevamo costruire un disco scuro. "Tonight's the night" è il disco più scuro di Neil Young. Più di "Times fade away". Più di "Sleeps with angels". Ho chiesto a Marco Grompi di spiegarmi il significato reale di quel titolo. La sua risposta è stata eloquente: "la notte, la notte più lunga". Quando la notte è uguale al giorno sei finito nel "tonight's the day". C'è qualcosa che non va. Almeno alle nostre latitudini. Almeno se consideri la normalità è divisa tra notte e giorno. La cosa che non va forse sei tu. Non ci sono accezioni negative, semplicemente il fatto che sei finito in una sorta di baratro. Di buco. Di fosso. La reversibilità di questa condizione non è un dato esatto. L'unico dato esatto è il fatto che il tuo giorno viene vissuto esattamente come vivi la notte. Se la notte dormi, lo fai anche di giorno. Se la notte non respiri, non la fai nemmeno di giorno. Se la notte scrivi, lo fai anche di giorno. Se la notte bevi, idem. Se chiavi, lo stesso. Tonight's the day. Il mio problema peggiore è che sto vivendo una condizione simile pur continuando a fare una vita normale durante il giorno sovrapponendo le cose tra loro. Giorno di 32 ore. Caos.

 

Quali sono i progetti per il futuro di Alessandro Ducoli?

La cosa che sto seguendo con maggior attenzione in questo periodo è "Degeneration beat". Un esperimento italiano di "prosa spontanea" costruita con altri quattro personaggi: Andrea Bellicini, Boris Savoldelli, Federico Troncatti e Andrej Kutov. Io mi sono occupato di scrivere i testi. Sono stato coinvolto perché non avendo mai letto nulla di Beat Generation potevo riuscire a costruire una prosa spontanea non contaminata dal mito di Kerouac o di Corso e altri della combriccola. Mi hanno permesso di fare domande di ogni tipo su Jack Kerouac e sulla Beat genereation ma non mi hanno concesso alcuna lettura. Mi hanno dato alcuni ritmi su cui dovevo scrivere racconti e testi. Mi hanno obbligato, peraltro senza troppa fatica, ad ascoltare tutto quello che riuscivo del Jazz di fine anni '40. Mi hanno lasciato così a scrivere per intere settimane la mia idea di "spontaneuse prose" su cui poi hanno scritto le musiche. Attualmente è stata conclusa la preproduzione e dovremmo registrare il lavoro in inverno. Nel disco ci saranno anche due omaggi straordinari. Il primo è di Mark Murphy, grande voce mondiale del jazz. Ci ha regalato una lettura di "Sotterranei", come ai tempi del Red Drum di San Francisco o del Birdland di New York. Grande. Il secondo è di Fernanda Pivano che leggerà una parte del testo dell'ultima canzone. Sono ancora sconvolto della sua disponibilità e della sua intatta passione per ogni cosa. Vorrei essere come lei. Poi vorrei cominciare la mia trilogia cantautorale con la Banda. Con i Dogs vorremmo registrare "I still havent found what YOU looking for" (secondo capitolo da "Moody crow Pitt"). Potrei anche pensare di fare qualche concerto come Bacco il Matto. Ce ne sono di cose interessanti da poter portare avanti. Si tratta come in tutte le cose di tempo, soldi, fisico, mente e spazi. Ovviamente senza voler creare dubbi di iperpresenzialismo. Anche se non me n'è mai fregato molto dell'opinione della gente, almeno di quella più stanca e saccente.

 

Facciamo un passo in dietro e andiamo ai Cercatori D'oro, come è nato quel progetto discografico sotto le spoglie di Bacco il Matto?

Il nostro sito si apriva con il messaggio "il Rock'n'Roll è la nostra principale necessità". Bacco il Matto era il mio pseudonimo siae poi adottato nella prima formazione del Bacco e quindi divenuto una figura complessa formata da 4 loschi individui. Qualche mese fa ho scritto una canzone per raccontare l'avventura di Bacco il matto. La canzone, intitolata "Tombstone", la sua spiegazione si apre con queste parole: " … il Rock'n'Roll che diventa metafora. Il Far West lentamente si trasforma nell'america di oggi e il Cow Boy a volte non riesce a capire. La contrapposizione tra l'equilibrio perfetto dei campi di frumento e l'autostrada viene cancellata dal profilo di una signorina sdraiata tra le spighe. Il ritorno a Tombstone diventa un invito per quelli che hanno lasciato il cavallo per la salire sul treno. Per quelli che hanno dimenticato che il Rock'n'Roll non è uno stile musicale ma uno stile di vita". Forse il progetto del Bacco non è ancora finito ma in questo momento le cose sono cambiate rispetto a quel periodo e soprattutto sono cambiate le persone. Bacco il Matto ha navigato per circa 4 anni ogni tipo di palcoscenico proponendo molta energia e grande sentimento. Abbiamo registrato due dischi: "San Marco" e "Cercatori d'oro". Sono stati molto apprezzati da quelli che li hanno ascoltati.

 

Sempre in Cercatori D'Oro c'è la splendida Raffaella di Cheap Taylor, come sei riuscito a farti regalare quel brano? E qual'è il tuo rapporto con lui?

Cheap Taylor era in Italia nel '99 per presentare i suoi bootlegs parigini. Mauro Eufrosini era il suo riferimento logistico e gli ha dato "San Marco" quasi per caso. In quel periodo Mauro ci seguiva per procurarci qualche serata. Dopo qualche mese Cheap ha mandato a Mauro un DAT per noi. Su quel nastro c'era una canzone che lui disse di aver scritto in Italia e che gli sembrava giusto che diventasse nostra. Raffaella. Ci sembrava un sogno. Era la giusta ricompensa per dei cercatori d'oro che in quel periodo erano già in studio per registrare un nuovo disco. Abbiamo provato a contattarlo senza mai riuscirci, solo per dirgli grazie.

 

Quando sei On The Road per suonare qual'è il tuo rapporto con il pubblico? Cosa gli dai e cosa ricevi?

Mi piace cercare un livello di comunicazione. Mi piace raccontare le canzoni per verificare se sono cose in cui si riconoscono le persone che sono nel locale. Voglio capire se sono le stesse cose che vivono loro. Mi piace raccontargliele come non si sarebbero mai immaginati. Poi mi piace divertire. Il Rock'n'Roll è fatto per godere! Credo che un concerto debba avere tre caratteristiche fondamentali: professionalità, sentimento e ritmo. La professionalità è d'obbligo perché ti permettere di capire la realtà di quello che stai facendo. Inoltre è anche sinonimo di rispetto per il pubblico (non guasta mai; troppi artisti vanno in giro nei club a raccontare le loro nenie monocorde e monoriitmiche pensando che raccontare i propri sentimenti sia sufficiente per fare della musica una forma d'arte). Il sentimento è il motore del Rock'n'Roll. Il ritmo muove le chiappine e dietro alle chiappine si muove tutto il resto. Rosalità!

 

Di te mi ha colpito la tua personalità multiforme, poeta, rocker, cantautore...Bacco Il Matto, Banda Del Ducoli, quante sono le tue anime? O forse ne hai una sola? O ancora hai preso spunto da Bonnie Prince Billy aka Palace Brother aka Will Oldam...

Non lo so più nemmeno io. Negli ultimi tempi al posto del cervello ci ho il purè. Come nel Vesuvio per Lello Arena. Credo che un buon artista, passatemi questa autodefinizione, debba essere in grado di teatralizzare il suo personaggio. Fa parte dello spettacolo e finché c'è Rock'n'Roll c'è speranza (.. forse è stipendio … non è la stessa cosa.. non importa). Bacco il Matto cantava "Nuda e cruda", la stessa del Ducoli. Potrei farla anche con i Dogs, sarebbe la "Nuda e cruda" di Cletus. Nel lavoro del Kerouac, un vero concept in questo caso, Jack Kerouac viene catapultato nell'Italia di oggi all'inizio di un sabato sera ed ha tempo fino al mattino per cercare di riconoscere il Beat nella realtà che lo circonda. La ricerca prima appassionata, poi agitata, poi disperata, avviene tra il continuo alternanrsi di tre anime che lo accompagnano nel suo viaggio. Non ti anticipo nulla, ti manderò il lavoro. Credo che riuscire a convivere con diverse personalità senza creare danno a se stessi e agli altri sia una cosa accattivante. Finora "… non ho fatto mai del male a nessuno", a me forse sì. Sono quasi corroso.

Una domanda per concludere....se ti dicessero che il rock è morto cosa risponderesti?

Troppo facile. Ti risponderò senza usare riferimenti del "vecchio maestro". Come ti ho detto parlando di Tombstone, il Rock'n'Roll non è un genere musicale, è uno stile di vita. Finchè ci sarà l'uomo, ci saranno uomini che vivranno il Rock'n'Roll. Gli altri non mi interessano.

 

 

Il Mucchio Selvaggio (“fuori dal mucchio” luglio '99; intervista a Nicola Bonetti).

San Marco (Mucchio Selvaggio n° 341) è il titolo del CD d’esordio dei bresciani Bacco il Matto, la cui carriera è stata finora scandita soprattutto dai frequenti concerti nel nord Italia. Ad aiutarci a conoscere meglio il quartetto, comprendente anche Alessandro Ducoli (voce/armonica), Dario Filippi (basso) e Mauro Ferretti (batteria), è il chitarrista Nicola Bonetti.

Come è nata la band?

Io e Alessandro ci conoscevamo da tempo: poi alla fine del 1996, ci siamo trovati a dover allestire un gruppo per partecipare a un concorso. Quello è stato il pretesto per iniziare, mettere in atto e continuare a soddisfare la nostra necessità più impellente: suonare Rock’n’Roll.

 

Perchè Bacco il Matto?

E’ un incrocio fra il dovuto omaggio al dio Bacco, quello del vino, e una frase tipica delle nostre zone che indica le continue bizze caratteriali di una persona. Posso assicurare che è tutt’ora azzeccato, per l’intera band.

 

Quali sono le vostre radici?

Rock americano. L’ascolto della musica anni ’70 è stato rilevante, anche se abbiamo badato alla definizione di un suono attuale, senza nostalgia di sorta nel suono così come nel messaggio. I nostri padri ispiratori sono Neil Young, Bruce Springsteen, Lou Reed, Iggy Pop, ma anche artisti minori più vicini al roots come Calvin Russel, Seve Earle o James McMutry.

 

Il vostro disco si intitola "San Marco": c’è dietro qualche ragione politica?

Nessuna, il titolo deriva da una situazione che rispecchia l’indole di vita di Bacco il Matto: durante il carnevale di Venezia, uno di noi ebbe il campanile di Piazza San Marco come contorno alle attenzioni dedicategli da una generosa signorina in maschera.

 

Lo stile dei vostri brani è molto narrativo, come lo Springsteen della prima ora. Non avete mai tantato di praticare un lavoro di sintesi?

Ci piace raccontare storie e situazioni: il fattore narrativo è stso un elemento iniziale fortemente voluto da tutti, forse per paura di non essere abbastanza diretti o comprensibili, ma siamo anche ciscienti del fatto che la sintesi ha i suoi lati buoni......è come disegnare un quadro o scattare una fotografia. In futuro potremo farne più uso, ma per giungere a questo crediamo crediamo di dover crescere ancora e di attendere che il passo avvenga in modo naturale.

 

Cosa volete esprimere con le vostre canzoni?

Con la musica, che è la nostra vita, ci proponiamo di trasmettere sensazioni che oggigiorno, per vari motivi, sono purtroppo messe in secondo piano. Le nostre storie sono tutte vere e i nostri personaggi reali, per non tralasciare la comunicazione. I Bacco il Matto cantano anche ciò che vorremmo fosse la nostra esistenza quotidiana, e l’intento è scrivere la colonna sonora adeguata per ogni momento della giornata.

 

Qual’e la differenza di approccio fra lo studio e le esibizioni dal vivo?

E’ immensa, perchè i dischi non possono sintetizzare appieno ciò che capita nei concerti. Bisogna premettere che l’attività live di Bacco il Matto è come il carburante per un motore o come il vestito giusto per una bella donna; per noi tutto gravita attorno alle serate, alcune canzoni sono addirittura arrangiate nei soundcheck e quando ci è consentito usiamo i palchi come sala prove proprio per immedesimarci nell’ambiente. In studio non si ha la possibilità di sviluppare la stessa energia, un po’ perchè manca la spinta data dall’essere davanti ad un pubblico e un po’ perchè con l’autofinanziamento le risorse sono limitate.

 

Per giovani band rock come la vostra, l’Italia offre occasioni per fare qualcosa di serio?

La situazione non sembra rosea: l’industria per investire ha bisogno di riscontri commerciali, ma è anche vero che per ottenere tali riscontri occorrono investimenti. Gli spazi per farsi notare sono veramente pochi, ma a prescindere da ciò abbiamo deciso di non fermarci e di continuare ad autoprodurci. Se necessario anche per sempre.

 

Recensendo "San Marco" ho paragonato la vostra "Oggi" a "Uncle Johns Band" dei Grateful Dead. Qualcuno, però, mi ha detto che non conoscevate quel brano......

Esatto. Quando me lo hanno fatto sentire, però, non ho potuto negare una straordinaria somiglianza fra i due riff. Inoltre, a nostro vantaggio non abbiamo neppure le date, visto che c’era qualche decennio di differenza a favore dei Grateful Dead! Ti dirò di più: la stessa cosa è accaduta, sempre con oggi, con un pezzo presente in "Tracks" di Springsteen, con relativa e uguale sensazione di stupore da parte nostra. C’è comunque da rilevare che, dopo il riff iniziale, i tre pezzi si evolvono in direzioni completamente differenti....

 

Qual’è la vostra idea di Rock?

Il rock è uno stile di vita, un livello superiore di sensibilità che non si può scegliere. E’ una traccia incisa nel DNA di alcune persone che si trovano a seguire determinate morali o filosofie, ma non per decisione propria bensì per intima necessità . La cosa non si deve per forza sviluppare in modo creativo, nel senso che si può "essere rock" anche non avendo mai preso in mano uno strumento. E’ molto brutto comunque, rendersi conto della presenza di personaggi che si etichettano rocker senza avere avuto questa grazia, anche se basta un po’ d’occhio per riconoscerli subito.

 

Cosa avete intenzione di fare in futuro?

Lavorare nella musica e riuscire a viverci. Arrivare a mantenersi dignitosamente esercitando una professione che adesso, almeno per la massa, dignitosa non è ancora, se non praticata a livelli straordinari di notorietà. A noi questi livelli non interessano, ci accontenteremmo semplicemente di non dover rubare il tempo alle notti per fare quello che più desideriamo: suonare.

 

 

Spanish Johnny (Christian Verzelletti; Mescalina)

 

Mescalina: Spiegatemi un po' chi sono gli Spanish Johnny: un branco di springsteeniani abbandonati a sé stessi?

Cletus Cobb: Più che altro siamo un gruppo di diseredati, cacciati dalle mogli e dalle madri! Ci siamo accolti a vicenda per strada e io sono quello messo peggio! Almeno così sembra. Prima di me c'era un altro cantante, che adesso vive in Australia. Io non faccio "cover" di solito, solo che avevo ancora un po' di debiti con il rock'n'roll … quindi ho accettato di buon grado.

Mescalina: Siete sicuri che sia stato un bene accogliere Cobb nella vostra famiglia? Forse era meglio l'Australiano ...

Santiago Lobo: Cobb aveva le credenziali e lo spirito giusti per entrare a far parte dei Johnnies: conoscenza della materia trattata e entusiasmo per rinnovare un progetto che, dopo tre anni di concerti, era arrivato ad un punto morto. Gli Spanish Johnny più che una band di musicisti sono degli appassionati di un certo modo di suonare, una sorta di band tributo ad un suono e ad un'attitudine che solo chi ha ancora fede nel sacro verbo del Rock'n' roll può capire. La musica che Cobb ha proposto sui suoi dischi e sui palchi per anni non ci ha fatto dubitare che fosse la persona giusta per noi!

Mescalina: Ma tutto è nato dalla canzone di Springsteen "Incident on 57th street"?

Cletus Cobb: Certo che sì. Loro erano già Spanish Johnny nel '98 e sono partiti proprio da "Incident". Quando abbiamo deciso di scrivere il disco, io ho chiesto di aprirlo riscrivendo un mio finale di "Incident". Nella canzone del Boss Spanish Johnny viene portato via e secondo me muore. Il Boss stesso non lascia intendere niente di più preciso quindi ho deciso di finirla io con Spanish Johnny che scappa con Puertoricane Jane …

Mescalina: Il vostro Spanish Johnny quindi ha lo stesso spirito di quello di Springsteen, un po' disperato e un po' romantico?

Cletus Cobb: Ovvio.

Mescalina: E avete messo il mandolino alla fine del pezzo perché nell'omonima poesia di Willa Sibert Cather si parla di un suonatore di mandolino?

Cletus Cobb: Esatto, abbiamo trovato questa poesia di Willa Sibert Cather (peraltro meglio come conosciuta come "madre" dei romanzi rosa!) in cui c'era questo spagnolo che suonava il mandolino. …

Mescalina: E se Springsteen stesso avesse preso il nome del suo personaggio proprio da quella poesia?

Santiago Lobo: Non lo so, ma sarebbe interessante cercare di capirlo, lui non ne ha mai parlato, credo …

Cletus Cobb: In ogni caso Springsteen ha un lato romantico meraviglioso e chi ascolta la sua musica senza cogliere questo aspetto secondo me ne ascolta solo metà.

Mescalina: E voi avete messo "strumenti da border" come armonica e fisarmonica per dare un'atmosfera da ghost town? Per crearvi un vostro ambiente come se lo è creato Springsteen con il suo "spanish ghetto"?

Cletus Cobb: Sì, anche perché l'idea è che il progetto "Jokerjohnny" sia diviso in due capitoli: il primo è quello diciamo più romantico, che deve cogliere un certo tipo di romanticismo del rock'n'roll, anche con suoni più distesi usando il pianoforte, la fisarmonica, l'harmonium. Il secondo disco invece sarà più rurale, più legato alla terra nel senso di appartenenza alla terra e quindi sarà un po' più crudo …

Santiago Lobo: Stiamo pensando ad un disco più acustico, anche più bluegrass proprio …

Cletus Cobb: Però non avevamo calcolato che sarebbero venute le "Seeger sessions", anzi il secondo capitolo doveva essere spudoratamente bluegrass, comunque abbastanza sudista (nel senso Louisiana del termine), adesso invece lo limiteremo un po' altrimenti poi vengono a dirti che fai le cose perché le ha fatte il Boss! Appena riesci a trovare una fetta di pane te la mangiano gli altri!

Mescalina: Diciamo che anche voi siete dei bei morti di fame però! Sempre pronti a rubare … se penso quello che avete fatto a "Jokerman" …

Cletus Cobb: Non abbiamo rubato niente. Dylan ce l'avrebbe regalata comunque. La decisione di dare un volto diverso a "Jokerman" è venuta, perché, nonostante quello fosse uno dei dischi migliori negli anni '80, quell'arrangiamento non faceva uscire il pezzo immenso che ci è sembrato.

Mescalina: E come vi è venuta l'idea del trombone?

Cletus Cobb: Henry Dakota suona il trombone nella banda del paese …

Santiago Lobo: Noi facevamo già "Two hearts" col trombone!

Mescalina: Tra l'altro su "Jokerman" ti sei preso anche una licenza poetica cantando "fuck your sister" invece di "marry your sister", no?

Cletus Cobb: Ce ne sono altre due di licenze poetiche: una quando viene esplicitamente detto che Gesù era femmina e l'altra quando invece di "small dog", io dico "small setter"! Ce n'è un'altra ma non me la ricordo più nemmeno io … mi sembra nella strofa dei bambini.

Mescalina: Di sicuro Dylan ne sarebbe lusingato! Ma passiamo a personaggi come Zabulon e Demas: sono come voi dei reietti?

Cletus Cobb: Sì!

Mescalina: Zabulon viene dalla Bibbia?

Cletus Cobb: No. È lo "Uncle Zab" di Lou Cameron. C'è un passo del libro "Alla conquista del West", in cui lo Zab fa da mediatore tra l'esercito nordista e i Sioux Dakota. Finisce male. Mi ha ispirato l'intera canzone. Demas invece è il ladrone buono...

Mescalina: In entrambi questi pezzi ti scagli contro un uso della parola servile alla logica dell'interesse e del favore …

Cletus Cobb: Quei due brani sono dedicati a chi ha usato la parola per costruire cose migliori per tutti pagando con la propria vita. Come dice il Boss in "Youngstown": "the story's always the same".

Mescalina: È una critica immagino anche ai mass media?

Cletus Cobb: Se ti riferisci alla massima delle medie ho preso "distinto" ... un buon voto ... me lo ricordo a memoria: "con una situazione di partenza completa ha, complessivamente raggiunto un buon grado di preparazione che però, date le capacità, con una più attenta e responsabile partecipazione alle varie attività didattiche, avrebbe potuto essere migliore. Sa lavorare correttamente con i compagni in un rapporto di reciproco rispetto". Ero molto giovane ma già si capiva che sarei stato un anarchico.

Mescalina: Infatti da buon compagno non smetti di reclamare anche una memoria storica ormai scomparsa …

Cletus Cobb: Non sono un compagno. Sono un compagnone. È quasi la stessa cosa ma non del tutto. Comunque la memoria degli altri non so. Con la mia, a parte le pagelle scolastiche, ho diversi problemi. Lo studio continuo credo che ci possa salvare. Soprattutto se accompagnato a buone dosi di riflessione fancazzista.

Mescalina: I due concetti vengono ben riassunti dalla voce storica di Marino …parola e memoria ... con quella frase nel finale di "Figlio" che riassume tutto ...

Cletus Cobb: Il paese dimentica in fretta. Credo lo faccia per ripetere le cazzate che ha solo abbozzato in precedenza. Il progresso e lo sviluppo sono la migliore soluzione per prenderti a calci nel culo. Da questo punto di vista, i Gang sono l'esempio migliore se ad un certo punto della tua vita decidi che a prendere i calci saranno quelli che finora li hanno sempre dati. Sono orgoglioso di essere loro "figlio". Il loro messaggio è difficile da dimenticare.

Mescalina: Come è successo che vi hanno adottato al punto da regalarvi un loro pezzo, "Figlio" appunto?

Cletus Cobb: Noi abbiamo lasciato proprio che fossero loro: gli abbiamo solo mandato il nostro materiale.

Mescalina: Ma gli avete chiesto voi una parte recitata?

Cletus Cobb: L'idea era quella di fare cantare a Marino la seconda strofa di "Tombstone" che a me ricorda molto il paesaggio appenninico, dove loro stanno nelle Marche, quando dice "Ali che si muovono appena / disegnando geometrie naturali": me l'ero già immaginata cantata da lui e Sandro avrebbe fatto un solo di chitarra. Marino, quando l'ha provata, mi ha detto: "Questi so' i tuoi deliri e meglio che te li fai te da solo! Io ti faccio una roba mia: se non ti piace, la butti via. Noi si fa così di solito". Dopo qualche mese ci hanno spedito "Figlio". Quando l'abbiamo sentita, ci ha lasciati svuotati: è bellissima ed è davvero perfetta in "Jokerjohnny" …

Mescalina: Perché l'ultima ballata l'avete intitolata "Leaving Las Vegas"?

Cletus Cobb: È un riferimento al film di Figgs …

Mescalina: Io pensavo ad un modo per chiudere e sancire l'addio definitivo a quel mondo di abbagli e di favori contro cui il disco si batte …

Cletus Cobb: No. Nel film c'è questa colonna sonora jazz scritta da Figgs e cantata da Sting, bellissima ma a me sembrava centrasse poco con Las Vegas … così nell'unica scena in cui i due protagonisti vanno "via da Las Vegas", la scena della piscina, abbiamo pensato con molta presunzione di metterci una ballad country-rock … era il tassello che mancava a quel capolavoro …

Mescalina: Il rock'n'roll è presuntuoso, quindi rientrate nella lista …

Cletus Cobb: Ovvio. Pensa addirittura che il progetto complessivo prevede cinque dischi: uno è quello che è uscito dei My Uncle The Dog, poi ci sono i due "Jokerjohnny" (con il secondo credo pronto entro quest'anno), "Dog Tales" e forse un disco solo chitarra armonica e voce ma non sono sicuro …

Mescalina: E poi riunirai tutti questi deliri in un cofanetto?!

Cletus Cobb: Certo! Al costo di un Euro altrimenti poi la gente oggi va avanti tutta la vita a rinfacciarti di avere comprato un tuo disco!

Mescalina: Per ora questa prima parte di "JokerJohnny" come è stata accolta?

Santiago Lobo: Le reazioni al disco sono state superiori alle aspettative, probabilmente perchè chi ci conosceva per le nostre performances dal vivo non pensava che uscissimo con una produzione, un suono e con arrangiamenti di questo tipo. Inoltre il punto di forza dell'album è il livello e la qualità delle canzoni, cosa che spesso manca alle autoproduzioni e non solo....

Mescalina: E in studio, cioè nel pieno del delirio, cosa ascoltavate?

Cletus Cobb: "Jerusalem" di Steve Earle e basta.

Mescalina: Dove avete registrato?

Cletus Cobb: Abbiamo registrato in Val Camonica…

Santiago Lobo: … era la prima registrazione che facevano lì…

Mescalina: Non hai o avete in programma di registrare un live?

Cletus Cobb: Non è che Cobb sia proprio un buon investimento … anch'io, se dovessi investire su di me, non so se lo farei … credo che i Johnnies vorranno pensarci bene.

Mescalina: Ma voi credete davvero che sia un investimento difficile da accettare produrre dischi con Cobb?

Santiago Lobo: In generale produrre dischi di roots rock in Italia è un investimento fallimentare. Il disco lo abbiamo pagato con un anno di concerti e i nostri conti per ora sono ancora in rosso ... La presenza di Cobb porta certamente entusiasmo visto che scrive e propone valanghe di canzoni, il problema principale consiste nell'adattarsi ai suoi ritmi notturni in fase di arrangiamento e registrazione... In ogni caso se c'è qualche mecenate appassionato di r&'r che vuole finanziare il prossimo album è bene accetto!

 

 

Alessandro Ducoli di Richi Barone - Il Brescia (giugno 2006). 

 

Qualcuno ha ancora in mente l’immagine di Brescia come città tutta industria e finanza, con pochissime concessioni alla cultura e allo svago. Da allora – sono passati solo pochi anni -, l’economia ha subito il trauma di una crisi dalla quale ancora non si intravede via di uscita. Per questo e per molto altro la città è mutata radicalmente. Oggi ci sono gli extracomunitari che una volta non c’erano ma ci sono anche le “Grandi mostre”, che attirano migliaia di visitatori nella eccezionale cornice del museo di Santa Giulia, che l’intera Europa ci invidia. La città è sempre più bella, e la crescita artistica è sempre più rilevante, soprattutto nel settore musicale. Francesco Renga è ormai una star riconosciuta, Riccardo Maffoni ha vinto l’ultimo Festival di Sanremo nella categoria Giovani, Mauro Pagani è considerato un luminare, Omar Pedrini stupisce ogni volta per la sua fantasia e la sua determinazione. E ci sono pure Fausto Leali che non molla un colpo e il “Boss” della provincia, Charlie Cinelli, che fa più concerti lui che molti presunti talenti nazionali. Ci sono poi i cosiddetti minori, quelli poco noti, anche se hanno talento ed esperienza da vendere. Tra questi ci permettiamo di segnalarne uno, un cantastorie vero, che vive lassù tra i monti ma non per questo non conosce il mondo. Di nome fa Alessandro, di cognome Ducoli. E’ camuno, nativo di Breno, e da quelle parti lo chiamano “il Ducoli”, anche se all’inizio era conosciuto come Bacco il matto. Ma facciamoci raccontare da lui come è andata.

 

Alessandro, senza offesa, come fa uno che nasce a Breno a diventare musicista?

Sempre che di “musicista” si possa parlare … non credo sia una questione “territoriale”, si crescono infanzia e preadoloscenaza schiavi di due sorelle maggiori che forti del diritto di veto sull’unico mangiadischi della casa ti obbligano al reiterato ascolto di Baglioni, Battisti, Fogli, Collage, Venditti, Pupo, Cocciante, ecc. Diventa una necessità disintossicativa. Se invece vogliamo puntualizzare la questione “camunia”, ti dirò che molte cose scritte e prodotte in valle dai miei “colleghi” a me suonano molto interessanti (certamente hanno molto mordente …).

 

Noi ti conosciamo da molti anni, da quando eri il cantante di Bacco il matto: spiegaci un po’ come è nata questa band che ha inciso alcuni dischi di ottima levatura?

L’idea mi è venuta per la promozione del mio primo disco, Lolita. Nessuno aveva capito che nonostante le sonorità swing (mi perdonino i puristi dello swing ….) si trattava di un pugno di canzoni di astrazione folk-rock. Con Nicola Bonetti e Mario Stivala abbiamo iniziato ad arrangiarli per una band elettrica. Soprattutto Bonetti era assolutamente convinto che le potenzialità inespresse di quel disco fossero una questione unicamente di “suono”. Non so se aveva ragione, comunque è nata la “Bacco il matto band” poi diventata semplicemente “Bacco il Matto”. In effetti i suoni del Bacco sono arrivati in diversi luoghi e meglio di quelli della Lolita del Ducoli. Però credo si trattasse solo di “maggiore maturità artistica”. La personalità aiuta sempre a far capire meglio quello che hai da dire e, almeno nel mio caso, richiede sempre un po’ di tempo in più per esprimersi.

 

Bacco il matto ha avuto un eccellente riscontro a livello nazionale: le recensioni positive della stampa nazionale lasciavano presagire un avvenire radioso: cosa è successo poi che vi ha impedito di esplodere?

Bacco il Matto ha interrotto la sua attività perché Bonetti, nel frattempo divenuto esatta metà artistica del progetto, si è trasferito in Veneto per lavoro. Non so se si può parlare di chiusura del progetto, rimane assodato che adesso le priorità sono altre. Diciamo che il Bacco si è preso un lustro sabbatico.

 

Chiusa la porta di casa Bacco si è aperta quella di casa Ducoli: ti sei allontanato di molto o hai solo girato l’angolo? 

Ducoli e Bacco il Matto sono la stessa cosa. Anche oggi.

 

Scusa se insisto: hai fatto dischi bellissimi come Cercatori d’oro, San Marco, Malaspina, Anche io non posso entrare: com’è possibile che il tuo nome sia ancora poco conosciuto?

L’Italia ha legato la diffusione della musica unicamente agli sponsor. Se hai degli sponsor non importa cosa scrivi e canti, arrivi sempre e comunque. Sia nelle produzioni musicali sia nella promozione live di un progetto. Ho sempre pensato che questa cosa fosse un handicap ma dopo oltre 15 anni di canzoni e concerti credo di poter senza presunzione affermare di non aver bisogno di nessun aiuto. Non perché non mi piacerebbe averne (… ovviamente se si tratta di aiuto onesto …), sarei un ipocrita a sostenere il contrario, ma perché l’unica cosa che mi interessa veramente è continuare a fare canzoni e per farlo lo sponsor non è necessario.

 

Parlaci dei tuoi ultimi progetti, di La Banda del Ducoli, di Spanish Johnny…

La Banda del Ducoli è il progetto più importante che mi sia capitato fino ad oggi. Arcangelo Buelli, Massimo Saviola, Lorenzo Lama e Renato Saviori hanno pubblicato con me due dischi (tre se consideriamo anche Malaspina) che sono la mia esatta “radiografia umana”. Li abbiamo costruiti insieme e abbiamo fatto anche diversi e apprezzati concerti. Purtroppo la mancanza di riscontri ha contribuito ad “affaticare” la squadra che ha deciso di prendersi una pausa, non so di quanto. Gli Spanish Johnny invece sono una vera e propria scorribanda in territorio alieno … (Neil Young direbbe così … sorry). Con loro vado in giro nei bar a suonare rock’n’roll con lo pseudonimo di Cletus Cobb. Abbiamo pubblicato Jokerjohnny I in cui ci suonano anche i bresciani Paolo Mazzardi e Beppe Donadio, oltre ai Gang e Veronica Sbergia. Presto ci sarà un secondo capitolo intitolato Jokerjohnny II (forse già quest’estate). La mia intenzione è quella di pubblicare 5 capitoli di una sorta di metafora del rock (oltre ai due Jokerjohnny c’è già anche Tonight’s the day del 2004 con i My uncle the dog e un disco acustico ancora in fase “ibrida”). Si tratta di una sorta di “tassa” che credo ognuno che si occupa di musica abbia nei confronti del rock’n’roll, indipendentemente dal genere a cui sostiene di appartenere. Il resto riguarda la mia, diciamo, carriera solista. Che rimane comunque il mio principale obiettivo.

 

Senza dimenticare che sei tra i finalisti del concorso musicale Musicultura di Recanati, una fucina dalla quale sono emersi talenti come Amalia Grè e il nostro Riccardo Maffoni.

Credo sia un buon palcoscenico. Ci sono andato solo recentemente perché ritenevo di non essere ancora maturo per proporre le mie cose di qualche anno fa. Forse avrei dovuto andarci prima … già Malaspina avrebbe fatto un figurone. Devo dirti che comunque fino a pochi anni fa non mi interessavano i concorsi musicali anche se Recanati mi ha sempre dato l’impressione di essere “meno concorso” degli altri. Forse oggi non è più così ma non so dirti … non ci penso più. Comunque con la Banda siamo stati finalisti con A proposito di questi giorni mentre quest’anno siamo in finale con Disarmonia con i Brother K (progetto a 5 teste, 4 bresciane e una russa, impossibile da descrivere in due righe … ).

 

E a Settembre il nuovo disco, che speriamo sia quello della definitiva consacrazione.

Non credo sia una necessità avere una consacrazione. I parametri che servono a descrivere questa cosa oggi sono talmente deviati e devianti che quasi preferisco non succeda. Spesso la consacrazione non dipende nemmeno dalle canzoni che scrivi. Per me è gia un’enorme gioia aver proseguito il mio viaggio artistico con il mio nuovo disco che si intitolerà Brumantica (penso verrà stampato per ottobre). L’ho realizzato con Alessandro Galati, Ellade Bandini, Ares Tavolazzi, Fabrizio Bosso, Tino Tracanna e Sandro Gibellini. Il disco è stato prodotto da Paolo Filippi del Cavò studio di Bergamo. Con Paolo abbiamo ragionato anche sull’eventuale promozione del lavoro. Dopo lunghe analisi, che spesso finiscono con delle incognite troppo grandi, abbiamo deciso che in assenza di idee concrete produrremo un altro disco.

 

Cesare Casalini, www.vocecamuna.it

Anche questa volta ho “intrappolato” il Ducoli in una lunga intervista che riguarda il suo ultimo lavoro appena uscito, “Taverne, stamberghe, caverne” in collaborazione con la sua Banda.

 

CESARE: OK, Sandro, siamo qui per parlare del tuo ultimo disco “Taverne, stamberghe, caverne…

ALESSANDRO DUCOLI: Certo, anche se io ti ho già detto che non ho molta voglia di parlare di questo disco.

C.: Come mai?

A.D.: Così, non possiamo parlare di qualcos’altro? Tanto i camuni, se vogliono sapere qualcosa di questo disco, me lo chiedono, con tutte le volte che mi vedono in giro, non so, parliamo della mia infanzia…

C.: Dall’ascolto di questo album sono riuscito a capire che ti chiami Ducoli Alessandro Armando, non lo sapevo, ho imparato una cosa nuova, e che, se non ho capito male, sei cattolico non praticante?

A.D.: Sono completamente ateo. Ho dovuto dire che ero cattolico non praticante perché Gesuplina è una persona molto sensibile, insomma, per non turbarla, ma poi è stata talmente concitata la cosa che non avevo capito se lei mi stava chiedendo se ero cattolico dal punto di vista anagrafico, ovvero se avevo ricevuto i sacramenti oppure no. Le avrei risposto che il sacramento del matrimonio ancora non l’ho preso, è un sacramento il matrimonio?

C.: Tra le note di introduzione del disco c’è un “Arrivederci Signor G”.

A.D.: Nei giorni in cui stavamo chiudendo le riprese, forse mancava proprio solo la voce, è mancato Giorgio Gaber che è sempre stato uno dei miei guru, per cui sembrava doveroso riconoscere il fatto che se il Ducoli si occupa di canzonette è anche perché qualche maestro c’è stato, e fra questi Giorgio Gaber sicuramente è uno dei maggiori. Questo album è l’esatta metà. Volevo dire artistica, ma mi sembra un po’ azzardato sostenere che sia arte quello che faccio, è l’esatta metà di un progetto che vede un disco intitolato appunto “Taverne, stamberghe, caverne” e il libro di Marco Quaroni “L’uomo delle taverne”. Il progetto, nel suo insieme, si chiama “Uomini delle taverne”, ed è, diciamo, dedicato ai piccoli centri urbani delle Alpi.

C.: C’è una canzone che si chiama “Sgangherata”.

A.D.: “Sgangherata” scritta ispirandomi alle rane del Caalèr del Passo di Crocedomini. Mi sembrano degli esseri molto allegri, quando saltano liberamente nei prati, ma qualche volta finiscono nelle mani sbagliate.

C.: Mi sembra di notare che in questo album ci sia una ricerca di suono di gran lunga superiore rispetto alle prove precedenti, secondo me sei andato sempre in crescendo, da primi lavori magari un po’ stentati sei arrivato comunque su livelli più che ottimi sulla qualità del suoni e anche sulla ricerca degli strumenti e delle sonorità.

A.D.: Penso che l’importante sia che una persona nella vita migliori, per cui, magari non dico che erano stentate le prime cose, sicuramente soffrivano di ingenuità, per cui inferiori alle prove successive lo sono sempre state, anche se comunque l’ingenuità in certe cose può essere un pregio. In questo caso sicuramente si nota il fatto che il disco è una produzione, che comunque deriva da due anni di lavoro sia dal punto di vista concertistico perché comunque è stato supportato da cinquanta concerti, e gli arramgiamenti sono stati fatti dal vivo per una band normale, poi dopo abbiamo individuato la possibilità di aricchire i suoni chiamando degli ospiti e questo abbiamo fatto, comunque in questo disco, rispetto ai preccedenti si nota la produzione, si nota soprattutto a livello ritmico, infatti i produttori sono il batterista Arcangelo Buelli e il bassista Massimo Saviola. La ricerca dei suoni è legata ai musicisti che riusciamo a coinvolgere senza particolari problemi nelle cose che facciamo, quindi ci sono Beccalossi e Bombardieri rispettivamente ala fisarmonica e al sax, che comunque comparivano in tutte le mie precedenti prove soliste, purtroppo manca Beppe Gioacchini alle percussioni, perché il disco dal punto di vista ritmico non poteva sopportare le percussioni, abbiamo chiamato Oscar el Barba, questa volta non per il pianoforte perché comunque disponevamo già del pianista, Renato Saviori, ormai in pianta fissa nella band, l’abbiamo chiamato per suonare il piano Fender, e poi abbiamo inserito anche un organo Hammond suonato da Paolo Mazzardi degli Impossiblues. Credo che “Berlicche” sia abbastanza emblematico di questa, diciamo, maturazione, ma non è forse del tutto vero, di questa produzione, si tratta di un “New Orleans blues” in cui il tocco ritmico dei produttori Saviola e Buelli viene fuori in maniera ergegia, almeno questo è il mio punto di vista, non so quello degli ascoltatori.

C.: Volevo sapere anche qualche particolarità sugli studi di registrazione che avete usato per questo album.

A.D.: Grosse novità rispetto a quello che ho fatto in precedenza non ce ne sono perché l’album è stato interamente registrato a casa di Arcangelo Buelli che dispone di tutte le strumentazioni necessarie per fare un lavoro di qualità, oltre a disporre soprattutto delle capacità tecniche, cosa abbastanza rarar ai prezzi che propone. Abbiamo, rispetto al passato, questa volta registrato il pianoforte in un altro studio, abbiamo registrato un pianoforte vero, avevamo questo capriccio da risolvere, se il pianoforte vero potesse aumentare la qualità delle canzoni, si tratta di canzonette, insomma, usare un pianoforte vero rispetto a un pianoforte campionato magari poteva dare un guadagno… Credo sia stato più un capriccio che altro, comunque ben voluto e apprezzato sicuramente, il suono di pianoforte è, per me personalmente che non avevo mai registrato un pianoforte a coda lunga in uno studio appositamente creato per la registrazione di un painoforte è stato una meraviglia, è quindi il pianoforte è stato l’unico strumento registrato in maniera diversa rispetto al passato, poi tutto il resto è stato fatto a casa di Archi.

C.: Una costante che noto nelle tue canzoni è che c’è sempre qualche riferimento al sabato sera, ai sabati felici, ai fine settimana, alle avventure di sesso e alcool, insomma picaresche. Può essere il caso di “Un sabato felice”?

A.D.: E’ la canzone più morbida e romantica del disco. E’ una canzone molto particolare perché racconta la storia di un nostro carissimo amico che una sera, tornando da un concerto di Rickie Lee Jones lì in pianura, tra Brescia e Piacenza, in un locale dove suonano, lui dice che aveva bevuto solo acqua, ma non era vero, si è fermato per un bisognino, si era fermata una volante dei Carabinieri per chiedergli cosa stava facendo e lui gli ha chiesto “Ma dovete proprio chiedermelo?”. I Carabinieri lo hanno denunciato per vilipendio all’Arma dei Carabinieri e lui è stato condannato a sei mesi con la condizionale, per cui per una cosa del genere una persona viene condannata, la fedina penale rovinata, per cui la sua vita deve essere completamente adattata a questa situazione, se vai a cercare un lavoro vedono che la tua fedina penale è sporca e non ti chiedono il perché. Siccome lui è uno straordinario cantante di musica brasiliana, ha sempre avuto come fonte di salvezza da questo disastro emotivo in cui lo hanno cacciato l’ascolto di Caetano Veloso, abbiamo deciso di dedicargli questa canzone che ha ben poco a che vedere con le sonorità di Caetano Veloso, però con il suo spirito quando lui parla della musica, credo che c’entri eccome.

C.: E’una canzone che potrebbe anche essere intesa come un singolo?

A.D.: Sì, la Banda del Ducoli, diciamo, i miei compari sono tutti unanimemente d’accordo sul fatto che questo è uno dei pezzi che ha maggior forza, diciamo il maggior appeal radiofonico. Io ovviamente preferisco sonorità un poco più spigolose, ionfatti non ascolto mai la radio, per cui potrebbe benissimo essere intesa come singolo, il testo e il ritornello richiamano la canzone italiana tipica. Io sono molto felice di avere scritto questo testo, tra l’altro la musica è stata completamente scritta da Massimo Saviola, perché ho scritto il testo conoscendo soltanto la storia, me l’ha raccontata Massimo, che è il bassista di questo cantamte, e ho chiuso il ritornello con una frase E’ importante fare musica per amore smisurato per le ballerine”, senza sapere che Marco, il protagonista della canzone, era scappato vent’anni fa a Parigi perché si era innamorato follemente di una ballerina, e nessuno sapeva più dove era finito, e quindi questa cosa è stata vista un po’ come un presagio positivo della canzone a cui ci siamo un poco affezionati tutti.

C.: Adesso entriamo su un terreno minato perché affrontiamo il discorso Fabrizio De Andrè.

A.D.: Parliamo di De Andrade, il pirata che è morto trecento anni fa, è scritto su “Le nuvole”…

C.: …che tra l’altro in una canzone era il cugino di De Andrè, l’illustre cugino De Andrade…

A.D.: …l’illustre cugino De Andrade, pirata del Settecento.

C.: “Nina”, mi stavi dicendo che siete stati anche a Genova a registrare alcuni pezzettini al mercato.

A.D.: Va detto che può suonare molto presuntuoso il fatto che il Ducoli venga qui a pensare di essere un discepolo di De Andrè, spero che questo orribile gioco non si ritorca contro di me. La canzone “Nina” è stata scritta semplicemente perché l’album “Anime salve” è l’ultimo disco di musica italiana che mi ha emozionato, e l’ascolto di “Ho visto Nina volare” mi ha praticamente devastato perché la bellezza di quella canzone, di quei suoni, credo che non abbiano eguali, per cui io con l’entusiasmo di avere scoperto cotanta bellezza, ho cercato di rendere omaggio scrivendo questa canzone che parla di De Andrè che sta scrivendo la canzone “Nina”, e siccome è piaciuta moltissimo ai miei musici, abbiamo deciso di ampliare un po’ la presunzione andando direttamente a Genova a registrare i rumori della città, per cui siamo stati al mercato di Statuto a registrare la gente che tra l’altro si è lasciata coinvolgere in maniera meravigliosa a questo gioco, noi gli abbiamo detto: “Siamo della Valle Camonica, siamo venuti qui a registrare i suoni del mercato perché vogliamo fare un disco”, è partita una festa del mercato, per cui io spero che questa cosa suoni veramente come un tentativo di fare un omaggio e non di emulazione di De Andrè, insomma, cosa che ritengo peraltro impossibile. Non ci riesce il figlio che, geneticamente mi sembra molto vicino al padre, figuriamoci se ci riesce qualcun altro, ma anche perché non avrebbe senso.

C.: E sul finale di questa canzone c’è un richiamo a “Creuza de mà”.

A.D.: Chiedo scusa a tutti i fan di de Andrè, perché anche questa è una cosa che può suonare come una presunzione, io purtroppo ho il terrore della presunzione, ultimamente, non perché sono abbastanza incline a tirarmela un po’, ma perché purtroppo la gente è incline a romperti le scatole su qualsiasi cosa fai. Il fatto che sul finale della canzone ci sia il richiamo al riff di “Creuza de mà” è semplicemente derivato dal fatto che la corista, mentre stavamo registrando la sua parte, ha cominciato a fare il verso al riff di “Creuza de mà”, ci è sembrata una cosa splendida, e anche lì è stato molto emozionante sentire che la cosa funzionava, per cui abbiamo deciso di riprenderlo e di inserirlo nella coda della canzone. Ti è piaciuto, Cesare? Dimmi sinceramente cosa hai pensato.

C.: Il fatto del richiamo finale, è un discorso spinoso perché oltretutto in questi giorni si parla sempre di plagi, non plagi, quando un richiamo finale è perciso alla canzone, è un omaggio!

A.D.: Era quello che poi noi abbiamo sperato che la gente riuscisse a capire, insomma.

C.: Adesso una cosa che mi ha particolarmente colpito, quel discorso iniziale sul successo, sulle persone che devono avere successo, se no diventano falliti, come voglianmo metterlo? Fra l’altro mi sembra che sia un discorso proveniente da uno psicologo americano.

A.D.: Dentro il disco c’è una canzone che si intitola “Maledetta Africa”, che viene ripresa in maniera quasi totale anche all’interno del libro ed è una canzone, non lo so neanch’io se di protesta o di che cosa parla, semplicemente sostiene che… Posso evitare di dire che cosa sostiene? E’ una canzone che parla di tante cose a cui noi abbiamo voluto inserire questa intro che, in teoria all’inizio doveva essere presa pedissequamente da una cassetta di una nota compagnia assicurativa tedesca che invitava i consociati, una specie di P2, di loggia massonica, ad entrare in una logica di succeso, di superuomo, di superio, con una serie di racconti di uno speaker con una dizione da coglione, con sotto un jingolino idiota, e alla fine abbiamo pensato che non era molto semplice prendere le frasi da quel nastro perché era depositato, avremmo avuto grossi guai legali, abbiamo deciso di fare il verso alla definizione di successo di questo noto psicologo americano che lo ha studiato dal punto di vista sociologico, non per farne l’apologia, e che invece questo speaker riprendeva per inculcare ai suoi adepti nel mondo che ci sono persone di successo e falliti, sono le due categorie di cui si parla. Io personalmente preferisco stare dalla parte dei falliti, se il successo ha quella faccia lì, poi se si parla dal punto di vista economico, Cesare, devono darci i soldi a noi e tenersi il successo loro. Non trovi che sia una bella cosa?

C.: Già, sarebbe una bella cosa. Ma un’altra bella cosa è anche ascoltare questo pezzo che ha dei ritmi molto particolari, anche abbastanza allegri, diciamo.

A.D.: I toni non sono molto allegri, anche perché, al di là di una intro che precedentemente era un 12/8 proprio per richiamare i ritmi centroafricani e che non siamo riusciti a far funzionare in maniera adeguata per questo pezzo, è un pezzo abbastanza duro. Diciamo che forse l’armonia, come dici tu, è più morbida di quello che possa sembrare per una canzone con un testo così duro nei toni, per il resto è una canzone abbastanza normale.

C.: Avete suonato a “Rockin’ Colere”, “Se la montagna non va al rock, il rock va in montagna”.

A.D.: Ma te la sei inventata adesso?

C.: No, l’avevo letto su un manifestino che riguardava una manifestazione di “Rockin’ Colere”, che tra l’altro sono dei ragazzi che si danno un da fare enorme perchè sono stati capaci di portare a suonare al Palacolere perfino Joe Ely, se non mi sbaglio, quindi è gente che si dà molto ma molto da fare, io ci ho visto Massimo Bubola, personalmente, cinque anni fa, Bacco il Matto più volte…

A.D.: …insieme ai Gang…

C.: Insieme ai Gang, esatto.

A.D.: All’inizio premetto che avevamo concordato con i ragazzi del gruppo “Rockin’ Colere”, meravigliosi, un’ipotesi di loro cofinanziamento dell’opera, intendo libro e disco, trattandosi di un’opera che parla di piccoli centri urbani situati al centro delle Alpi, mi sembrava doveroso far sentire quelli di Colere al centro della storia, poi per problemi esclusivamente economici ovuti al loro autosostentamento, la cosa non è potuta andare avanti, e io ho chiesto loro se ugualmente potevo presentare il disco e il libro al Palacolere, loro hanno dato la loro piena disponibilità dimostrando tra l’altro quanto siano comunque affezionati a certe cose. E’ triste, triste, veramente triste che le associazioni e le amministrazioni della Valle Camonica, che hanno ben altri mezzi, nemmeno si occupino di queste cose e lo facciano a Colere, dove hanno mezzi molto più contenuti. E’ triste ed è diagnostico di quanti cialtroni ci sono in Valle Camonica. E lo dico senza nessuna presunzione.

C.: Cosa mi puoi dire della canzone “Maligno”?

A.D.: “Maligno” è una canzone colombiana. E’ una canzone degli Aterciopelados che ho scoperto grazie a Carlo Ducoli che ha sposato una signorina colombiana, che oggi vive a Breno, che mi ha regalato questi dischi degli Aterciopelados in cui è contenuta questa canzone prodota da Marc Ribot, che i feticisti waitsiani conoscono bene, e che è una canzone meravigliosa a cui io ho inserito un testo in italiano, va be’, la versione originale è in spagnolo, quindi non è che sia tanto difficile, però è un italiano che canta in spagnolo maccheronico, non è un’idiozia, comunque, è una canzone che ha un suo significato. Mi era piaciuta in modo particolare, è piaciuta anche alla Banda, abbiamo deciso di arrangiarla in maniera molto simile all’originale, però molto più europea, quindi il ritmo si è un poco rallentato e le atmosfere si sono un po’ più incupite rispetto alla solarità del pezzo originale.

C.: Ti vedo piuttosto spaventato perché adesso dobbiamo parlare de “L’alluvione”. Come mai?

A.D.: Perché è un argomento molto delicato per me che lavoro e ricevo uno stipendio dal territorio. Chiamarlo stipendio è comunque abbastanza lesivo dello stipendio normale perché veramente penso ogni volta di ricevere un’offesa morale, non tanto perché, avendo studiato, possa pretendere un certo stipendio, ma perché è veramente basso. Comunque “L’alluvione” sostanzialmente parla di tutto quello che è successo dopo gli eventi della Valtellina soprattutto a livello economico, in termini di speculazione edilizia, non vengono fatti dei riferimenti precisi, ma viene semplicemente raccontata la storia di uno che osserva l’alluvione dall’alto, la osserva canticchiando ancora le sue cose sapendo che comnque il dolore di chi si trova nell’alluvione verrà poi dimenticato presto, mentre invece coloro che restano a ricostruire potranno gioirsela e raccontarsi tante belle cose anche riguardo all’aluvione. Mi rendo conto che, detto da me che oggi lavoro per il territorio, è abbastanza difficile, però sono cose che io sentivo dentro di me in maniera forte, e vi assicuro che il mio contributo eticamente e deontologicamente, per quanto riguarda il territorio, è sacro.

C.: Voglio fare una osservazione a proposito della Valtellina. Io non vado molto spesso a Livigno, ci sono andato due settimane fa, erano quattro o cinque anni che non andavo. Le gallerie dopo Sondalo sono diventate lunghissime, praticamente hanno bypassato tutta la zona, ma mi viene il sospetto che sia anche per non far vedere alla gente lo scempio.

A.D.: Non credo che siano queste le considerazioni, certo, sostenere che una strada per gente che vive in condizioni altimetricamente disagiate rispetto ad altri, perché muoversi dalla Valtellina o comunque dalla Valle Camonica per scendere al piano dove oggi si concentrano le questioni produttive, il disagio c’è per cui una strada va costruita, non riesco a capire il perché ogni volta che si deve costruire una strada non sono queste le motivazioni che fanno muovere i primi passi, ma semplicemente la possibilità di un rilancio in montagna. Fare una strada per poter fare scendere la gente più tranquillamente io lo condivido, fare una strada per far salire dei domenicani vestiti come degli idioti che colonizzano tutte le nostre montagne, i nostri versanti, per poi riempire le tasche soltanto di qualche persona, perché questo rilancio dello sci in Alta Valle Camonica, io, sinceramente, come cittadino di Breno, non lo vedo come un grande beneficio per me. Lo vedo semplicemente come un disagio, soprattutto in virtù del fatto che abito esattamente di fronte all’uscita della superstrada, per cui io dico se devono rilanciare qualcosa in Valle Camonica, io mi ritengo comunque in dovere di dire: “Anch’io voglio essere rilanciato”.

C.: Che particolarità sonore ci sono in questa canzone, “L’alluvione”?

A.D.: In questa canzone c’è l’organo Hammond di Paolo Mazzardi che dimostra l’esistenza di questi musicisti assolutamente sconosciuti che suonano uno strumento musicale con la grazia e la forza dei più grandi musicisti che ci sono al mondo. E così devo dire che è più o meno per i ragazzi con cui ho lavorato, oprattutto per Saviola e per Archi, la cosa è tristemente vera, perché purtroppo la musica oggi non è considerata una forma d’arte, primo, secondo, non è più possibile pensare di vivere con la musica. Quindi tutte le fregnacce che vengono raccontate in giro sulla necessità di salvare la musica, sul fatto che bisogna crescere, sula qualità, sono tutte storie perché la qualità non è che abbia bisogno di essere per forza di cose accresciuta, cresce da sola, basta stimolare la fantasia e l’ingegno delle persone, le persone alla fine la qualità la tirano fuori se ce l’hanno, se no è meglio che cambino mestiere.

C.: A meno di non essere un Robbie Williams che si intasca non so quanti miliardi all’anno…

A.D.: Senza andare troppo lontano, le letterine di Passaparola che per cantare dei jingolini idioti prendono nove milioni al mese, adesso io dico, probabilmente sono lamentele anche retoriche e lasciano il tempo che trovano, però io la penso così, sono dieci anni che faccio questa cosa per hobby e mi sono accorto che nessuno ha mai regalato nulla. Nessuno. Se uno avesse preteso che gli fosse regalato qualcosa, però in questi dieci anni mi sono accorto che non c’è salvezza in questa direzione che abbiamo preso. La musica è destinata a distinguersi, rimarranno soltanto questi progetti patinati che rimarranno soltanto i due mesi di promozione.

C.: Abbiamo un esempio sotto gli occhi perché Sanremo è appena passato.

A.D.: Non ho visto niente, sono sei o sette anni che non seguo più niente di Sanremo. L’ultima volta che l’ho seguito mi sembra che avessero vinto forse gli Avion Travel, quanto tempo fa?

C.: Credo che siano tre anni.

A.D.: Appena? Mi sembra un secolo.

C.: Cosa mi dici degli ultimi dischi di Tom Waits?

A.D.: Sono due dischi meravigliosi, però costavano 50.000 lire l’uno. Noi non viviamo a New York dove facciamo i consulenti a una Streamcast (NDR Spero di avere scritto giusto), bisognerebbe anche avere rispetto anche dal punto di vista economico della gente, poi parlo io che il mio disco lo vendo a 15 euro, uno potrebbe dirmi, ascolta Ducoli… Vi esorto a non comprare il disco del Ducoli perché 15 euro sono un furto.

C.: Non è un furto se si considera che i dischi di Sanremo costano 22 euro, quindi… Vogliamo vedere dove è il furto?

A.D.: Il furto dei dischi di Sanremo non è solo nella musica, ma anche solo dalle copertine. Le facce delle copertine di Sanremo già sono un insulto. E’ fastidioso andare nei negozi di dischi e vedere lì facce che…

C.: C’era una canzone su “Malaspina” che era un autentico delirio, tra l’altro richiamava un po’ Tom Waits, con il carillon…

A.D.: “Ubriachezza molesta”, non vi dico cosa ha detto mia sorella quando ha ascoltato quella canzone lì.

C.: E invece in questo album c’è un pezzo che si chiama “Delirio ordinario”.

A.D.: E’ una canzone che parla di uno che gli sono andate male tutte, cioè voi immaginatevi uno che gli è morto il cane, ha cambiato l’acqua ai pesci rossi e gli ha messo il cloro, uscendo di casa ha rigato la macchina sulla fancata, ha trovato dei boxer che non sono suoi nella cmera da letto di sua moglie, cioè una roba simile. Si accorge di essere un finito, un fallito, però è una persona che pensa di avere ancora qualcosa da dire e allora manda letteralmente tutti al diavolo e se ne va a vivere in una città, una metropoli che comunque offre la possibilità di nascondersi dalla propria personalità perché ci si tuffa in quella degli altri e mentre passeggia sotto la pioggia accorgersi che gli cade la pioggia sulla testa, per cui l’unica cosa che può fare è rendersi conto che non ha più nemmeno il cappello, che io lo ritengo l’ultimo stadio dell’uomo. Quando ha perso il cappello l’uomo ha finito. Dopo la speranza, cioè, è un pezzo molto allegrio, molto divertente, però il messaggio di speranza qualcuno dovrebbe andare a cercarselo, comunque non è una canzone da sconfitti. E’ una canzone da persone che analizzano la oro situazione e che si arrabbiano perché la sfortuna gli si accanisce contro.

C.: Certe volte vedo anche io dei personaggi che si possono accostare a questo tipo di vita e tra l’altro non sono neanche pochi, forse sono anche la maggioranza. In confronto a tanti fortunati che magari manco se lo meritano…

A.D.: Ma io non dico sconfitta nel senso letterale del termine, sconfitta dico cronica sfortuna, cioè una persona anche se ha qualcosa da dire, viene continuamente messo in condizione di dovere rianalizzare il tutto perché è successo un episodio che lo riporta indietro e questo può anche dare fastidio certe volte. Dopo abbiamo deciso di fare per forza un pezzo allegro, perché non è allegro, è un tango questo. Sfortuna comunque da analizzare con allegria, non da fare i musoni, tra l’altro, insomma, io sono anche interista, per cui la gente deve sapere che i nerazzurri sono temprati al dolore e alla sconfitta, vivono con allegria, se tu guardi i tifosi, allora, gli juventini hanno Alessia Merz, i milanisti hanno Emilio Fede, noi abbiamo Bertolino, Paolo Rossi, cioè tutti questi personaggi…

C.: Noi abbiamo Jannacci e Abatantuono, eh?

A.D:: Beh, Abatantuono… Jannacci probabilmente era affezionato al Milan dei cacciaviti, quello degli anni ’60, non penso che siate così messi bene neanche voi. Avete anche Piersilvio, però. Sapevi che la figlia di Berlusconi adesso è direttore della collana Mondadori?

C.: Devo notare che hai fatto un notevole miglioramento anche sul piano vocale. Forse c’è qualcuno che ti ha insegnato, impostato…

A.D.: Truffaldino, truffaldino il Cesare, ha saputo che vado a lezione di canto… Sì, il Boris mi sta insegnaìndo ad emettere dei suoini che possano risultare gradevoli per qualcuno. Lui dice che prima emettevo dei suoni che erano sgradevoli per chiunque, me compreso, sono assiduamente istruito da lui che si è dimostrato essere fra l’altro un maestro di rara professionalità per quanto riguarda il canto, io lo conoscevo abbastanza bene, ma non sapevo che lui avesse frequentato questi seminari di jazz con Matt Murphy e mi sono divertito, non pensavo di divertirmi, poi il risuttato è stato abbastanza infimo, si nota qualche miglioramento però almeno la dignità di provare a dare un senso nuovo a quello che stavo facendo. E’ stata una esperienza molto interessante, che tra l’altro sto proseguendo perché mi ha aiutato molto a capire alcuni aspetti del canto che io sinceramente non ho mai neanche preso in considerazione. Soprattutto mi ha fatto notare una cosa. Tutti sostengono che Tom aits canta male, con la voce roca, sono tutte storie, perché analizando dal punto di vista tecnico quello che fa Tom Waits nei cantati viene fuori che c’è una professionalità e uno studio di base notevolissima, testimoniato peraltro da un cambio radicale di atteggiamento alla voce tra “The heart of saturday night” e “Small change”, è passato un anno fra la registrazione di quei due dischi e sono due voci completamente diverse, quindi o si è fumato davvero tutti i TIR della casa di produzione della “Lucky Strike” che attraversano l’America in un anno solo oppure c’è stato uno studio per valorizzare un aspetto che poteva essere particolare della sua voce, quindi io queste cose qui prima non le avevo mai prese in considerazione, adesso le ho imparate grazie agli insegnamenti del Boris, per cui se qualcuno avesse intenzione di approfondire gli aspetti del canto, ritengo sia una esperienza interessante una lezione dal Boris, fra l’altro economica.

C.: Cosa mi dici di “Lenta”?

A.D.: E’ una canzone molto intima, è una canzone dove il pianoforte è l’elemento portante del pezzo, insomma, è una canzone lenta di titolo e di fatto.

C.: Siamo in un periodo oscuro, buio, per niente felice. C’è da dire che la guerra è sempre sbagliata, ma soprattutto in questo periodo è la cosa più assurda che si possa fare e che non porterà assolutamente a nulla, lo dico io, mi prendo le responsabilità di quello che dico, non so se sei d’accordo.

A.D.: Sì, non mi esprimo, perché comunque si stanno già esprimendo talmente tante persone oggi che mi sembra di non aggiungere nulla a quello che di importante bisogna comunque dire, insomma. Io lo vedo soltanto come uno stupido tentativo di rimettere ordine in una direzione che personalmente io non condivido. Perché dobiamo impostare l’economia del mondo sui nostri voleri? Non lo so anche perché se uno non è preparato su questi argomenti rischia di afre la figura del cialtrone e di trattarli con sufficienza. Sono eticamente contro la guerra, ovviamente, le ragioni di questa guerra le conosco, non le condivido per niente, però mi sembra anche che tutta questa mancanza di potere dell’Europa nei confronti dell’America sia un dazio che dobbiamo pagare per colpa di una certa sudditanza che ci siamo trascinati negli anni precedenti perché non vedo perché l’Europa debba dipendere in maniera così sconsiderata dall’economia americana, dal momento che possiamo cavarcela benissimo da soli. Il fatto che l’America ne faccia poi un ricatto morale, dà fastidio che i più imbecilli d’Europa siano proprio gli italiani e gli inglesi, che in maniera smisurata vanno a dare ragione alle questioni americane. La Francia che sostiene una sua grandeur, di potere vivere benissimo anche senza l’America, cosa peraltro falsa, perché comunque ce l’hanno già dimostrato con la guerra dell’alluminio, sta puntando i piedi. Io penso che se cuccederà la guerra (NDR L’intervista è stata fatta il 13 marzo 2003) il fatto sarà grave, perché comunque la credibilità di tutti i tavoli di pace del mondo va a farsi benedire. Si può tornare benissimo all’epoca della barbarie, che tra l’altro io, sinceramente, vedendo il punto in cui siamo finiti, preferisco. Preferisco provare le barbarie. E’ che se si torna alle barbarie si salverà ancora chi ha i soldi.

C.: Non servirà a nulla, anche perché nel frattempo si stanno già esprimendo altri, come abbiamo già detto, comunque sappiate che io, Cesare Casalini, e Alessandro Ducoli diciamo no alla guerra. Non serve a niente, però lo diciamo lo stesso. A proposito di questi giorni…

A.D.: Ufficialmente è la canzone che chiude il disco. Ufficialmente perché alla fine è stata messa ancora la canzone di apertura in un arangiamento diverso e con un testo leggermente diverso. Questa canzone, “A proposito di questi giorni” è una canzone molto semplice, una canzone gioiosa che può essere letta, diciamo, come un classico episodio di cantautorato ducoliano, ammesso che io possa fregiarmi di avere uno stile, che uno può dire “copia già se stesso” oppure può dire “caratterizza il suo suono”, però è un pezzo a cui io tengo molto, mi sembrava doveroso metterlo alla fine di questo disco con un messaggio molto semplice che sta nel desiderio di amore. Può sembrare banale dalla voce di un orso come il Ducoli, ma è così, amore che poi può essere per una squardra di calcio, per un animale, per una donna, insomma amore in senso universale del termine. Nel senso marleyano del termine. All’ultimo Sanremo vi sono state canzoni che hanno dimostrato quanto povera sia la situazione della musica italiana, a maggior ragione la gente deve comprare i dischi del Ducoli, soprattutto in Valle Camonica dove veramente nessuno mi ha mai dato una mano, perché prima di uscire neanche le birre ti pagano i camuni. Ci sono in giro i Brabarossa che vanno in giro da vent’anni a fare ciofeghe, date una mano al Ducoli che ha fatto un disco straordinario… Mi sono fatto un po’ di pubblicità?

 

 

Cesare Casalini, www.vocecamuna.it

CESARE: Sono con Sandro Ducoli alla voce e alla chitarra acustica, Nicola Bonetti e Mario Stivala alle chitarre elettriche, Sandrino Bontempi al basso e Sergio Viola alla batteria, che però questa sera non può essere con noi.

Allora, Sandro, da dove viene questo strano nome, Bacco Il Matto?:

SANDRO: A parte il fatto che proviamo in una cantina, abbiamo pensato al doppio senso che sta nella parola “Bacco”, che in Valle Camonica è un verbo che sta per “faccio”, quindi siamo andati dietro a quello. L’abbiamo pensato all’ultimo momento, serviva un nome per “Rock Targato Italia” e l’abbiamo messo lì.

NICOLA: Avevamo in mano una bottiglia di Barbera, era Bacco!

CESARE: Nicola, ma mi sembra che il gruppo sia nato nel giro di poco tempo.

NICOLA: Diciamo in un mese e mezzo.

CESARE: Ma come è nato tutto, una sera…

NICOLA: Una sera in una birreria di Edolo da poco aperta, dove c’era Sandro Ducoli che era stato ammesso a “Rock Targato Italia”, e non voleva andare a suonarci acustico proprio perché l’anno scorso non era stato proprio apprezzato, di conseguenza mi ha lanciato la proposta di fare una cosa abbastanza improvvisata, per fare quattro pezzi al Public House alla Sacca di Esine, e da lì è nata poi l’iniziativa di fare questo gruppo con Mario Stivala e Sandro Bontempi che conosceva Sandro Ducoli. Nel giro di poco tempo abbiamo messo insieme quattro canzoni, siamo andati giù e adesso stiamo continuando.

CESARE: Mi sembra che Sandrino Bontempi sia un veterano del rock locale. In che formazioni hai suonato?

SANDRINO: Non me le ricordo tutte, comunque, Pà e Ansia, penso… ma veterano sta per vecchio?

CESARE:Va beh, di lunga data, dai.

SANDRINO: No, comunque ho suonato un po’ dappertutto, adesso sono qui, sono contento comunque.

CESARE: Mario Stivala, invece, hai suonato da qualche parte prima di Bacco Il Matto?

MARIO: Ho suonato in un gruppo di Edolo, gli Sleepers, poi adesso in un gruppo che si chiama Random Coil, e poi suono con Sandro per queste occasioni di Rock Targato Italia.

CESARE: Sandro, le tue influenze musicali quali sono, mi parlavi di un gruppo che fra l’altro è uscito recentemente con un CD che si chiama “Crash”, la Dave Mattews Band, giusto?

SANDRO: E’ uno dei dischi più belli che ho comprato nell’ultimo mese, sinceramente non ho nessun tipo di preferenza anche perché ascolto una valanga di dischi dal funky al blues al jazz al rock al pop. Non mi faccio una fissa, si, ho quelle tre o quattro fisse che sono sem: pre quelle, però ultimamente mi è piaciuto moltissimo questo disco perché mi piace molto come ritmo e questo modo di intendere gli strumenti più diversi, è un amalgama che mi piace molto.

CESARE: Nicola, quali sono le vostre aspirazioni principali?

NICOLA: E’ una domanda grande, vedo Ducoli che sta scenerando dentro la sua chitarra acustica. Tu mi domandi di aspirazioni, l’aspirazione è quella di uscire dall’ambito della Valle Camonica, è quello di riuscire a far capire alla gente che anche qui esiste un cuore musicale e mettere in evidenza questo, insomma.

CESARE: Già il fatto di avere partecipato alle selezioni di Rock Targato Italia è stato un buon colpo, direi, no?

NICOLA: Sì, è stato un buon colpo, anche se sinceramente non apprezzo personalmente tutto il sistema, non Rock Targato Italia, ma il sistema musicale italiano, proprio per il fatto che, secondo me, è puntato verso il commercio e non tanto verso la musica, è più mercato che musica.

CESARE: Il braccio e la mente, il braccio siete tutti voi, ma la mente chi è? Chi scrive le canzoni?

SANDRO: La mentecatta sarei io. No, sono tutti pezzi che io ho scritto, alcuni molto giovani, con una settimana di vita.

CESARE: Sandrino, come mai questa passione per i Deep Purple?

SANDRINO: Perché ho macinato talmente tanti dischi dei Deep Purple quando ero giovano, o quando ero meno vetusto, diciamo, che mi sono rimasti nel sangue, e adesso non riesco ad ascoltare altro.

CESARE: Mi sembra che tra la nascita del gruppo e il primo concerto sia passato pochissimo tempo, se non mi sbaglio.

SANDRO: Una settimana. Sì, avevo questa urgenza, insomma, l’anno scorso non ero stato molto soddisfatto.

CESARE: Dal fatto di avere suonato da solo.

SANDRO: Sì, dal fatto di avere suonato da solo. Sostanzialmente abbiamo riproposto due pezzi che avevo suonato quella sera, però da solo, si, va beh, sono questioni che riguardano esclusivamente le capacità tecniche.

CESARE: Sì, poi chi vede un concerto sa benissimo quale è la differenza tra uno da solo che suona con le basi e un gruppo di ragazzi che suonano insieme.

SANDRO: Sì, sapevo che mi serviva un suono, a parte che io e Bonetti abbiamo in testa un suono già da un bel po’, perché abbiamo più o meno gli stessi gusti musicali, ascoltiamo gli stessi dischi e così io gli ho detto che avevo queste canzoni, volevo un po’ arrangiarle, ci siamo trovati praticamente quasi da soli.

CESARE: Nicola, questa passione per Calvin Russell…

NICOLA: Mah non è solo Calvin Russell, è tutto il rock al margine la passione mia, cioè, dal punto di vista musicale mi piacciono quelli che magari sono meno considerati sul mercato e sono musicalmente dei grandi lo stesso, Calvin Russell l’ho preso come esempio, ha fatto un passato da ex-galeotto, da tassista ed è un grande musicista nonostante tutto, io con il mio ex-gruppo, i Blesk, ne proponevo un brano, “One meat ball”, un brano che secondo me ha un grande suono.

CESARE:Ho scoperto che io e Sandro Ducoli abbiamo una passioncella in comune, Tom Waits.

SANDRO: Sì, va beh, passioncella, io sono innamorato di questo personaggio, mi piace moltissimo il modo che ha di raccontare le storie che gli succedono, ho ascoltato tantissimo i suoi dischi, è una delle mie fisse, poi c’è questo disco che è la colonna sonora di una rappresentazione teatrale, “Frank’s wild years”, con alcune canzoni stupende fra cui “Cold cold ground”.

CESARE: Anche musica italiana, però, nelle passioni di Bacco Il Matto, qualcuno mi ha parlato di Angelo Branduardi.

MARIO: Sì, sono io.

CESARE: Motivazione di questa passione, nata in vecchi tempi, credo?

MARIO: Sì, nel senso che quando ho iniziato a suonare mi sono accostato principalmente alla chitarra acustica e alle canzoni da cantautore, e quindi mi è nata questa passione per Angelo Branduardi, che ho visto anche in concerto qui a Breno, soprattutto per quanto riguarda il matrimonio tra la poesia e la musicalità dell’artista. Mi piace questo aspetto che reputo fondamentale. Mi piace molto la canzone “Fou de love”, per la sperimentazione sull’uso delle lingue, mi pare che si utilizzino molte lingue moderne e anche quelle “morte”, compreso il fiorentino, il napoletano e altre lingue, mi pace molto questa contaminazione e questa sperimentazione linguistica.

CESARE: Il batterista si chiama Sergio Viola, però stasera è imossibilitato a essere qui causa malattia, sto dicendo bene?

BACCO IL MATTO: CIAO SERGIO, COME STAI??? SAKA WAKA SAKA WAKA!!!!

CESARE: Anche perché sarebbe un po’ difficile essere qui con 39 di febbre, vero?

SANDRO: Infatti adesso facciamo il suo pezzo preferito che è un sambù di due ore, per la gioia di chi ascolta…

CESARE: Va beh, due ore forse non riusciamo a contenerle, però…

SANDRO: Non erano questi i patti!

CESARE: Voi che siete dell’ambiente, conoscete personalmente Charlie and the Cats?

SANDRO: Charlie lo conosco perché è iscritto ad una associazione a cui sono iscritto anch’io, che ha un inno che Charlie ha cantato all’ultimo concerto che ha fatto a Sabbio Chiese, ed è l’inno dell’associazione, quindi…

Di Charlie io conosco il fatto che lui ha rifiutato qualsiasi tipo di promozione per autoprodursi e questo mi basta e mi avanza.

CESARE: Da quanto ne so ha rifiutato questo anche perché loro vogliono ritenersi assolutamente liberi nelle loro scelte, soprattutto per i testi, cosa che invece con una major o con la produzione di qualcun altro non sarebbero stati così liberi.

SANDRO: Secondo me i boss delle major sono dei bravi ragazzi che hanno le loro questioni, ma chi suona ha le proprie, quindi condivido le questioni di Charlie e non condivido assolutamente le questioni dei produttori delle major.

CESARE: Grazie a tutti e ciao.

BACCO IL MATTO: Grazie a te, ciao.

 

 

Bacco il Matto – La pecora nera

 

Bacco il Matto ha posto le condizioni: l’intervista si farà nel posto X all’ora X. Le Pecore Nere si sono recate all’appuntamento. Io ero un po’ scettico; l’unico concerto del Bacco che avevo visto non mi era piaciuto (troppo distante dai miei gusti musicali) e la lettera arrivata al nostro giornale da parte di un membro del gruppo mi trovava in disaccordo con lui su alcune questioni. Ma il Bacco ci ha fregato, attirandoci nella sua tana e stordendoci con dell’ottimo whisky. Ecco il resoconto (incompleto per ragioni di spazio e di lucidità mentale) della chiacchierata con Bonetti (chitarra) e Ducoli (voce + chitarra).

 

PAOLO: Ho notato che la vostra forma canzone è legata comunque ad una sorta di clichè: strofa-ritornello-assolo. E’ possibile un’evoluzione di questa struttura della vostra musica?

ALESSANDRO DUCOLI: Per adesso quello che voglio fare è proprio di scrivere strofa-strofina-ritornello. Magari un giorno mi stancherò di farlo a allora farò qualcos’altro… Io considero la canzone con molto rispetto. E’ uno strumento per raccontare qualcosa, per comunicare. E poi io conosco soltanto cinque accordi e da lì non posso togliermi.

 

RICKY: Mi sembra che il vostro punto di riferimento musicale sia il rock texano.

A.D.: Non è assolutamente vero. Siccome in questo momento la chitarra di Bonetti è il fattore trainante e lui ha in testa questo tipo di sonorità, il risultato è quello da te indicato. Io ho ascoltato moltissimo i cantautori anni ’70 tipo Buscaglione e Ciampi e dunque provengo da quest’area. Chiaramente siamo riusciti a trovare una miscela giusta che adesso come adesso ci soddisfa: chitarra texana + messaggio europeo. Quello che ci interessa è adattare il modo di scrivere “americano” al nostro contesto.

 

R.: Qual è l’importanza che date alla tecnica nella vostra musica?

NICOLA BONETTI: La tecnica ha importanza zero o è importante un milione. Non necessariamente serve la tecnica per esprimersi ma è un dato di fatto che la tecnica serve ad esprimersi meglio. Io uso la tecnica per esprimermi meglio; cerco una tecnica mirata, finalizzata ad ampliare certe sensazioni. L’ideale è riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la tecnica ed il sentimentalismo con il quale ciascuno esprime la propria musica.

 

P.: Avete degli obiettivi particolari come gruppo?

A.D.: Per quanto mi riguarda mi piacerebbe fare dei dischi e un concerto ogni week-end. Più in là è difficile arrivare in Italia, oggi come oggi.

N.B.: Precisando meglio gli obiettivi, devo dire che l’obiettivo della band è quello di vivere con la musica.

 

P.: L’obiettivo principale di quello che state facendo è mero autocompiacimento, vale a dire, pura soddisfazione personale senza badare troppo a chi vi ascolta oppure volontà di dare al pubblico un messaggio?

N.B.: Trasmettere sensazioni o fare musica per autocompiacimento è la stessa cosa. Nel momento in cui riusciamo a trasmettere sensazioni, quello è autocompiacimento per noi. E’ quello che vogliamo fare.

 

R.: Riuscite a rendervi conto del seguito che può avere la vostra musica?

A.D.: La gente si ferma dopo il concerto e penso non perché siamo belli (e poi siamo anche sudaticci). Non è attrazione fisica perché noi siamo belli dentro. (risate n.d.r.). Questo è il nostro maggio riscontro.

 

R.: Cos’è per te la musica con la M maiuscola?

N.B.: Quella dettata dal sentimento, solo quella. Mi trovo a volte ad ascoltare gruppi che basano l’intero concerto su pezzi scritti da altri. Sicuramente gli autori che li hanno scritti li fanno meglio. Queste band spendono energie finalizzate alla non comunicazione. Potrebbe essere un riconoscimento rispetto a questo o quell’artista ma secondo me un concerto intero di cover è impresentabile. Vedo band che organizzano un concerto di cover per avere un introito aggiuntivo allo stipendio mensile. Questa non è musica. Non c’è nessuna volontà di comunicare. Io paragono la musica ad un linguaggio, come può essere l’inglese, il cinese o il tedesco. Bisogna però avere gli strumenti per comprenderla a fondo.

 

R.: Non sono d’accordo su questo parallelismo tra linguaggio e musica. Nella maggio parte dei casi la musica è sensazione, emozione, mentre il linguaggio è sempre qualcosa di piuttosto definito e razionale.

N.B.: Effettivamente la musica non ha la stessa funzionalità di una lingua ma comunque la musica ha determinate regole che devono essere conosciute. Chi non le conosce non può capire a fondo la musica.

A.D.: Il problema della comunicazione è dovuto al fatto che oggi si ascolta poca musica italiana. Ascoltando musica inglese si perde il 50% del significato della musica, quello cioè legato al testo. Il limite più grosso per la comprensione completa di una canzone è ascoltare la musica senza fare attenzione alle parole.

 

R.: E’ vero però che c’è musica che si indirizza più verso il versante dell’intrattenimento o in cui il significato delle parole non è poi così importante rispetto a canzoni che pongono tutta la propria attenzione sul testo e sul suo significato.

A.D.: Ti faccio un esempio, dopo la valanga Litfiba, qualsiasi gruppo aveva iniziato a scrivere i testi “alla Pelù”. Soltanto che Pelù li aveva scritti in momenti particolari e quindi avevano una valenza, mentre tutti gli altri cercavano di imitarlo facendo solo figure orrende, e nella musica tutto è lecito tranne fare figure orrende. Oggi si prende la musica o come gotha o come schifo. E così si rischia di travisare il significato di una canzone. Poi vorrei aggiungere una cosa: se fai musica triste sei destinato a finire. La felicità è una componente troppo importante della vita. La tristezza ora non la vuole nessuno.

 

P.: Qual è il punto di rottura tra la ricerca della trasgressione e la semplice volontà di riuscire ad andare fuori dalle righe?

N.B.: Il vero trasgressivo lo riconosci dal suono e dalla faccia che uno fa mentre suona. Guardami in faccia e giudica tu stesso se sono artificioso… e poi non mi sento trasgressivo perché faccio esattamente quello che mi sento naturale, ma mi rendo conto che faccio e penso cose che non sono nella norma. Se qualcuno vuole catalogare il tutto come trasgressivo a me va bene, ma io non mi sento così. L’unico rammarico che ho è che non riesco a padroneggiare la mia 335 come vorrei. E forse la trasgressione è soltanto un’etichetta.

 

R.: Ritornando alle regole della musica, tu dici che è necessario padroneggiarle. Ci spieghi meglio cosa vuoi dire?

N.B.: La musica per eccellenza non ha regole. Le regole sono confacenti al tipo di musica che fai, all’ambiente in cui è stata creata ed al contesto sociale. Se uno è in un locale blues, non può suonare musica pop elettronica. La regola non è specifica ad una situazione sistematica di tecnica; non intendo per regola l’abbinamento di accordi che gira giusto. La regola musicale è avere delle leggi che governano il proprio sound nel proporre la musica nel contesto in cui la suoni. Non posso proporre musica “finta” dove ho richiesta di musica “vera”. E poi ci sono delle regole fisse: ho sentito band, purtroppo anche edolesi, non in grado di abbinare un basso ad una batteria, incapaci di fornire un’accordatura decente. Con queste cose devono fare i conti tutti coloro che suonano, anche Kurt Cobain che regole musicali non ne ha mai avute. Sono regole banali che ti danno la possibilità di scrivere una canzone ascoltabile. La mia lettera parlava di musica affine alla persona che la suona e mai di tecnica musicale. Anche se la tecnica ti permette di comunicare 1000 e non 5. Inoltre il messaggio deve essere biunivoco: quello che suona deve sapere comunicare, ma quello che scolta deve sapere apprendere quello che sente. La capacità tecnica è sempre rapportata alla capacità dell’ascoltatore. Io sto suonando anche perché sento che qualcuno recepisce quello che ho intenzione di trasmettere. Assolutamente questo non può essere un messaggio per tutti ma è anche vero che chi ha mostrato di gradire è da noi molto stimato dal punto di vista musicale, e questo ci gratifica molto. In Italia vedo quasi esclusivamente un riscontro di musica commerciale e devo fare i conti con questa prospettiva purtroppo. All’estero è possibile che chi fa musica non commerciale riesca ad ottenere ottimi risultati di vendita. In Italia questa possibilità non c’è.

 

P.: L’ultima domanda è sul significato di Bacco Il Matto Band…

N.B.: C’è una lite fra me e Ducoli sulla paternità del nome. La band si è formata in poco più di quattro giorni in occasione d “Rock Targato Italia”. Il problema era che ci serviva un nome per il gruppo. Le intuizioni erano due: La devozione per il Dio Bacco perché ci coinvolgeva sensualmente e sessualmente nell’ambito della vita. E poi si è passati a Bacco Il Matto per una sorta di sinonimia con la terminologia dialettale. All’epoca l’idea era questa anche se adesso le cose sono cambiate.

A.D.: L’origine del nome è legata esclusivamente a motivi commerciali: l’iscrizione alla S.I.A.E. permette l’utilizzo di uno pseudonimo ed io avevo scelto proprio quello di Bacco Il Matto. Ora siamo diventati schiavi dei nostri personaggi. Adesso noi non siamo più Bonetti e Ducoli. Siamo obbligati ad essere ubriachi e se magari un giorno vogliamo mettere le pantofole dobbiamo farlo di nascosto. E poi questo nome ha una musicalità straordinaria. E’ un nome che va bene per un contesto globale, una scelta di vita. Abbiamo deciso di rinunciare alla morosa. Non puoi essere Bacco Il Matto e regalarle pelouches a San Valentino. E’ un contesto che ci sta fregando. Il nome rispecchia quello che noi pensiamo della vita.

N.B. & A.D.: Avete altre domande?

R. & P.: No, non ce la facciamo più!!!

 

Paolo Topa & Richi Moresci

 

 

 

BACCO IL MATTO

 

Cercatori d'oro (Bacco il Matto) - Emiliano Coraretti (Musica! n°239; Maggio 2000)

 

Una storia, quella di Bacco il Matto alla ricerca del suo oro, scritta per esplorare le diverse zone dell'esperienza umana.

Una musica, il rock imparato sugli spartiti di Calvin Russell e John Mellencamp, suonata per spiegare che l'esperienza umana non si cambia, sia che si attraversi le immense praterie americane, sia che si percorra i sentieri della provincia italiana.

 

Con il loro secondo lavoro i quattro musicisti camuni cantano personaggi inventati, regalandoci una vita da raccontare (Vito Malavita, Il tuo gentiluomo), e vanno a caccia di personaggi veri (Piero Ciampi in Ho trovato l'oro), cercando di investigarne l'anima. E se a volte la musica non decolla oltre i cliché efficaci più su un palco che dentro un lettore, nei suoi episodi migliori (su tutti Mani nude) Bacco il Matto dispensa emozioni degne di un whisky ben stagionato. L'importante è ritorvarsi dalla parte di chi prova a stare in piedi con nelle tasche una manciata di sogni da realizzare.

 

 

Cercatori d'oro (Bacco il Matto) -  Marco Grompi (L'Ultimo Buscadero n°281; Marzo 2000)

 

Attivi quasi da un lustro sui palchi non solo lombardi, Bacco il Matto è un quartetto proveniente dalla Val Camonica innamorato del Rock più verace e sanguigno (immaginate se il coguaro Mellencamp fosse nato tra le valli bresciane) e portatore sano di un soud chitarristico dirompente e sincero. Con "Cercatori d'oro" sono giunti alla loro seconda prova discografica orgogliosamente autoprodotta, ad un anno da quel San Marco che è andato rapidamente a ruba tra coloro che hanno avuto la fortuna di assistere a uno dei loro torridi show.

 

Un album che denota una grande maturità sia per il livello di tutte le canzoni (otto brani originali più uno avuto in regalo da un tale Chip Taylor), sia per la storia che si dipana al suo interno: in definitiva è una sorta di "concept" sulla ricerca di quell"oro" che rappresenta la chimera di tutti i sognatori del Rock'n'Roll.

 

Bacco il Matto ha le proprie fondamenta nella voce alcolica e guascona di Alessandro Ducoli (artefice di una cospicua produzione discografica anche come solista) e nelle chitarre nervose di Nicola Bonetti, vero e proprio rocker purosangue con un'innata inclinazione al riff micidiale: se Devi stare dalla parte giusta è una specie di prologo che invita a schierarsi, la vera natura della band viene fuori prepotentemente già dalle successive Gesù mi ha chiesto di restare e Vito Malavita, possenti cavalcate rock dall'andamento epico e maestoso eppure dal sound sporco e straccione come da molto tempo non si sentiva. È chiarissimo che qui non si cerca la soluzione ad effetto o la posa che faccia "tendenza" perché siamo nella patria del rock più polveroso, inumidito semmai solo dal whisky o dalle brumose notti comuni. E, musica dal passo spedito, scandita dal battere degli stivali di cuoio e pervasa dal "palpabile" senso di verità. Sì, perché Bacco il Matto non ha strategie discografiche alle spalle, non è trendy, è una band per nulla "alla moda" che va dritta per la sua strada vivendo la propria estetica rock con un'onestà scevra da compromessi; alla fine rimangono quindi solo canzoni che si fanno apprezzare per la loro semplicità, per l'immediatezza e l'innegabile marchio stilistico che si portano appresso dichiarando un amore incondizionato per tutto ciò che sta tra Springsteen e Calvin Russell, tra Joe Ely e Steve Earle. Succede quindi che nel mucchio (tutte andrebbero menzionate) spuntano anche un paio di ballate dall'innegabile "appeal radiofonico" (Linea di confine e Mani nude) anche se a colpire maggiormente sono un ruvido omaggio a Piero Ciampi amaro come il sapore che resta in bocca dopo una sbornia dettata dalla rabbia ("Piero devi dirmi che è vero che hai trovato l'oro") o il rotolare impetuoso di Vita galera. Con la rarefatta Raffaella (unico brano in inglese) scorrono i titoli di coda, è notte fonda (i bicchieri sono ovviamente vuoti) e la malinconia riaffiora dalla note e dalle parole scritte appositamente per loro niente meno da quel Chip Taylor che in altri tempi e altri spazi regalò alla Storia del Rock Wild thing (Troggs, Jimi Hendrix) e Try - just a little big harder (Janis Joplin).

 

Bacco il Matto è una band che non rivoluzionerà la scena rock italiana, ma avrebbe dalla sua tutte le carte in regola (non ultime credibilità e integrità) per far piazza pulita di tutti gli "zombie" attualmente in circolazione (tanto per non far nomi, Litfiba, Negrita e affini). Teneteli d'occhio.

 

 

Cercatori d'oro (Bacco il Matto) - Mauro Eufrosini (Jam, n°58; Marzo 2000)

 

Cominciamo dalla fine, da quella traccia numero 9 che chiude il secondo disco di Bacco il Matto. Il titolo di quella traccia è Raffaella ed è l'unica che non appartiene al Bacco, ma ad un autore, Chip Taylor, che davvero non ti aspetti di ritrovare dentro un dischetto autoprodotto, nato e cresciuto nelle "whiskerie" della Val Camonica. Chip Taylor tanto per essere chiari, è uno che ha scritto una manciata di hits mozzafiato, canzoni come Angel of the morning (Merille Rush), Wild thing (Troggs, Jimi Hendrix) e Try - just a little big harder (Janis Joplin), e che in questi ultimi anni è riapparso sulla scena musicale attiva, con alcuni album di purissimo cantautorato (The London sessions bootleg è la sua ultima, pregevole fatica). Onore al merito allora al Bacco, che ha saputo accattivarsi le simpatie di un vecchio songster e onore a Taylor, capace ancora di emozionarsi per una giovane band affamata di palchi e riflettori.

Raffaella è una rarefatta ballad sospesa e notturna, perfetta chiusura di un album che alterna furore e tenerezza con ugual candore e sincerità. Ha fatto parecchia strada il Bacco, soprattutto se misurata dalla precedente prova, quel “San Marco” che solo lo scorso anno aveva davvero ben impressionato per la selvaggia e improrogabile necessità di Rock'n'Roll a chitarre spiegate. La necessità c'è ancora, ma oggi il Bacco pare artisticamente più adulto, capace di tradurre l'impazienza attraverso uno svolgimento strumentale più curato e corale. Tante chitarre, un Hammond, tastiere e diavolerie campionate varie, condividono strategie sonore che scivolano con elegante naturalezza fra rock, canzone d'autore e pop.

 

La voce di Alessandro Ducoli, sempre sporca di tabacco e whisky pregiato, è misurata e insinuante, le chitarre di Nicola Bonetti imprevedibili e ben calibrate, la sezione ritmica, che saluta l'esordio di un nuovo bassista, Dario Filippi, accanto ai tamburi di Mauro Ferretti, tosta e flessibile. Nelle otto tracce di totale paternità del Bacco troviamo alcuni episodi che caratterizzano le loro performance dal vivo, brani di potente italico rock come Gesù mi ha chiesto di restare, Vito Malavita, Ho trovato l'oro, ma anche una piccola, perfetta, canzone di malizioso melodico pop d'autore, Mani nude, dall'appeal radiofonico irresistibile. Una prova di maturità per una band che si ritaglia una precisa identità nel panorama rock italiano.

 

 

San Marco (Bacco il Matto) - Gualtiero Spotti (Il Giornale di Bergamo; 27/08/1999)

 

Bacco il Matto è un quartetto bresciano che ben conosceranno anche gli appassionati frequentatori bergamaschi di locali con musica dal vivo.Ormai da un paio d’anni a questa parte cioè da quando i Bacco il Matto sono in circolazione, il gruppo si propone infatti come uno dei migliori esponenti di quel rock d’autore dalle molte influenze oltreoceano, che anima la scena bresciana e bergamasca.

 

Il repertorio gioca soprattutto la carta delle ballate (si coglie l’attitudine a frequentare un genere caro ad artisti quali Massimo Bubola e Gang, con i quali bacco il Matto hanno condiviso il palco), ma non dimentica di concedere il giusto spazio a pulsazioni ritmiche di tutto rispetto con l’apporto del batterista Mauro Ferretti e il bassista Luca Pedrazzi. A completare il quartetto ci pensano Alessandro Ducoli (cantante e armonicista, nonché autore dei testi e di parte delle musiche) e Nicola Bonetti, chitarrista elettrico che conferisce compattezza e corpo alle composizioni, che sono in buona parte realizzate, per quanto riguarda le musiche, a quattro mani in compagnia di Alessandro Ducoli. Bacco il Matto qualche mese fa ha realizzato il suo CD d’esordio. Si tratta di "San Marco", un lavoro da non sottovalutare che mantiene l’inevitabile caratteristica di opera immediata cara a buona parte delle produzioni provinciali, ma che allo stesso tempo lascia intravedere qualità compositive non comuni ed un approccio musicale estremamente godibile, da rock band sincera quale è.

 

 

San Marco (Bacco il Matto) - Mauro Eufrosini (JAM n° 49; Maggio 1999)

 

Chi si ricorda di Rino Gaetano o Piero Ciampi? Alessandro Ducoli, la parte gentile di Bacco il Matto, pare ricordarsi di entrambi; del primo pare derivare il gusto per certe ballate sbilenche, del secondo l’attitudine, di testarda innocenza, verso l’amore e la vita, sia pure riflessa nei cristalli di un portacenere o di un bicchiere.

 

Bacco il Matto non è però un cantautore con dietro una band, e la metà prepotente della band, Nicola Bonetti (chitarre), Mauro Ferretti (tamburi) e Dario Filippi (basso), lo fanno sentire in tutti i modi.Se ancora si può dire, Bacco il Matto sono una giovane e affamata band di rock italiano, dove rock sta per chitarre valvolari e taglienti, ritmica serrata e potente, e italiano sta nella scelta di cantare in italiano (evviva) e di provare a mescolare la melodia con il furore.

San Marco è il frutto di due anni di attività live, e anche il grido, rauco e spavaldo, di una band che sogna e mangia rock’n’roll senza mai saziarsene.

 


San Marco (Bacco il Matto) - Paolo Morgandi (Nessun Dorma n° 0; Maggio 1999)

 

Di valle in valle il Bacco apre davanti a se lunghe tavolate imbandite di grassi maiali bagnate dal miglio rosso delle ultime annate.Il Matto ride della sua musica con tutti (e sono tanti) gli amici che lo seguono ovunque, e a chi, per la prima volta, timidamente gli si avvicina. "San Marco", il loro primo disco è sinceramente composto di belle canzoni, belle e coraggiose. Una manciata di pezzi che raccontano di lune ubriache, di amori consumati dentro ai campani e (ovviamente) di matti.

 

Li ascolti e capisci che per il gruppo sono qualcosa di veramente importante, ti danno una pacca sulla spalla e ti chiedono solo di entrare, per restarci almeno un po’, nell’animo. Rock stradaiolo ubriaco. Il rock stradaiolo penso vi sia di facile intuizione, l’ubriaco è da intendersi come la cosa più benefica che porta con se tale stato, la sincerità. Bacco il Matto non vi raggira, arriva dritto dove decidete di mandarlo, e con una sincerità di intenti che, nella musica che oggi ci circonda, è difficilmente riscontrabile.

 

E’ la sincerità del Rock, quello con la "R" maiuscola, appunto. Una serie di ballate costruite su storie folkeggianti e folleggianti, canzoni che in quattro minuti fanno un giro, ballando intorno a voi. Degna di nota è la coraggiosa decisione, presumo di Alessandro Ducoli (voce e armonica, nonchè autore di testi e parte delle musiche), di cantare in italiano. I testi dovranno forse crescere ancora un pò, ma la strada è quella giusta, e rende il tutto un pò più vicino a noi.

 

Nella musica di Bacco il Matto tutto è pesato e le note si incastrano a perfezione tra le intenzioni che sembra portare con sè; le chitarre di quel diavolo di un Nicola Bonetti (peraltro coautore con Ducoli di Molte delle musiche), sono graffianti, che urlino o che sussurrino, lasciano un solco profondo al loro passaggio dando al tutto un "tiro incredibile"; il ponte mancante tra Springsteen e Young.

 

La sezione ritmica, composta da Mauro Ferretti alla batteria e da Dario Filippi al basso, macina battute uniformandosi con qualità ai brani. Questo è quanto, su di un disco che è un buon riflesso di ciò che il gruppo esprime durante i suoi concerti. E’ infatti su di un palco che tutta l’espressività dei quattro assume il massimo della credibilità, una presenza scenica essenziale ma imponente, fatta soprattutto di musica. Regalatevi un loro concerto e capirete che in fondo, non tutto è perduto! Così finì la storia di Bacco, lungo e disteso ma conscio d’un fatto.........sincero e di strada, è vita da Matto.

 

 

San Marco (Bacco il Matto) -  Patachou Clavel (KDR, kids don’t follow n° 6; Aprile 1999)

 

Chi non conosce il Bacco? Credo che ormai se ne contino pochi di questi nelle nostre lande, o almeno fra quelli con un minimo di interesse musicale visto che almeno da due anni questa band (gang?) infiamma le serate camune con concerti ad alto tasso adrenalinico, all’insegna di un rock a cavallo tra fascinazioni american oriented e un certo cantautorato italiano.

 

Comunque, per quei pochi che restano informo che, gli adepti alla divinità etilista sono in quattro, e cioè: Alessandro Ducoli (voce e chitarra), Nicola Bonetti (chitarre), Dario Filippi (Basso), Mauro Ferretti (batteria), e che adesso è possibile ascoltarli anche su CD, anche se , è bene precisarlo, non è proprio la stessa cosa.Questo non perché la registrazione non sia buona, ma proprio perché l’impatto "live" è notevole e in quest’ ambito la presenza scenica di Ducoli è portentosa e distacca notevolmente qualsiasi seppur buona realtà locale.Ma prendiamo il toro per le corna: San Marco è stato autoprodotto nel novembre scorso (il titolo credo sia legato ad un aneddoto boccaccesco ambientato in laguna) e, oltre ai quattro membri vede la partecipazione di amici più o meno illustri fra i quali brilla Roberto Ortolan, fedele chitarrista di Massimo Bubbola, e per quanto ne so gran bel personaggio.

 

Il brano d’apertura è Luna Ubriaca, come del resto generalmente avviene anche nei concerti e che può essere considerato il loro classico "cavallo di battaglia" in cui, vengono dichiarate subito le coordinate musicali all’interno delle quali i nostri si muovono. Per la verità queste non sono inderogabili come dimostrano alcuni dei nove brani seguenti, dove l’andatura a volte sfiora ambiti del reggae (Oggi) che del Jazz (Serena) riuscendo però a mantenere una chiara identità. I pezzi migliori sono a mio avviso: San Marco che apre con un gustoso intro del citato Ortolan e che da il via ad un appassionante duello con Bonetti pronto a ribattere colpo su colpo, per niente intimorito dalla caratura dell’avversario. Il risultato è una poderosa cavalcata rock,il tipico suono "Gibson" rende molto calda la situazione.

 

Babilonia in cui il protagonista è il cantato, o meglio i cantati, visto che a Ducoli si alterna l’amico Marco Grompi e il suo delicato timbro vocale molto sixty. Il primo poi mette mano (bocca) al suo strumento prediletto e cioè l’armonica, traendone come sempre ottimi risultati. Il Matto è un “ballatone” di chiaro stampo americano costruito attorno ad un riff di chitarra accattivante e che si sviluppa con un suono elettroacustico raramente raggiunto alle nostre longitudini, complimenti!

 

Dalle mie scelte si capisce abbastanza chiaramente che li preferisco nella loro versione più rock, più grezza se vogliamo. Ammiro anche il loro coraggio di inoltrarsi in ambiti diversi, come prima accennato, ma continuo a ritenerli essenzialmente una "live band" che deve giocare le sue carte nell’entusiasmo e nel divertimento che le sono connaturati, senza deviazioni onanistiche di sorta. Dopo averli celebrati mi permetto di rilevare una "pagliuzza" e cioè la resa della batteria: non supporta in maniera adeguata il resto, in altre parole non da il "tiro" necessario a certi pezzi.

 

Per l’altra metà della sezione ritmica, Pedrazzi (ex bassista) non posso dirne che bene, infatti oltre alle sue doti strumentali (ascoltarlo in serena per credere) si sposa bene al resto della truppa anche se per il suo aspetto da "finto tranquillo" che bilancia le performance sceniche della coppia Ducoli-Bonetti.

 

Non credo che il CD sia venduto nei canonici punti vendita ma penso sia distribuito direttamente ai concerti, basta presentarsi con ventitre carte da mille, approfittatene!

 

 

San Marco (Bacco il Matto) – Cico Casartelli (Il Mucchio Selvaggio n° 341; Marzo 1999)

 

Bacco il Matto. In altre parole, una band che in tutto e per tutto propone del buon rock, come testimoniano gli affollati concerti tenuti finora nelle loro zone (Brescia e Bergamo) e appunto questo San Marco, primo passo discografico del quartetto.

 

Il cantante e armonicista Alessandro Ducoli a comunque già all’attivo due pubblicazioni in proprio ("Sopra i Muri di questa città", 1995, e "Lolita", 1997), giusto per stabilire che la sua personalità caratterizza non poco la proposta del gruppo, a fronte soprattutto di liriche fortemente narrative.

 

La dilagante presenza testuale (con il dovuto, marcato distinguo, si è per intenti dalle parti del primo Bruce Springsteen) balza appunto subito all’orecchio, anche se poi è l’insieme Bacco il Matto - Nicola Bonetti, chitarre, Dario Filippi, basso, Mauro Ferretti, batteria, - a venir fuori, come dimostrano più brani:

 

Primi fra tutti, Luna ubriaca, San Marco e Se mi porti un fiore (queste ultime due forti dell’apporto di Marco Grompi, tempo addietro metà artistica di Cristina Donà e ora membro dei "Feel Hippie & Grumpy", prossimi al debutto discografico), anche se non da meno sono Nuda e Cruda e l’ottima Oggi, variazione del tema reggae che nel riff ha più di una semplice somiglianza con un vecchio anthem dei Grateful Dead, "Uncle John’s Band".

 

Cercatori d'oro (2000)

Recensione di Salvatore Esposito  www.rockinfreeworld.tk


Bacco il Matto è una delle reincarnazioni di Alessandro Ducoli, rocker, songwriter, poeta e….younghiano DOC della Val Canonica. "Cercatori d'oro" è il secondo disco di questa band, che dopo il fortunato San Marco, si ripropongono con un disco ispirato dal mitico After the Gold Rush, a cui è ispirato anche il titolo. Certo il linguaggio è tipicamente italiano così come gli stilemi musicali, tuttavia l'impronta di Neil si sente e viene fuori da ogni traccia come un fantasma buono che benedice e bacia questo lavoro. Il disco denota una grande padronanza del songwriting così come degli arrangiamenti puliti, solidi e mai scontati. Nei nove brani di cui l'ultima traccia regalatagli dal mitico Chip Taylor, si percorre una sorta di viaggio, stile concept album sulle orme dei cercatori di oro. Le loro storie, le loro passioni che la voce di Alessandro Ducoli, vivifica supportata alla grande dall'apporto delle chitarre di Nicola Bonetti e dall'ottima sezione ritmica composta da Dario Filippi, al basso e dall'ottimo batterista Mauro Ferretti. I brani migliori sono quelli più spiccatamente di impostazione rock-italico come Gesù mi ha chiesto di restare, Vito Malavita, Ho trovato l'oro, a cui bisogna aggiungere la piccola perla pop molto radio-friendly, Mani nude. Un caso a parte è poi il brano conclusivo, Raffaella, firmata come detto da Chip Taylor, in cui emerge prorompente il grande songwriting di colui che diede vita a canzoni come Wild thing (Troggs, Jimi Hendrix) e Try - just a little big harder (Janis Joplin).

 

 

 

 

 

MY UNCLE THE DOG

 

 

My uncle the dog - Tonight’s the day - Christian Verzeletti. www.mescalina.it 6 aprile 2004

 

Se un disco così lo avessero fatto quei semidei degli White Stripes, tutti avrebbero offerto libagioni all’Olimpo del rock tra lampi e saette. Oppure se lo avesse fatto un profeta come Iggy Pop, tutti gli avrebbero auspicato l’eternità degli immortali, nonostante anche lui si sia mescolato con infedeli del calibro di Green Day e Sum 41.

Invece “Tonight’s the day” è opera dei My Uncle The Dog, alias Alessandro Ducoli e i Bogartz. E, al massimo, si scomoderà qualche recensione importante, che poi non si sa bene che effetti porti, se ne porti.

Questo è un disco esagerato, che potrebbe suonare come un sacrilegio per coloro che sono cresciuti con il rock annacquato di oggi e per coloro che si ritengono portatori di una fede dogmatica dalla notte dei tempi: tutta gente che merita di essere profanata. E il rock’n’roll è ancora qui per questo, per liberare quell’”istinto animale”, che uno come Alessandro Ducoli conosce bene, dai tempi di Bacco il Matto.

“Tonight’s the day” è un discaccio, vero come ormai siamo poco abituati. È uno di quei (rari) dischi in cui anche i difetti giovano alla causa, servono a far buttare fuori l’anima nel caso qualcuno non se ne accorgesse: le chitarre che sembrano essere fuori controllo, il Rhodes incantato, la voce che urla di rabbia, quasi sbavando. Comincia così con la cover di “Tonight’s the night” di Neil Young e finisce con una scheggia ancora più infuriata, quasi psichedelica, dello stesso pezzo.

In mezzo Ducoli e i Bogartz ci mettono tutto il loro essere randagi: la vicinanza che li lega non è solo quella geografica delle valli bresciane, ma quella ideale, concreta, fisica, di un territorio rock, che ognuno segna a suo modo.

Ducoli con un cantautorato istintivo, bagnato nel blues e nel rock più viscerale. I Bogartz con un impatto che oggi chiamano stoner, ma che non è affatto giovanile.

È una sorta di iniziazione in cui le due voci danno sfogo alla propria parte più profonda, senza alcun timore: “Jennifer” è una botta da far male, molto più brutal di quanto dica il genere, mentre “Perfect” è un pezzo recuperato da “Anche io non posso entrare” in cui lo spirito di Bacco il Matto torna a gozzovigliare dietro a un’armonica.

In mezzo a tanto furore, i My Uncle The Dog sanno sempre dove andare, come quei cani randagi, che, dopo tanto cacciare notturno, trovano sempre la via del ritorno, a una tana che solo loro sanno. Così gli urletti di “Il dio dei cani” hanno l’intensità di “Simpathy for the devil”, mentre “Zachary Taylor” affonda le sue radici nel voodoo blues. Così il disco ha un corpo notturno e bastardo, che non si può definire narrativo solo per la sua irruenza.

Questo è infatti più uno scontro che un incontro, con gli anni di gavetta di Ducoli che si oppongono all’irriverenza dei Bogartz. Non si sa se e come questa collaborazione potrebbe continuare, proprio per l’impatto con cui si è verificata, ma “quella del poi” è questione futile: “Tonight’s the day” di risposta ne dà una sola.

A tutti coloro che si chiedono ancora che cosa può essere il rock oggi.

 

 

My uncle the dog - Tonight’s the day - Furio Sollazzi. www.miapavia.it 7 aprile 2004

 

My Uncle The Dog è il risultato della fusione estemporanea dei Bogartz con Alessandro Ducoli, cantatuore "a tutto tondo", rocker nello stile e beatnick nell'anima.

 

Quando gli ho chiesto "lumi" su questo disco (Privo di note di copertina e con i musicisti sottolineati da pseudomini: Cletus Knob Creek Cobb, Elijan Dizzy Craig, Aaron The Dutchman Van Doren, Ivan Ramiro Gares III) il Ducoli mi ha risposto con queste righe: "Abbiamo deciso di costruire questo disco quasi per caso (un suggerimento di Davide Sapienza ci ha confermato intenzioni che già aleggiavano tra me e il cantante dei Bogartz Andre Bellicini ). Il disco doveva essere un tributo a Tonight's the ninght di Neil Young e poi ha trovato una fisionomia più concreta e indipendente dal capolavoro di Young. I riferimenti a quel disco ovviamente sono tutti confermati (oltre alla Cover di Tonight's the night). Il disco, comunque, riamrrà un episodio estemporaneo nell'attività di ognuno di noi (c'è l'intenzione di registrare un secondo capitolo il prossimo anno ma limitamente a soldi, tempi e impegni vari; il secondo capitolo si dovrebbe intitolare "I still aven't found what YOU looking for" e contenere ovviamente la cover U2 nella versione che proponiamo dal vivo oltre alle canzoni in lavorazione e per il moemnto sospese per questioni logistiche)".

My Uncle the Dog nasce sul finire dell'anno 2003 dalla collaborazione tra Alessandro Ducoli e i Bogartz. Entrambe progetti attivi da diversi anni nell'ambito della musica rock italiana indipendente. Il lavoro, registrato in soli tre giorni all'Arky studio di Paratico (BG), unisce l'approccio underground dei Bogartz alla poetica e narrativa del songwriting di Ducoli.

Fra le canzoni presenti nel cd si contano tre rivisitazioni di brani appartenenti al repertorio dei Bogartz, uno stravolgimento di "Perfetta" (uno tra i brani più apprezzati fra quelli proposti da Ducoli negli ultimi anni) e due nuovi pezzi originali scritti da Alessandro Ducoli ed arrangiati dai Bogarz, oltre alla cover di Tonight's the Night uno dei brani più oscuri mai apparsi nella discografia di Neil Young che sembra adattarsi perfettamente alle atmosfere di " My Uncle the Dog ". Tra incontri voodoo che hanno come scenario i boschi della Louisiana, divinità canine, guerre civili per la conquista dell'acqua, fidanzate sudice, scenari gotici e noir ladies nasce l' Ugly Rock .

In buona sostanza, un incredibile disco di rock ruvido, graffiante, pieno di suggestioni "roots" e di nuove irruenze in cui anche le ballate mantengono un carattere di provvisorietà umorale, come se l'urgenza di "rokkare" covasse sotto la sabbia, pronta ad erompere piena di nuova energia. Atmosfere cupe ed elettriche, prive di elettronica e rugginose negli accompagnamenti. Dischi così ti ricordano che (per fortuna) il rock non muore mai.

 

 

My uncle the dog - Tonight’s the day (Gian Paolo Laffranchi – Brescdiaoggi)

 

Cosa succede se i Pearl Jam incontrano Tom Waits? Se gli Afterhours si ritrovano sullo stesso palco con Capossela? E’ questo l’effetto, straniante e bellissimo, di "My uncle the dog", progetto (mai termine fu più appropriato) dai fini immediatamente, squisitamente artistici. Un matrimonio non-di-interesse fra Alessandro Ducoli, chansonnier valligiano dalle attitudini ruvide, spirito prezioso e originale, e i Bogartz, realtà urticante della nuova scena "alternative" bresciana.

La copertina del disco evoca malinconici paesaggi americani, titoli di coda di un film metafisico. Il retro rivela i protagonisti ribaltando il concetto di 16/9, come nelle locandine delle multisale. "Tonight’s the night" chiarisce subito e al meglio il concetto. Brano sonico all’insegna dell’Ugly Rock, genere nuovo che gli "Uncle" definiscono così: musica "tra incontri voodoo che hanno come scenario i boschi della Louisiana, divinità canine, guerre civili per la conquista dell’acqua, noir ladies e ambienti gotici".

Il cantautore si fa rocker in "Lacqua", che pare uscito dagli album meglio riusciti dei Litfiba. Un basso malato pulsa in "Jennifer", assalto grunge perfetto nella profonda sporcizia del suono. "Tonight’s the day (worry?)" è un omaggio alcolico, circolare e ipnotico, ai maestri della canzone fumosa (stile Tom Waits, appunto).

Ducoli si lascia coinvolgere e stravolgere dai Bogartz in "Hey perfect", cover volutamente irriguardosa di un suo cavallo di battaglia. Mantra e fuoco ne "Il dio dei cani", quasi uno standard di rock americano, inno garage da grande stadio. Il finale è un altro omaggio, "Zachary Taylor": un Neil Young notturno ma non per questo meno trascinante. Chiusura degna di un disco da consumare lentamente, da ascoltare e riascoltare.

Registrato in soli tre giorni all’Arki Studio di Paratico, "Tonight’s the day" è il frutto di un incontro che segna un passo avanti nel territorio underground. Un appello che non deve cadere nel vuoto. Per informazioni: www.bogartz.it e www.labandadelducoli.it.

Gian Paolo Laffranchi

gianpaolo.laffranchi@bresciaoggi.i t

 

 

My Uncle The Dog - Tonight’s the day (Cesare Casalini; Radiovocecamuna)

 

Generalmente le unioni tra grandi rischiano di portare a prodotti non all'altezza. Non è assolutamente il caso di questa esplosiva miscela nata dal connubio tra il miglior gruppo ora in circolazione in valle (e, se permettete, uno dei migliori e più promettenti in Italia), i Bogartz, e quell'Alessandro Ducoli che noi di Radio Voce Camuna ben conosciamo per averlo più volte intervistato e trasmesso.

Il mini-CD (solo sette pezzi, ma ciò è forse un bene, significa una maggior selezione e una migliore qualità). si apre con una delle migliori cover younghiane che abbia mai sentito, "Tonight's the night" resa in modo adrenalinico, che quindi si distanzia dalla catartica vesrione originale, poi procede con una canzone che io proporrei per il Premio Tenco, "Lacqua". Anche qui rock elettrico con bellissimi riff chitarristici con la alcolica voce del Ducoli che si inserisce alla perfezione nel contesto.

"Jennifer", in inglese, ancora adrenalina allo stato puro, poi una ballata rock, "Tonight's the day (Worry?)".

Si torna alle schitarrate potenti in in un pezzo che a me ricorda, almeno in partenza e nel riff "Submission" dei Sex Pistols, "Hey perfect", che non è cantato dal Ducoli, poi un brano dalle tematiche care al nostro Ducoli "Il dio dei cani", sempre musicalmente rock potente, poi si chiude con un brano dall'andamento quasi country, ma mooolto eletrico, "Zachary Taylor".

Ho il sospetto che, una volta inserito il CD nel lettore della mia scassatissima automobile, toglierlo sarà una questione moooolto complicata...

 

 

My Uncle The Dog - Tonight’s the day (Federica Gozio; Rockit, 14/07/04)

 
Il rock è morto? Quante volte è stata posta questa domanda e quante volte la risposta è stata affermativa. Tante, troppe, noiosamente troppe. Io stessa sono convinta che gli urgenti impulsi che hanno condizionato la nascita del rock come stile di vita e come autentico “essere” si siano annacquati nel tempo privando lo stesso del proprio vigore e della propria originaria identità. Normale, niente di strano, la musica altro non è che diretta emanazione della società e con essa, o in reazione ad essa, si evolve.


Poi ascoltando certi cd mi convinco che forse la rivoluzione del rock è stata talmente prepotente e penetrante da essere in grado di oltrepassare le barriere temporali per infervorare ancora certi animi che, nel migliore dei casi, riescono a darle espressione nelle sue forme più autentiche ed ancestrali.

 
Accade con “Tonight’s the day”, frutto di una riuscitissima collaborazione tra Bogartz ed Alessandro Ducoli, che prende il bislacco nome di My Uncle The Dog. Atmosfere oscure, suoni triviali e graffianti, sregolate distorsioni, intensi sovrapporsi di eterogenee chitarre e ritmiche incisive contraddistinguono il loro rock viscerale, indomito, radicato nel blues più atavico: quanto esce dalle casse arriva irruentemente allo stomaco, senza filtri né inibizioni.

 
Sin dall’inizio l’impatto è bruciante con una caustica rielaborazione della tetra “Tonight’s the night”, sottratta ad uno degli album più cupi e strazianti di Neil Young e gettata in lugubri bassifondi da cui risuona sporca e raschiante. Difficile trovare un aggettivo che le renda onore. Il tema viene ripreso con maggiore foga nella sinistra ghost track strumentale, assumendo toni più sferzanti e psichedelici. Interessante il riadattamento di due pezzi tratti da “Honeymoons in the desert” – già Bogartz -. La sensualità circospetta che caratterizzava l’autentica “Jennifer” lascia spazio ad una rabbiosa versione che sembra raffigurare un animale legato, impegnato in una inconsulta lotta per liberare il nerbo represso. “Zachary Taylor” viene riletta in chiave country ma il “Nashville sound” subisce l’aggressione degli strumenti elettrici piegandosi alla loro irruenza. “Hey perfect” è invece il rifacimento inasprito della poetica “Perfetta” firmata Ducoli, riproposta - oltre che parzialmente in lingua inglese – con vesti decisamente più aggressive in ossequio al leit motiv del progetto.

 
La collaborazione con un songwriter si fa tangibile nei pezzi in italiano, in cui viene mantenuto il sound originario col suffragio di testi solidi ed espressivi, sicuro frutto di una penna consumata ed esperta. Intenso e trascinante lo scorrere di “Lacqua”, con un alternarsi di moderata quiete a debordanti slanci. Più nervosa ed incalzante la monitoria “Il dio dei cani”.

 
Tra tanto fragore trova spazio anche una splendida ballata notturna, “Tonight’s the day (worry?)”, - remake di una “vecchia” canzone dei Bogartz - perfetta nel suo delicato intrecciarsi iniziale di chitarre e nel suo evolversi in un crescendo scandito dal costante ripetersi di un ipnotico riff chitarristico, con l’accompagnamento discreto di un nostalgico sax.

 
Nulla da eccepire, nulla da togliere o aggiungere, tutto suona come dovrebbe ma senza mai risultare artificioso o preordinato, trasudando passione e istinto. Ora ho una risposta al quesito iniziale– combinazione è proprio Neil Young a suggerirmela - e mi convinco che finché ci saranno progetti come questo: “Hey, hey, my, my, rock’ n’ roll will never die”!

 

 

My uncle the dog – Live (Christian Verzeletti; Mescalina 04/06/04)

 

PUBLIC HOUSE - ESINE (BS). I My Uncle The Dog non sono una delle tante band locali che si esibisce in un pub tra birre e amici: lo si intuisce dalla voglia di sentirli che si crea prima del concerto, un'esigenza di rock'n'roll su cui Alessandro Ducoli e i Bogartz hanno costruito questa collaborazione, ma anche le loro rispettive avventure.

Cominciano i Bogartz e il giovane quartetto bresciano dimostra di non essere sul palco per scaldare l'atmosfera. "Lizard" e "Jennifer" sono in precario equilibrio tra Steve Wynn e i Morphine: dal vivo i pezzi acquistano una forza e una tensione in cui tutto può succedere, in cui le canzoni si possono fare o disfare con la stessa intensità, come succedeva per esempio ai Thin White Rope.

La prima sorpresa arriva infatti subito dopo con "Suzanne" di Leonard Cohen, in una versione aspra e coerente con lo spirito noir della band: condotto dal basso di Andrea Bellicini, il suono è mirato, centrato, anche quando il rock si fa ulcerante con "Kimberly" o più garage con "Dolly's party".

L'occasione è buona per presentare qualche pezzo inedito: la predilezione per tonalità oscure e per frequenze basse emerge sia che si attinga ad un roots di frontiera stile Sixteen Horsepower sia che si penda dalle parti dei Dream Syndicate, degli Husker Du o dei Doors. Sono tutti riferimenti che dimostrano la ricchezza e la compattezza del background della band: nonostante la giovane età i Bogartz vi attingono con personalità per creare qualcosa di loro, senza l'ambizione di suonare "nuovi".

Bellicini e compagni infatti raccolgono consensi anche tra i meno giovani presenti al Public House: suonano senza troppe menate, sanno cosa fanno e come lo fanno. Logica e dovuta quindi la chiusura con "Here she comes now" dei Velvet Underground, altro punto di riferimento per una band a cui non manca l'orientamento in prospettiva di un cammino destinato a proseguire.

Il passaggio dai Bogartz ai My Uncle The Dog dura lo spazio di una birra e di una breve vestizione, da una maglietta dei Kiss ad una canotta bianca con tanto di bretelle e una camicia a quadrettoni: il cambio è minimo ma significativo, ad indicare una ricerca di immediatezza, di impatto e di rock'n'roll che si fa più rurale e selvatica. Bellicini appare trasformato in un personaggio di Steinbeck, mentre la presenza del Ducoli aumenta il peso sul palco, per questioni di fisico e d'età.

Apre il set una versione sboccata di "Tonight's the night", urlata in un megafono, ad invocare lo spirito del rock: il suono è esagerato e i Bogartz sono "costretti" a picchiare più di quanto già facciano di per sè.

Ironia e rabbia passano in una "I still haven't found" degli U2 spaccata a metà da una forza devastante, la stessa che rende "Il dio dei cani" furiosa, con la bava alla bocca. Con "Adam raised a Cain" è chiaro che i My Uncle The Dog non stanno suonando una cover, ma un pezzo di sé stessi, tirando fuori tutto quello che hanno fin dal profondo del loro istinto più oscuro. La massa fisica e spirituale di Alessandro Ducoli poi rende istrionici i pezzi, senza distinzione tra interventi alla voce o all'armonica. Il finale è una sballata "It's the end of the world" dei R.E.M., ma soprattutto una "All along the watchtower", tirata su dall'armonica, dal sax e dagli sbotti della band: la batteria va ovunque, il basso improvvisa e, quando il Ducoli scende dal palco, i Bogartz si sentono autorizzati ad impossessarsi ancora dello spirito rock che aleggia nell'aria con un'inedita "Sunset strip".

L'unico consiglio al termine di un concerto del genere è di stare alla larga da un gruppo come i My Uncle The Dog. A meno che siate come loro e abbiate bisogno di rispondere a quel "richiamo della foresta" generato dal rock: non vi ritroverete a far parte di un branco, ma di sicuro il vostro instinto animale ne sarà morbosamente soddisfatto.

 

 

 

My uncle the dog – (Marco Grompi; Recensione mai pubblicata da Buscadero, ripresa da www.rockinfreeworld.tk)

 

Ecco un bell'esempio degli effetti imprevedibili che si ottengono quando un onesto e instancabile cantautore camuno, Cletus "Knob Creek" Cobb alias Alessandro Ducoli, al cui vero nome fa capo una nutrita discografia "indipendente" alle spalle, ovvero più o meno 7 album autoprodotti, tra progetti solisti, Bacco il Matto e Banda del Ducoli) si chiude per qualche ora in un garage con una giovane band di "vicini di casa", i Bogartz (basso, chitarra,  batteria e sax), apparentemente lontanissima per background musicale e inclinazione (al loro attivo una manciata di demotapes e l'ottimo CD Honeymoon In The Desert, con un sound spigoloso a metà strada tra Thin White Ropes e Morphine). Tonight's The Day è un dischetto breve (31 minuti), conciso (sette canzoni), nero come la notte, che colpisce come una fucilata nel buio. Rock viscerale e dannato quanto basta, senza troppi fronzoli, sudato, nervoso, credibile, godibile, vero. Una chitarra che fa faville nel limare le spigolosità di un sound cosparso di pece, una scelta di repertorio che mescola le composizioni (e le voci soliste) delle due realtà coinvolte e, in apertura, una versione mozzafiato della Tonight's The Night di Neil Young (davvero strepitosa!) basterebbero a renderlo un piccolo capolavoro. Tra "divinità canine, fidanzate sudice, scenari gotici e noir ladies" qui si inneggia alla nascita di un improbabile "ugly rock", mentre di "ugly" c'è solo uno scenario discografico "ufficiale" che si ostina ad ignorare realtà stimolanti come queste (infatti il disco lo trovate qui: www.bogartz.it oppure baccoilmatto@libero.it). Un progetto che suona come un'imprecazione liberatoria. "My Uncle The Dog!", appunto.


Partiamo da lontanissimo, come è nata la tua passione per il rock e in particolare per Young?

Ho iniziato ad ascoltare Neil Young per caso. Per fuggire. A differenza di molti miei amici non ho avuto fratelli maggiori a cui rubare i dischi o qualche cugino che prima di partire per lunghi viaggi riflessivi mi ha lasciato i suoi scaffali in consegna. Niente Led Zeppelin, niente Pink Floyd, niente Stones, niente Hendrix, niente Macartney. Ho avuto due sorelle maggiori e una sola radio in casa fino a quindici anni. Una condanna. Conosco, ancora oggi, quasi esattamente la discografia di Claudio Baglioni fino a "La vita è adesso", Sandro Giacobbe, Enzo "Pupo" Ghinazzi, Riccardo Fogli, Giampiero Artegiani e i Collage. Un calvario, anche Fiordaliso. All'inizio è stato ovviamente un inconsapevole subire (ero troppo giovane) fino a quando la maggiore delle mie sorelle, che ha frequentato l'Università Cattolica a Milano, ha assistito, ovviamente per questioni di mera rappresentanza, al concerto del "vecchio" a Milano. Quello dei lacrimogeni. Mi sembra l'87. Il suo resoconto è stato perentorio. Oltre a sottolineare che certa gente dovrebbe starsene fuori dalla musica disse che Neil Young era vomitevole. Ho cominciato a chiedermi chi fosse Neil Young. Invece di assecondare la mia curiosità ho comprato "Like a virgin" di Madonna. Tutto sommato un buon disco. Non ero ancora pronto. La vera svolta è però arrivata quasi contemporaneamente, forse qualche mese prima, non mi ricordo. La truffa è che è stata proprio per merito delle mie sorelle. La minore delle mie sorelle si è innamorata persa del suo maestro di Judo. Per la cronaca è stata anche campionessa italiana juniores. Questo Ivan, a cui probabilmente devo la vita senza nemmeno sapere chi sia, ascoltava Springsteen. Segue quindi un lungo periodo in cui a casa mia arrivano le note del Boss. In continuazione. Cadillac ranch. Il resto è venuto da solo. Basioli, Cere e Panteghini, compagni della scuola per geometri, hanno già approfondito oltre il Boss, molti altri grandi. Tra questi c'è ovviamente Neil. Riaffiora il curioso aneddoto del Palatrussardi. Richiesta di duplicazione immediata subito accettata da Panteghini. "Harvest", "Zuma", "After the gold rush", "American stars'n'bars" e "Rust neever sleep". Seguono, con calma, anche perché la radio in casa era sempre una, tutti gli altri. Tutto qui. Di tutto questo periodo, a parte ovviamente i ritornelli di Baglioni e le tette di Madonna, mi ricordo ben poco. Mi ricordo che ero un povero pirla che faticava a tenere il passo dei miei coetanei emancipati che partecipavano a concerti (il Boss a Milano, cazzo, David Bowe, Pink Floyd a Venezia, io non c'ero), happening serali di ascolto dei dischi lasciati dal cugino che adesso vive in India. Gli anni '80, che oggi in parte ho rivalutato, sono stati un vero calvario …. e non abbiamo accennato all'arrivo del pop più bieco che però era l'unica arma per limonare. Save a prayer. Pazienza. Per la mia presenza scenica, ero più magro di adesso, e avevo una certa dimestichezza con l'armonica, mi hanno messo a cantare nel gruppetto. Gli Springs. Con Panteghini. De Andrè, De Gregori, U2, Springsteen e anche "Like a hurricane". Una banda di bassissimo livello. Grande passione però. Non credo serva altro per amare il Rock'n'Roll. Il resto è ordinaria follia da rockettaro di provincia. Compreso il periodo Grunge e il classico ritorno alle origini per il ripasso dell'accademia Beatlesiana, di Elvis, Stones e contaminazioni Motown. Abbastanza normale. Molto simile alla faccenda di tanti altri con cui la sera mi trovo a parlare dell'ultimo disco di Mark Lanegan, della perdita di identità del Rock italiano o di come la presenza di Yoko Ono sia stata il triste presagio della nefasta influenza che certe signore hanno avuto sui migliori rocker della storia. Ecc. ecc. ecc.

 

 

TONIGHT'S THE DAY - My Uncle the dog

Recensione di Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk

 

Elijaj "Dizzy" Craig, Cletus "Knob Creek" Cobb, Aaron "The Dutchman" Van Doren, Ivan Ramiro Gares e con la partecipazione del Rev. Martin Johan "Donkie" McManus…A vedere i credits sembra di essere di fronte ad una di quelle rock n' roll band misconosciute provenienti da chi sa dove che fanno figo solo a saperle citare in una conversazione. E invece…questi sono i soprannomi scelti dai Bogartz e Alessandro Ducoli per il progetto My Uncle The Dog. Entrambi attivi da diversi anni nella scena alternative italiana hanno deciso, sul finire del 2003, di unire le forze e ritrovarsi negli studi Arky di Paratico (BG) per incidere un disco insieme. Tonight's The Day, è nato così in soli tre giorni di incisioni, creando un connubio perfetto tra l'approccio energetico dei Bogartz e quello da songwriter, con il vizio della poesia, di Ducoli. Il titolo scelto per questo disco, Tonight's The Day, è senza dubbio un omaggio a Neil Young, considerando anche il fatto che il brano che apre il disco è proprio quella Tonight's The Night che tanto piace a noi fan del Loner canadese. Tuttavia l'ascolto rivela una band più vicina ai Bed Seeds di Nick Cave che ai Crazy Horse, sarà per i testi crudi, sarà per l'uso grattugiato delle chitarre ma l'alchimia tra Bogarz e Ducoli ci mostra le potenzialità enormi di questo progetto. "Tonight's the day" è così un disco prezioso da cui solchi sgorga un magma sonoro che infuoca la notte come un alba alcolica, in cui emergono i ricordi oscuri di qualche ora prima. Scenari gotici, incontri voodoo, divinità canine, donne misteriose emergono tra chitarre impazzite, come schegge incontrollate vanno a conficcarsi nei pensieri in uno scenario post-psichedelico. Il repertorio scelto per l'occasione in parte è proviene dal disco di esordio dei Bogartz, "Honeymoons in the desert" e in parte dal repertorio di Alessandro Ducoli. Tonight's The Night di Neil Young, apre le danze con il suo andamento oscuro a cui i My Uncle The Dog aggiungono molto del loro trasformandola in un brano post-rock con chitarre potenti che fendono la melodia e le voci incontrollate che sembrano venir fuori dalle porte dell'inferno. E' una scelta quasi obbligata, una scelta programmatica perchè il secondo brano Lacqua, proveniente dal repertorio di Alessandro Ducoli, ed è una oscura rock ballad tutta giocata sull'alternarsi di nevrotica quiete e slanci elettrici incontrollati che sfociano nello splendido ritornello. Dal repertorio dei Bogartz arriva poi la brutale Jennifer, in cui l'animale costretto de Lacqua cerca di liberarsi dalle catene della repressione, ottimo in questo caso il cantato quasi trattenuto che vivifica il testo. Dopo tre brani potentissimi arriva la splendida ballata notturna Tonight's the day (worry?), sempre dal repertorio dei Bogartz, in cui le chitarre acustiche introducono un crescendo accompagnato dal sax e dalla voce che con l'ingresso della batteria sfocia si trasforma in un canto ipnotico guidato dalla chitarra elettrica. Il brano migliore del disco è però ad appannaggio di Alessandro Ducoli, ovvero Hey perfect, che rispetto all'originale presente su Anch'io Non Posso Entrare è stravolta in un brano dai toni southern rock e cantata in parte in inglese e infarcita di un armonica ficcante che si sposa a perfezione con i riff delle chitarre. Sul finale arrivano poi la tormentata Dio dei Cani e Zachary Taylor che confermano sostanzialmente tutta la bontà di questo disco che si chiude con la speranza di vedere ancora insieme Ducoli e i Bogartz, chissà sulla lunga distanza cosa sarebbero capaci di fare.

 

 

 

SPANISH JOHNNY

 

 

Jokerjohnny II - Late for the sky (settembre 2007; Paolo “Crazy” Carnevale)

 

Non temete per la fine del rock’n’roll, non è oggi”. Questa frase che apre il sito web di questa band bresciana la dice lunga sugli intenti (e sui risultati) che questi ragazzi lombardi si sono prefissati. Lo scorso anno era giunto a ciel sereno il debutto degli Spanish Johnny, un disco essenziale e bellissimo carico di suoni e poesia come pochi. Era un disco breve con una manciata di grandi idee originali ed una cover targata Dylan di grande impatto.

 

A fine gennaio il gruppo capitanato da Cletus “Jokerdog” Cobb (uno dei tanti pseudonimi del poliedrico Alessandro Ducoli) è tornato con un nuovo disco che sembra voler proseguire in tutto e per tutto i buoni propositi del suo predecessore. Va innanzitutto considerato che, pur essendo il materiale incluso nel disco firmato per la stragrande maggioranza dal suddetto Ducoli, si tratta di un lavoro di gruppo in cui tutti i componenti mettono qualcosa di loro, dai fratelli Dakota al batterista James Gelfi, già alfiere del progressive lombardo in anni lontani.

 

Anche in questo secondo disco Ducoli & Co giocano la carta della cover d’autore, una versione tagliente di Born In The USA, se mi è concesso azzardare il giudizio di gran lunga superiore a qualunque altra, comprese quelle dell’autore: non mi dispiacerebbe se un giorno questa versione giungesse fino alle orecchie del Boss e che questi ne fosse onorato a tal punto da riconoscere pubblicamente il genio di questi ragazzi, contribuendo a farli conoscere più di quanto in realtà siano.

 

JokerjohnnyII, sta perfettamente in equilibrio tra la poetica del Ducoli (responsabile pochi mesi fa anche di un disco dalle atmosfere jazzate realizzato con calibri del tipo Ellade Bandini e Ares Tavolazzi) e i suoni intensi dei suoi compagni d’armi. Chitarre taglienti, organo insinuante, acustiche cristalline: questo è il segreto degli Spanish Johnny: ascoltate il voodoo di Morrison’s Ladies o il blues di Wrong Idea, costruita su un giro di Hammond spettacolare. E che dire poi di La mia rivoluzione? Il disco sta anche in equilibrio tra testi in inglese e testi in italiano, come a dire: ci piace la musica americana ma non dimentichiamo le radici da cui proveniamo. Non è forse un caso se le ultime parole della canzone finale sono “rock’n’roll can never die”, come a dire un ulteriore tributo ai modelli di partenza.

 

A tutto ciò aggiungete che potrebbe esserci in vista un libro intitolato “Dogtales” collegato a doppio filo con l’universo degli Spanish Johnny. Si può chiedere di più a questi indefessi devoti lavoranti del rock?

 

 

Jokerjohnny II – Mario Panzeri (www.rockit.it; 11 luglio 2007)

 

Arrivano dalla lombarda Valle Camonica in groppa ai loro cavalli. Wild Turkey nelle vene, lo sguardo accecato dal sole morente che incendia l'orizzonte. Ripartiranno alla volta di quella città fantasma, quel saloon esisterà ancora? Dai suoni oscuri ma generatrici di "Paris, Texas" alla tranquilla epica-pastorale degli ultimi Lambchop, con sempre indosso quelle camicie a quadrettoni (che prima erano di Neil e poi di Bruce), quelle barbe e quei consumati cappellini da baseball.
E negli episodi migliori (a mio parere quelli cantati in italiano come "Natale 1890", "La Tua Rivoluzione" o "La Mia Cellula Di Guardia") l'impasto roots e country della musica si imbastardisce di una sincera discorsività alla Fabrizio De Andrè, generando Canzoni adulte, ambiziose, fuori dal tempo e dalle logiche: un vero e proprio miraggio nel deserto padano.

 

 

Jokerjohnny II – Richi Barone (La voce del popolo; giugno 2007)

 

Ci avevano provato lo scorso anno, con il primo album “Joker Johnny.I”. E se già allora gli Spanish si erano fatti notare per la loro indole lenta e stralunata, rockeggiante e polverosa, oggi si ripresentano con un vestito ancora più stiracchiato ma decisamente accattivante.

 

La strada degli Spanish è quella del rock, un rock umido e sudaticcio, al quale si attacca la polvere che gli zoccoli dei cavalli sollevano, quando si avventurano per strade sterrate. Un viaggio serio e allo stesso tempo ironico, guidati dalla voce spesso filtrata di Cletus “Jokerdog” Cobb, alias il vagabondo Alessandro Ducoli, camuno di montagna, che odora di anarchia e selvaggina. Un poeta, dice qualcuno, e su questo siamo d’accordo. Un cavallo pazzo, che va a briglie sciolte e si cavalca a bisdosso. Gi Spanish sono tutti con lui, e affondano i colpi attraverso un rock ‘n’ roll sporco ma simpatico, che apre le danze con una irriconoscibile versione di Born in the U.S.A. di springsteeniana memoria (ottimo l’hammond di Paolo Mazzardi). Simpatico perché afferma il valore immortale del r ‘n’ r, riuscendo però  a sdrammatizzarne, grazie soprattutto ai già citati filtri, forse non solo vocali, il peso specifico molte volte volutamente enfatizzato. I Johnnies alternano l’inglese all’italiano, il megafono alla viva voce, il rock molle e ciondolante di Just Keeping alla poesia montana di Natale 1890 (chi possiede “Note di Natale, gli artisti bresciani cantano il Natale” già la conosce), buttando così nel disco, grazie a questa alternanza intelligente e affascinante, le loro molteplici anime. E infatti non c’è solo America in “Joker Johnny .II”, anche se il volto dell’album è prevalentemente a stelle e strisce, nella traccia numero 7, Rino, è evidente la dedica a Rino Gaetano e al suo amore “sempre blu”. Probabilmente autobiografica è la ducoliana Wrong idea (grande il piano di Beppuccio Donadio), con tanto di conclusione riservata a “la mia insopportabile follia, la mia inarrivabile follia, la mia inaccettabile follia…”, una follia evidentemente molto più sana di tanta presunta normalità contemporanea. Un album dal color seppiato, da intuire e non da comprendere, che profuma di certe taverne, stamberghe che ancora si scoprono in qualche sperduto anfratto tra le montagne della Camunia. E quando la coperta grezza del rock si solleva, dal disco escono profumi di poesia, di lirismo cosmico che ci aiuta a risvegliarci dal torpore dei troppi ipermercati che circondano i nostri centri sempre meno abitati e sempre più commerciali. “Joker Johnny .II” si svela pienamente, magnificamente, nel finale,  con tre canzoni da applausi: La tua rivoluzione, piano, armonica e voce del Ducoli (“alzare la testa e gridare con tutta la voce la tua rivoluzione”), e le due conclusive, Assenza di tempo e r’n’r funeral, cantate dal Ducoli e dall’angelica vox di Veronica Sbergia.

 

Un disco da macinare a lungo, per combattere l’assenza di tempo, per fare respirare il tempo, per alzare lo sguardo, per camminare instancabili verso la terra promessa  dal rock ‘n’ roll.

 

 

Jokerjohnny II – www.rootshighway.it (2 maggio 2007; Luca Vitali)

 

Gli Spanish Johnny (nome "trovato" in una canzone di Springsteen e titolo di una poesia di Willa Sibert Cather dei primi del '900) invece di stare inutilmente a discutere se il rock ha senso solo se cantato in inglese oppure no, a distanza di pochi mesi dal primo capitolo ci offrono Jokerjohnny.II, anche questo "rigorosamente" metà in italiano e metà in english. "Non penso che si possa rinunciare a sostenere cose nelle quali ognuno di noi crede", canta ad un certo punto (in Io personalmente) Alessandro Ducoli (alias Cletus "Jokerdog" Cobb), come non essere d'accordo?

 

Il disco inizia con Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen: gli Spanish Johnny (Paolo Panteghini - Santiago "Ugly Boots" Lobo e Tommaso Vezzoli - Blue Dakota alle chitarre, James Gelfi - James "Suspicius Mind" O'Presley alla batteria, Tommy Fusco - Geremiah "God Save The Queens" Smith al basso ed Enrico Vezzoli - Henry Dakota a fisarmonica e tastiere) ne fanno una cover irriverente, dura, sporca, quasi punk. La mia cellula di guardia ci riporta alle atmosfere polverose del primo disco: la strada da affrontare, sempre irta di pericoli, di "santi dell'asfalto" che ci lasciano in balìa di traditori e demoni; Ducoli canta con voce filtrata, mentre la splendida voce di Veronica Sbergia (o meglio Bonnie "Bon bon" Baker) ci ricorda la pinkfloydiana The Great Gig In The Sky. Just keeping è esattamente a metà strada tra Tom Waits e Chuck E. Weiss; Morrison's ladies è un rock'n'roll notturno che mischia serpenti, autostrade, stanze di motel con donne compiacenti; Wrong idea si mantiene su atmosfere alla Chuck E. Weiss; Rino è una dedica speciale a Rino Gaetano in chiave dapprima folk-acustica che si fa via via più rockeggiante. La guerra fa capolino nella ballata Natale 1890. La tua rivoluzione è introdotta dall'armonica: un'altra canzone sul fatto che non si può mai abbassare la guardia, perché "…i ladri li trovi nascosti ma escono sempre per dare risposte più giuste…". L'amara Assenza di tempo e la pianistica R'n'r funeral (ancora Veronica Sbergia in evidenza) chiudono il disco.

 

Fanno parte della partita anche Beppe Donadio - Buddy Allen al piano, Paolo Mazzardi - Erman Lebowsky all'hammond, Alessandra Cecala - Alejandra Cicalito al contrabbasso, Zeno De Rossi - Zevulon Bercovitz alla batteria e Mauro Ottolini - Ibrahim Hotolinko, tuba. Se siete in grado di tradurre la frasi poste in fondo alla confezione ("only r'n'r' can save our life") o in chiusura di disco ("r'n'r' can never die") sappiate che, prendendo atto della vericidità di quelle affermazioni, vi saranno sempre sufficienti canzoni con due chitarre, un basso e una batteria (con la saltuaria aggiunta di una fisarmonica e di un'armonica a bocca, giusto per ricordarci delle nostre origini) per sentirvi vivi e con la voglia di comunicare emozioni a chi vi sta vicino. Altro che isolarsi con un ipod qualsiasi. Hoka Hey!.

 

 

Jokerjohnny II - Bresciaoggi (19 aprile 2007; Gianpaolo Laffranchi)

 

Un anno dopo, l’omaggio continua. Il tributo che nasce dal cuore. Il patto di sangue fra rock n’ roll e blues, suono aspro e ruvido, duro e sincero. Niente è più moderno della tradizione per gli Spanish Johnny, che onorano padri e padrini statunitensi con il secondo capitolo di JokerJohnny, progetto inaugurato un anno fa con sette tracce mozzafiato sposate e benedette dai Gang, gli indiscussi Clash italiani. Chitarre e armonica a bocca sono la colonna sonora ideale di un percorso iniziato nel 2000, ispirato dal patrimonio di suoni «rockyroad», dalla lezione immortale degli anni ’70 e degli ’80.

 

In particolare, stavolta, i Johnnies lucidano l’altra faccia della medaglia di un «American Dream» che ha il suo inno nella traccia apripista. E’ «Born in the Usa». E’ Bruce Springsteen suonato da Neil Young con tanto di Crazy Horse al seguito. Impatto squassante. La prima di undici tappe che non deludono le attese. «La mia cellula di guardia» è un momento di incantevole quiete che «Keeping on this road» innervosisce soltanto un po’. Si va su un terreno blueseggiante più che mai, sole e asfalto, Chicago e Johnny Cash. «Morrison’s Ladies» non concede tregua, «Io personalmente» abbassa il ritmo, eppure riesce ad essere, al pari di «Wrong Idea» e «Rino», una trasfusione di energia e soul nella canzone d’autore italiana. «Natale 1890» e «La tua rivoluzione» sono ballate sporche che probabilmente sarebbero piaciute a De André. Il finale è dolente. La gaberiana «Assenza di tempo» lascia il posto a «R’n’R Funeral». Un’emozione lenta e sottile che scorre nelle vene.

 

I Johnnies sono una squadra affiatata dalla rosa ampia. La formula «roots» è farina del sacco dei chitarristi fondatori, Paolo Panteghini e Tommaso Vezzoli, che possono contare sull’esperienza di un’icona del progressive italiano quale James Gelfi, sulle tastiere e sulla fisarmonica di Enrico Vezzosi, sul basso di Tommaso Fusco. La voce, cruda e tagliente, è di Alessandro Ducoli (già Bacco il Matto). Collaborano come ospiti del disco Beppe Donadio (pianoforte), Paolo Mazzardi (hammond), Veronica Sbergia (vocalist), Alessandra Cecala (contrabbasso), Mauro Ottolini (basso tuba), Zeno De Rossi (batteria).

 

 

Jokerjohnny II - Gianni Dalla Cioppa (Mucchio Selvaggio; marzo 2007)

 

Con leggero ritardo, qualche mese fa ci eravamo occupati dell’ottimo esordio di questi bresciani Spanish Johnny, ed ecco, non senza un briciolo di sorpresa, che li ritroviamo alle prese con questa seconda prova. Va detto: non una band di primo pelo, vista l’esperienza dei protagonisti, che affondano radici disparate, dal rock progressivo dei settanta al rock stradaiolo, ma il tutto è rivisitato con intelligenza e la giusta attitudine. Il punto di riferimento rimane comunque quel Bruce Springsteen, che ha ispirato il nome della band e di cui rileggono con fare ruvido e polveroso il classico “Born In The U.S.A.”, qui proposto come se uscisse dal megafono di una prigione. Ed è proprio questo suonare disilluso e senza meta che è il comune denominatore dell’album: se nel debutto la via da seguire era una lingua di asfalto, piena di seduzioni, qui si esce dalla strada madre e si entra in sentieri di polvere, privi di indicazioni se non il sole e qualche raro viandante. L’America degli sconfitti, tema sfruttato verrebbe da dire, che qui rappresenta una metafora di tutte le disuguaglianze del mondo. Non sempre convince il cantato in inglese mentre i pezzi in italiano, alcune volte, paiono davvero di alto livello. La dimostrazione sta in “Io personalmente”, l’inno “La tua rivoluzione” e la stupenda “Assenza di tempo” impreziosita da una voce femminile. In chiusura, vagamente alla Tom Waits, una splendida e tenue “R’n’R Funeral”. Un presagio?

 

Jokerjohnny II - Cesare Casalini (Radio Voce Camusa; febbraio 2007)

 

Per tutti coloro che ritengono il rock’n’roll non solo uno dei tanti generi musicali, ma un’urgenza, una assoluta e disperata necessità di comunicare pensieri, esperienze, emozioni. Se qualcuno è rimasto spiazzato dal modo in cui Bruce Springsteen tratta, negli ultimi anni, la sua “Born in the U.S.A” rendendola in versione totalmente acustica, rimarrà probabilmente ancora più basito dalla versione totalmente elettrica che ne fanno gli Spanish Johnny in apertura del loro secondo episodio. E’ una versione al vetriolo, tutta chitarre elettriche e armoniche urlanti, messa all’inizio tanto per chiarire subito le cose.

 

Loro si “nascondono” ancora dietro a nomi fittizi, comunque sono Paolo “Santiago Lobo” Panteghini e Tommaso “Blu Dakota” Vezzoli alle chitarre elettriche, Enrico “Henry Dakota” alle tastiere e all’accordion, Tommy “Geremiah Smith” Fusco al basso elettrico, Alessandro “Cletus Cobb” Ducoli che canta, suona armonica e chitarra acustica e scrive quasi tutte le canzoni, e James “O’Presley” Gelfi che suona la batteria. Il disco si avvale poi di vari ospiti, tra cui Beppe Donadio al piano, Paolo Mazzardi (Impossiblues) all’hammond, Veronica Sbergia (la SverOxa dei Garage Toys)  e Alessandra Cecala (la Cecca dei Califugo Blues Band) alle voci e ai cori femminili. 

 

Il disco, dopo la partenza al fulmicotone,  si fa poi leggermente più introspettivo con “La mia cellula di guardia”, dove Cletus Cobb, con voce filtrata, reclama l’urgenza di cercarsi un posto sicuro “in questa galassia di facili e mitici eroi”. “Just keeping” è una ballata con qualcosa di waitsiano, “Morrison’s ladies” è invece un rock’n’roll che parla di serpenti, di autostrade, di macchine sfasciate sulla Vine, e di “donne della mezzanotte le cui stanze sono sempre aperte”. Si torna sull’introspezione con “Io personalmente”, con una specie di confessione personale in cui Cobb sostiene (e qui riporto fedelmente) di “non pensare che si possa rinunciare a sostenere cose nelle quali ognuno di noi crede”. Poi ci sono i due  pezzo a mio dire, più belli del disco, cioè “Wrong idea”, che, non me ne voglia Cobb, mi sembra un incrocio tra certo Dylan di “Modern times” (e non solo per il timbro vocale) e qualche vecchio sporco blues polveroso, e “Rino”,  che è una vera, appassionata dedica a Rino Gaetano,  un pezzo che inizia acustico e tranquillo per poi esplodere in un rock chitarristico dagli accenti “Green On Red”. Anche “Natale 1890” è una gran bella ballata che ricorda un Natale con soldati e cannoni che passano vicino, quindi un tempo di guerra. “La tua rivoluzione”è un’altra ballata rock il cui testo, secondo la mia interpretazione, invita a smetterla di seguire certe persone che sostengono di avere le uniche soluzioni giuste a tutto, ma a ragionare con la propria testa senza delegare altri a dire quello che pensiamo. Non so se mi sono spiegato, ma tant’è. Il disco viene chiuso da “Assenza di tempo”, ancora piuttosto personale, e da “R’n’r funeral”, con un interessante controcanto femminile e con un bellissimo assolo finale di armonica a chiudere questo ottimo secondo lavoro dei Johnnies che si ripropongono, a distanza di un anno, come una band le cui performances dal vivo sono dei veri e propri happening di rock’n’roll. Chiunque sia curioso di sapere da dove viene la musica che i Johnnies propongono vada a sentirli, oppure faccia un giro sul loro sito www.spanishjohnny.it. Non resterà deluso.

 

 

Jokerjohnny I - Late for the sky (settembre 2006; Paolo “Crazy” Carnevale)

 

Dietro il nome “SJ”, che indurrebbe a pensare ad una formazione d’oltreoceano, si nasconde in realtà un gruppo italiano che nutre una forte passione per la musica americana, tanto che i suoi componenti si celano dietro pseudonimi come Cletus Cobb, Henry Dakota, Santiago Lobo, Blu Dakota, Geremiah Smith e James O’Presley. Si tratta invece di un combo alpino, riunitosi nel 2000 intorno al batterista James Gelfi, autentica icona del progressive bresciano. Ma non di progressive si tratta la musica degli SJ, soprattutto alla luce del fatto che il cantante è in realtà Alessandro Ducoli, eclettico e poliedrico uomo dei boschi della Valcamonica, uno dei più grandi, se non il più grande, talento inespresso della musica italiana, sia nel caso si tratti di canzoni d’autore (una manciata di dischi incisa con quella che è nota come La Banda del Ducoli), sia che si tratti di scrorribande di stampo americano (come in questo disco o in quelli incisi con Bacco il Matto), o addirittura di divagazioni punkettare (My uncle the Dog).

 

“Jokerjohnny I” è negli intenti una specie di omaggio ad un suono americano che sta nel cuore di molti, ma è anche un omaggio alla cultura americana in senso lato: fin dal nome della band infatti è evidente la citazione dello Springsteen primordiale, ma dalla copertina molto vintage del disco apprendiamo che Spanish Johnny era già un personaggio prima che il Boss ne facesse il protagonista di “Incident on 57ht street”, nella fattispecie è il titolo di una poesia di Willa Sibert Cather datata 1915! Ma se le radici della musica del gruppo sono così profondamente americane, gli Spanish Johnny sono un gruppo italianissimo, naturale quindi che le canzoni di questo disco siano cantate in italiano, con l’eccezione dell’unica cover qui inclusa.

 

Il sound robusto, ben sostenuto dalle chitarre arroventate e da un organo hammond davvero imponente. È un disco robusto anche quando i brani sono sorretti dalla chitarra col tremolo o dall’armonica di Cletus Ducoli. Il cd si apre con un brano che riprende il nome della band e prosegue con la violenta “Zabulon” che naviga quasi in territori Paisley Underground. “Tombstone” è una sofferta ballata ed è anche una delle perle del disco. L’unica cover del disco è una personalissima rivisitazione di “Jokerman” di Bob Dylan, molto bella ed eseguita con un andamento del tutto differentedall’originale, quasi da osteria, ma molto curata nell’esecuzione. “Demas” è un altro pezzo alla Green on Red, con l’organo che apre alla grande. Prima della conclusione c’è anche spazio per una poesia recitata dal padrino dell’operazione, nientemeno che Marino Severini dei Gang. Il gran finale è nelle mani di “Leaving Las Vegas”, quasi un brano di Neil Young nelle resa sonora, il Neil più oscuro che da sempre è una delle ossessioni del Ducoli.

 

Un disco breve, purtroppo, ma molto bello. Il titolo “Jokerjohnny I” fa ben sperare in un seguito, perché sarebbe un peccato se rimanesse un caso isolato. A ciò si aggiunga che il motto del gruppo è “don’t worry about the death of r’n’r … it’s not today”

 

 

 

Jokerjohnny I – (Michele Murino; www.maggiesfarm.it)

 

Jokerjohnny.I" è il primo CD degli Spanish Johnny ed è un lavoro breve (cinque brani originali) ma decisamente interessante, con una sorta di viaggio western che prende le mosse dalla sequenza cantata da Bruce Springsteen nella sua "Incident on 57th street"...


I personaggi di Spanish Johnny e Puerto Rican Jane, lasciati al loro destino nel brano del Boss, lì sulla 57ma strada, rivivono nel disco degli Spanish Johnny che hanno immaginato un seguito alla storia ed hanno anche fatto un ardito collegamento con una poesia opera dalla scrittrice americana Willa Sibert Cather il cui titolo - "Spanish Johnny" - magari è rimbalzato nella testa di Springsteen per la sua storia dei moderni Romeo & Juliet dei bassifondi.

 
Il disco degli Spanish Johnny (sei brani in italiano ed una cover in inglese) si apre appunto con "Spanish Johnny" (caratterizzata musicalmente da una grande energia e da ficcanti chitarre elettriche), prosegue con una tirata ballata elettrica dal testo tagliente come un rasoio ("Zabulon") e con quello che è a mio avviso il brano migliore dell'album, "Tombstone", una ballata melodica di grande impatto.


Poi una deliziosa cover di Bob Dylan, "Jokerman", gratificata da uno strepitoso arrangiamento con tanto di trombone che in un certo qual modo trasporta il brano vent'anni nel passato, nello scantinato di Big Pink, in una ideale reinterpretazione alcolica di Bob & The Band. Geniale l'idea di eliminare il ritornello ricorrente ("Jokerman dance to the nightingale tune...") e trasformarlo in incipit e chiusura del brano sostituendolo nel corso della canzone da un irresistibile "...He's a Jokerman..." (belle anche le variazioni di testo tra cui un molto più diretto - rispetto alla versione dylaniana - "You're going to Sodom and Gomorrah...
But what do you care? Ain't nobody there would want to fuck your sister").


Il disco si chiude con un altro testo molto acido ("Demas"), con un regalo dei Gang (una toccante poesia dal titolo "Figlio", recitata dalla voce storica dei Gang, Marino Severini) e infine con "Leaving Las Vegas".

 
Un bel disco "roots-rock", tra Steve Earle, Neil Young e Bruce Springsteen, un timbro ed una coloritura vocale, un modo di porgere le liriche ed una progressione metrica che a volte rimanda a De Andrè (padre e figlio) ed a Massimo Bubola.


Gli Spanish Johnny, nati come cover band, sono: James O' Presley (James Gelfi) alla batteria, Geremiah Smith (Tommy Fusco) al basso, Santiago Lobo (Paolo Panteghini) e Blu Dakota (Tommaso Vezzoli) alle chitarre, Henry Dakota (Enrico Vezzoli) alle tastiere, trombone, fisarmonica ed harmoniun, Cletus Cobb (Alessandro Ducoli) voce, chitarre acustiche ed armonica (nonchè autore dei testi originali della band).


...don't worry about the death of r'n'r' - chiosano gli SJ sul retro copertina - ...it's not today!

 

 

Jokerjohnny I - Christian Verzelletti (www.mescalina.it)

 

Gli Spanish Johnny sono un branco di disperati, di “hopeless romantics”, come li chiamava Steve Earle. Si tratta di musicisti che hanno venduto l’anima al rock’n’roll e che, per tener fede a questo patto, si nascondono dietro a nomi di battaglia che richiamano in vita eroi di un’America perduta: Blu Dakota, Henry Dakota, James O’Presley, Geremiah Smith, Santiago Lobo e Cletus Cobb.


Anima della band è l’ultimo della lista, Cletus “Jokerdog” Cobb, alias Alessandro Ducoli, un cane sciolto che continua a passare da un branco all’altro (Bacco Il Matto, La Banda del Ducoli, My Uncle The Dog, Brother K). Negli Spanish Johnny deve esserci entrato per via di quel bisogno perennemente insoddisfatto di rock’n’roll che perseguita lui, ogni membro della band e pure quei pochi altri che non hanno potuto non rispondere al richiamo.


Il disco nasce proprio dall’esigenza fisica di suonare rock: una canzone di Springsteen (“Incident on 57th Street”, non a caso una delle più romantiche e disperate) lascia un personaggio irrisolto di fronte alla strada, brancolante tra sogni e destino. Gli Spanish Johnny ne prendono il nome e ne continuano la storia, facendone un motivo per non mollare, per continuare a brandire sogni e chitarre, per reclamare una giustizia che forse non arriverà mai.


Per questo “Jokerjohnny.1” inizia a spada tratta: prima un attacco roboante alla “Badlands” e poi le chitarre affondano i colpi fino a far tremare il pezzo con le tastiere. Per questo i testi fanno di tutto per non rimanere imprigionati nella solita parola: “il bastardo che non vuole la tua storia di bugiardi, sono io / non mi servono i favori di nessuno né l’aiuto del tuo Dio”.


Storie di reietti con tanto di suoni aperti, sanguinanti, che non fanno un solo passo indietro neanche quando la brezza di qualche ballata arriva a soffiare con una fisarmonica, una voce femminile e un mandolino.


In tutto sono sei canzoni, più un pezzo scritto e letto dalla voce storica di Marino Severini (Gang): sembrano poche, ma non sono poca cosa. Anche perché questi disperati non si limitano a riprodurre un certo tipo di rock americano, piuttosto se ne appropriano con personalità ed ingordigia: così danno a “Jokerman” di Dylan quella vitalità che le mancava su “Infidels” con tanto di trombone e voci alticce. E fanno venire in mente Steve Earle senza fargli il verso (“Zabulon”, “Demas”).


Importanti gli interventi di Enrico Vezzoli (keyboards, harmonium, trombone e fisarmonica) nel dare sfumature ad un suono incazzato ed affamato, che si ribella ai privilegi e alle menzogne di un mondo con la memoria corta.


Certo, alla fine gli Spanish Johnny rimangono sempre un’altra band di disperati perduta tra le valli bresciane ed è probabile che questo disco non li porterà da nessuna parte, soprattutto in un paese come il nostro, ma a volte proprio in ciò che è inutile e confinato ai margini del sistema si trovano le cose più vere.

 

 

Jokerjohnny I - Gianni Dalla Cioppa (Mucchio Selvaggio; aprile 2006)

 

Gli elementi per incuriosire ci sono tutti in questo cd di esordio degli Spanish Johnny – che rubano, per loro sessa ammissione, il nome da un personaggio delle liriche del primo Bruce Springsteen – ma c’è il rischio concreto che pochi ne vengano a conoscenza. speriamo quindi di rendere buon servizio, con questa recensione. 

 

La band si forma nel 2000 intorno a un nucleo di ottimi musicisti su iniziativa di James Gelfi – batterista dai trascorsi storici, attivo sin dagli anni ’70, nei circuiti del rock progressivo. Cinque brani inediti che suonano sporchi e ruvidi, con tratteggi di chitarre aspre, con suoni valvolari che accendono duelli con armoniche a bocca e cantati che si impastano tra note e  melodie, alcune volte inquietanti, dove appare un hammond dorato di hard rock (ascoltare “Zabulon” e “DEmas” per capire). Ma non mancano neppure spunti da impavido cantautore, come dimostrano “Tombstone” e “Leaving Las Vegas”. Appare poi un omaggio a Bob Dylan con il rifacimento di “Jokerman”, e verso la fine della mezz’ora scarsa che addobba questo rock rurale e moderno ascoltiamo una sorta di poesia musicata dai The Gang, l’inedito “Figlio”, recitato con la consueta passione vocale di Marino Severini.

 

Storie di indiani e di guerre a noi vicini, forse per dire che il dolore resta identico. Nonostante la brevità, l’impressione è che gli Spanish Johnny abbiano tante frecce al loro arco.

 

 

Jokerjohnny I - Luciano Marcolin (DIRADIO, www.diradio.it; marzo 2006).

 

È un r’n’r contagioso quello che sprigiona dalla musica che ascoltiamo in questo mini-album. Fuorimoda, beneficamente, quando rievocano il Paisley degli ottanta, con il suo romanticismo grezzo ed innamorato del Neil Young più elettrico e strapazza cuori;  quando ci portano sui sentieri polverosi e crepuscolari del Peckimpah western. Un po’ meno quando si fanno prendere un po’ la mano dal roots di maniera. Ma non si può avere tutto.

 

Quel pugno di canzoni di questo mini d’esordio dei bresciani Spanish Johnny, con la sua nostalgia malinconica, vale mille tomi prolissi di pseudo eroi indies. Si aggiungono i Gang con un brano (Figlio). Il resto è farina del gruppo, eccetto la cover dylaniana di Jokerman.

 

 

Jokerjohnny I - Bresciaoggi (marzo 2006; Gianpaolo Laffranchi)

 

Il progetto è tanto ambizioso quanto affascinante: un tributo ai padri del rock americano, “springsteeniano” fin dal nome, profumato di suggestioni tipicamente anni ’70. Spanish Johnny, band made in Brescia dall’apertura mentale e musicale ammirevole, ha confezionato quest’anno il primo album: “JokerJohnny I”, primo capitolo della discografia composto di 7 tracce, è il naturale approdo di un percorso avviato agli inizi del 2000.

 

Il gruppo, capitanato dal batterista James Gelfi (alfiere del progressive-rock di esperienza trentennale), può far leva sulla sensibilità dei chitarristi Paolo Panteghini e Tommaso Vezzoli, del tastierista e fisarmonicista Enrico Vezzoli, del bassista Tommaso Fusco, del cantante Alessandro Ducoli (già voce e autore de Bacco Il Matto). Di notevole impatto l’apporto esterno dei Gang, per qualità, impegno e coerenza i Clash italiani. Hanno collaborato al disco anche il pianista Beppe Donadio, l’hammondista Paolo Mazzardi, la cantante Veronica Sbergia e il mandolinista Andrea Bellicini.

 

La title-track, “Spanish Johnny”, è un incipit fragoroso e orecchiabile. La lezione di Bruce Springsteen, Tom Petty e soci affini affiora nitida. Un’ispirazione inequivocabile e sentita che anima anche “Zabulon”, forte e ruvida, e “Tombstone”, folk d’impronta “knopfleriana”. Colori pieni di una bandiera sola. Non è un caso la scelta della cover: “Jokerman”, poesia in musica di Bob Dylan, è il manifesto ideale di un gruppo di appassionati specializzati, passatisti all’avanguardia felice di ripescare perle da un repertorio senza tempo. Una rilettura scarna, minimale, emozionante, prova felice di umiltà e senso della misura, alla maniera di un Beck a inizio carriera.

 

I Johnnies non esitano a osare un rock aggressivo, acuto e acuminato come piace a Neil Young o ai Pearl Jam, e sposano volentieri la causa dei più famosi “loser” della musica italiana, i fratelli Severini. Le insegne dei Gang marchiano indelebilmente il disco con il sesto brano del lotto, “Figlio”, reading che tradisce una coscienza civile che ancora palpita, nonostante tutto. “Figlio dal volto appassito/è così che impari quello che il tuo paese ora dimentica”, canta Marino Severini. “Dove comincia la discesa” scatta “Leaving Las Vegas”, ultimo omaggio a una tradizione sempre viva e sanguigna. Sarebbe un peccato, a questo punto, che “JokerJohnny I” restasse un episodio fine a se stesso. Si attendono novità per il “live”.

 

 

Jokerjohnny I - Cesare Casalini (Radio Voce Camuna; marzo 2006).

 

Mettiamo che sei musici più o meno famosi della zona decidano di incontrarsi e di unire le loro forze perché ritengono (a ragione, secondo me) che il rock’n’roll che c’è in giro sia sempre troppo poco rispetto alle esigenze di noi ascoltatori che vogliamo qualcosa di più delle “solite cose”. Ecco che allora si possono materializzare CD come questo, e spettacoli infuocati come sono i concerti degli Spanish Johnny, che è una sorta di supergruppo delle nostre lande. Visto che prendono il nome da un personaggio partorito dalla mente di Bruce Springsteen (lo “Spanish Johnny” di “Incident on 57th Street”), si può capire come l’orientamento musicale sia verso quel rock americano pieno di chitarre e armoniche a bocca che tanto andava nei ’70 e nella prima metà degli ’80.

 

Per non farsi troppo riconoscere hanno deciso di “nascondersi” dietro nomi fittizi, ma noi li smascheriamo subito. Alla voce, alla chitarra acustica e all’armonica a bocca c’è Alessandro “Cletus Cobb”Ducoli che innaffia le canzoni di whisky con quella sua caratteristica voce ruvida che ben conosciamo. Il tastierista e fisarmonicista è Enrico “Henry Dakota” Vezzoli, alle chitarre elettriche ci sono Paolo “Santiago “Ugly Boots” Lobo” Panteghini e Tommaso “Blu Dakota” Vezzoli, al basso elettrico c’è Tommaso “Geremiah “God Save The Queen” Smith” Fusco e il batterista è anche il capitano del gruppo, cioè James “Suspicious Mind O’Presley” Gelfi. Ci sono in questo disco alcune importanti collaborazioni come Veronica “Bonnie Baker” Sbergia (ricordate Garage Toys?), Andrea “Aaron Van Cleef” Bellicini (ricordate Bogartz?) al mandolino e ai cori, Paolo “Erman Lebowski” Mazzardi all’organo Hammond (ricordate Impossiblues?), oltre al pianista Beppe “Buddy Allen” Donadio.

 

E’ un rock’n’roll contagioso quello che sprigiona dalla musica che ascoltiamo in questo mini-album (poco meno di mezz’ora, ma che importa? Meglio questi piccoli brevi gioielli che tanti tediosi e lunghi CD anonimi e inutili). Quelle che Spanish Johnny raccontano sono storie ambientate su strade polverose , posti di avvoltoi, come la prima canzone che si chiama proprio “Spanish Johnny”, riflessioni sulla condizione umana di persone che dalla storia non imparano nulla (esempi ne abbiamo davanti tutti i giorni), una splendida e nervosa ballata elettrica (“Zabulon”), poi c’è “Tombstone” una grande ballata che ricorda qualcosa dei momenti più lenti di “The river” di Springsteen. Con l’unica cover dell’album gli Spanish Johnny portano “Jokerman” e il vecchio Bob Dylan a farsi un giro dalle parti del New Jersey. “Demas” è un atto d’accusa a chi pretende di insegnarci il Verbo a modo suo cercando di farlo passare come verità sacrosanta. C’è poi un clamoroso regalo che i Gang fanno agli Spanish Johnny, cioè un pezzo scritto e recitato dai fratelli Sandro e Marino Severini in persona che occorre trascrivere per capire quanto è bello.

 

Immagino l’emozione di Sandro Ducoli e compagni nel vedersi fare questo regalo dai Severini. L’ultimo pezzo è, a mio giudizio, il più bello di un mini-album di qualità musico-letteraria veramente alta. Il pezzo si chiama “Leaving Las Vegas”, con splendide chitarre acustiche ad aprire il pezzo e una grande atmosfera da sogno rock’n’roll che nell’ascoltare ci si augura che non debba finire mai. Ma non preoccupiamoci per la morte del rock’n’roll, non è oggi.

 

 

 

BROTHER K

 

Brother K: Degeneration beat  (Cesare Casalini; RadioVOcecamuna; 01/09/2006)

 

Quattro bresciani e un russo per una operazione chirurgica sulla musica.

Per un disco che viene definito come un tributo italiano a Jack Kerouac.

 

Premetto che della beat generation conosco ben poco, purtroppo, anche se quel pochissimo che conosco mi affascina assai, ma questo disco è su una buonissima strada per diventare il mio album preferito del 2006.

Le cinque teste pensanti cui ho accennato sono quanto di più godurioso si possa trovare nell’ ambito di certa musica italiana fuori dai soliti schemi, e sono Boris Savoldelli alla voce, un personaggio influenzato da gente come Mark Murphy, Demetrio Stratos, Bobby McFerrin, Sting, Paul Rodgers, Ian Gillan, e Paul Carrack, che ha studiato per anni canto lirico e che ora si occupa anche delle sperimentazioni vocali di Demetrio Stratos approfondendo tutte le sue tecniche vocali come diplofonia, triplofonia, ecc., poi abbiamo Alessandro Ducoli impegnato nella scrittura dei testi e in diversi “camei” vocali recitati.

Il tastierista è Andrej Kutov, nato in Russia oltre il Circolo Polare Artico, diplomato alla scuola di Rostov e che ha suonato, fra gli altri, con Pat Metheny. Alle chitarre c’è Andrea Bellicini (ultimamente noto anche come Van Cleef Continental), e il “compositore sperimentale” è Federico Troncatti (e qui per la sua biografia è meglio visitare il sito http://brotherk.cusipusi.com, è troppo lunga. Tra l’altro potrete anche ascoltare e scaricare l’intero album), e con la partecipazione straordinaria di Matt Murphy, che recita un brano tratto da “Subterrans” di Kerouac, e quella di Fernanda Pivano che recita un testo di Ducoli.

 

Un’operazione chirurgica, si diceva, dove ognuno mette qualcosa di suo, una parte di se stesso, e che si fonde in un fantastico incrocio tra jazz, blues, soul e rock. La voce di Boris è sempre quanto mai espressiva, con un timbro allo stesso tempo avvolgente e “destabilizzante”, non so se mi spiego, forse ascoltando capirete.

A mio parere tutto il disco è su grandissimi livelli, ma ci sono almeno cinque pezzi che vanno ben oltre la media, soprattutto il brano con cui hanno partecipato alle finali del Premio Musicultura 2006 di Recanati, “Disarmonia”, definito dagli stessi critici della manifestazione come “una prova fortemente innovativa” per “l’influenza esibita del jazz” e per la “tecnica poetica”. Sono totalmente d’accordo, per me è una canzone splendida, rara da poter ascoltare in Italia, personalmente forse mi ricorda un pochino Donald Fagen.

 

Anche “Sotterranea 1” è fantastica, un po’ reggae e un po’ blues, con quei fiati e quella vocalità di Savoldelli che la rendono davvero bella. Altro grande brano dove la fa da padrone il jazz (ma ripeto, non ce n’è uno che sia meno che bello), è “Sulla strada”, testo più Ducoli che mai e altra grande prova vocale di Savoldelli. “Maladea” è interessantissima con quelle frasi recitate a più voci che si intersecano senza una apparente logica, ma ascoltando ci si accorge che una logica c’è. Bellissima anche “Brain Strike”, jazz puro in “Punto di luce” (Ducoli che recita), mentre la chitarra “noise” di Bellicini si può sfogare in “Qui dentro 2” e così accompagnare la voce di Savoldelli che si adegua.

Infine, ancora jazz con le tastiere di Andrei Kutov in una incantevole canzone finale che s’intitola “Gennaio 1971”. I testi rivestono un’ importanza notevole, è proprio come se Ducoli si fosse trasportato nell’era di Kerouac, di Corso e di Ferlinghetti.

 

"Osservo la mia tasca, C'è una macchina che mischia la bevanda e la benzina. Gli da fuoco quando supera la linea. Ricomincia a stantuffare, lo stantuffo cerebrale. Una chiave colorata per la porta della porta. La mia chiave difettosa per la porta del cervello. Un biglietto della terra dove cresce granturco, E un biglietto per il rancio, per sapere dove andare. Per riuscire a ritornare, qui bisogna camminare. C'è una stoffa ricoperta di schifezza e di penuria Che si stacca dal mio naso. Che cammina e si dirige verso il centro della sala, senza ruote Si dirige nel sistema che mi occorre ragionare. Per sapere se si muove la pressione. Se decide della mia colorazione, quando sale, sale male. C'è una piccola manciata di monete, le più basse conosciute. Quelle subito contate e disprezzate dalle masse. C'è una penna per segnare cosa faccio se mi muovo. Le mie mosse controllate i movimenti abituati. Dai vangeli costruiti per tenere più aggiornata la memoria. C'è una piuma per volare, camminare. Con le penne consumate che ho bisogno di asciugare."

 

E’ già uno dei miei dischi favoriti del 2006. Potrebbe diventare anche il vostro.

 

Brother K - Degeneration Beat (Furio Sollazzi; MiaPavia 15/12/2004)

 

Attenzione! Sto per fare una dichiarazione con cui 'mi gioco la faccia: questo disco, se mai verrà pubblicato ufficialmente, rappresenta una tappa importante nella storia della musica rock (e non soltanto) italiana. Degeneration Beat è il giusto punto di fusione dei vari generi musicali, e non solo: è la giusta sintesi tra letteratura, musica, filosofia e storia sociale e del costume. Forse neanche chi è arrivato a tanto si rende conto di quello che ha fatto. Però, detto così, non si capisce niente.

 

Cominciamo dall'inizio (che risale a più di due anni fa): Boris Savoldelli e Alessandro Ducoli, l'uno nella parte di quello che sa, che conosce, e l'altro in quello del truce cantautore ruspante, vergine dell'argomento, si incontrano-scontrano sul movimento Beat americano (non il Beat inglese e la sua musica, ma il movimento americano di Kerouak e Ginsberg, Corso, Ferlinghetti, Burroughs) per decidere se è esistito veramente e se esiste ancora un tale movimento e in cosa consiste; e se esiste?c'è una 'via italiana al movimento beat? Il gruppo si allarga a Federico Troncatti, Andrea Bellicini e Andrei Kutov e si formano i Brother K. Nasce una sorta di Story-Book che contiene studi, riflessioni, conclusioni. La questione si espande e nascono le canzoni, le musiche, colonne sonore della storia scritta che, a sua volta, diviene didascalica per le musiche stesse. Ne parlano a Fernanda Pivano che con loro si incontra più volte, sorpresa e compiaciuta di questo riaccendersi di interesse per un periodo e un movimento che lei ha studiato, seguito e vissuto a lungo.

Vengo coinvolto anch'io come 'lettore esterno' imparziale, per dare primi giudizi e consigli. Alla fine arriva il disco: incredibile. O meglio, tanto credibile da essere impreparati ad accoglierlo. Evanescente e concreto, così come il movimento Beat, il disco incarna l'essenza stessa del movimento nella sua impossibillità di 'ingabbio' in qualsiasi schema conosciuto.

 

In un ipotetico viaggio spazio-temporale le strade vengono percorse tutte, grandi e piccole, e tutte portano in nessun luogo perché è giusto così: non ci deve essere un punto di partenza e uno di arrivo, le strade vanno solo percorse perché l'essenza è il viaggio stesso. E così i generi musicali si intrecciano, si incrociano, vengono 'percorsi' ma mai assunti o definiti. Quello che conta è l'esperienza e l'emozione; la parola stessa è un veicolo e può portare da una parte o dall'altra. L'esempio perfetto è il brano 'Io' (che vi offro in versione MP3): multivocalità sul nulla, fatta di frasi spezzate che si rincorrono come in una gigantesca partita di Scarabeo, per formare ora una frase e, poco dopo, un'altra. Il disco e lo Story-Book sono stati stampati in una serie limitatissima per critici ed amici, in attesa di trovare una pubblicazione degna. Alla realizzazione della parte musicale hanno collaborato anche Teo Marchese, Morris Peretti, Mario Stivala, Giuliano Muratori. Il grande Mark Murphy (crooner statunitense), venuto a conoscenza del progetto, ha voluto parteciparvi donando la sua voce ad un intenso 'reading' di Subterraneans. Io vengo citato come il 'colpevole' della nascita del brano 'Io'.

 

 

 

 

COLLABORAZIONI

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” (GB - www.rock-impressions.com)

 

Insanology è l’album di debutto come solista del singer Boris Savoldelli (attualmente cantante dei SADO, Società Anonima Decostruzionismi Organici), che nel suo curriculum ha già all’attivo varie collaborazioni, a partire dalla fine degli anni ’80. Ma quello che ha maggiormente caratterizzato Boris è stato lo studio del canto, che lo ha portato a fare esperienze molto importanti e il peso di tutto questo emerge con forza da questo disco.

 

Insanology è un disco sperimentale di dodici brani dove Boris con la sua voce fa tutto e solo in due tracce è accompagnato dalla chitarra di Marc Ribot (Tom Waits, John Zorn e molti altri), quindi il nostro usa la voce come uno strumento e il canto diventa l’occasione per mostrare tutta la gamma delle possibilità offerte dalla voce umana. Boris usa la voce come un mosaico, la incastra, la decompone e la ricompone, la fa diventare ritmo e melodia, prova e riprova e alla fine nascono dei brani altamente suggestivi. Detto così la cosa potrebbe “spaventare” un po’ il lettore, in realtà Boris ricerca soluzioni molto armoniche e piacevoli da ascoltare, non si tratta di vocalizzi esasperati e anche se i testi sono funzionali alle soluzioni armoniche adottate nei vari brani, l’ascoltabilità del disco è sempre molto buona. Il nostro è in possesso davvero di una grande abilità vocale e riesce a creare delle atmosfere di grande suggestione con le sue polifonie, le sovraincisioni e le ritmiche. Il jazz si mescola con i canti spiritual, con le musiche sudamericane, con quelle etniche africane, un disco dove modernità e tradizione si incontrano e si creano atmosfere altamente suggestive. La chitarra di Ribot è superlativa e i due brani in cui compare sono davvero notevoli, ma anche da solo Boris fa un gran lavoro, ascoltate la cover di “Crosstown Traffic” di Hendrix per credere.

 

Inutile aggiungere altro, Savoldelli è un artista impegnativo e appagante al tempo stesso, che mostra come l’arte possa e debba essere ricercata con soluzioni coraggiose e controcorrente.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” (GB - www.rock-impressions.com)

 

La nobiltà musicale della voce umana, pari a qualsiasi strumento, è stata già dimostrata da grandi vocalist, da Demetrio Stratos a Bobby McFerrin. Boris Savoldelli si inserisce a pieno in questa tradizione di spregiudicati sperimentatori vocali, realizzando un disco a cappella con la sola sua voce a far da leader e da coro. E mentre Alessandro Ducoli scrive i versi dal tono semiserio intrecciando italiano ed inglese con metrica che esalta il carattere ritmico dell'album, la presenza di Marc Ribot in due brani impreziosisce il lavoro. Colpisce subito il carattere assolutamente personale del lavoro, cosa affatto scontata per il primo album solista. A qualsiasi genere musicale si voglia ascrivere (se proprio non se ne può fare a meno), il disco del cantante bresciano è pura espressione di sé stesso. E questo è certo un ottimo inizio. La sincerità di scrittura, infatti, si percepisce dalla qualità emotiva dei brani, nonostante tra composizione ed esecuzione ci sia un gran lavoro d'arrangiamento. La lunga e formativa esperienza di Savoldelli permea le dodici tracce, plasmandole di volta in volta ed aiutandolo a gestire la messe di ascendenze stilistiche. Il Rock irrompe suggerendo un'illustre cover di Hendrixiana memoria (Crosstown Traffic) e, temperandosi ad un moderno feeling blues, genera Insanology che, grazie anche alla straniante chitarra di Ribot, risulta probabilmente il miglior momento dell'intero album. Ma la palma d'oro è contesa da Bluechild, che esplode tutta la potenza corale tipica del Gospel, e da Moonchurch, sorprendentemente simile alla forma del mottetto, non solo per l'aria da musica sacra, ma anche per l'utilizzo di testi differenti cantati contemporaneamente dalle diverse voci. Impressione altrettanto suggestiva fornisce In The Seventh Year, composta da Mark Murphy, con la sua armonia sospesa, e a testimonianza della mutabilità di look risponde la scanzonata Mindjoke (ancora con Ribot), dal respiro hawaiano, che delinea il tono ironico presente in gran parte del disco. Andywalker ha, invece, i tratti propri della composizione pop corale: linee vocali stratificate in basso, parti armoniche e voce principale, in un groove scandito enfatizzando i tempi pari della battuta. Nella successiva Circlecircus Boris si diverte a fare il verso, attraverso il suo apparato fonatorio, alle sonorità elettroniche (riprese poi in Crosstown Traffic), ma intreccia anche con abilità linee melodiche di moto contrario (ascendenti e discendenti). C'è anche modo di apprezzare il suo falsetto in De-toxichatefull e in Io?, che chiude il cd con un magistrale gioco di sovraincisioni e pan-pot, in cui il testo si compone pian piano nel sommarsi delle voci. Un esordio, dunque, che conquista chiunque trovi nella musica il suo naturale habitat, e chi voglia trovar nel suo habitat. Buona musica...

 

 

 

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” - Riccardo Storti (www.mentelocale.it) - 12-02-2008

 

Il disco del vocalist bresciano spazia dal jazz al rock. Melodie orecchiabili e sovraincisioni per una voce che ricorda Demetrio Stratos. Suonare la voce, cantava qualcuno anni fa. Non vogliamo in questa sede scomodare paragoni che potrebbero mettere in imbarazzo, sia l’artista, sia il paziente ascoltatore. Allora, sciogliamo per un attimo le riserve: dalle parti di Brescia c’è un vocalist capace di usare il proprio talento ugolare con maestria e creatività, Boris Savoldelli. Carneade, chi era costui? Succede sempre così, ma, prima o poi, vale la pena parlarne. E non solo perché è uscito il CD (Insanology – Mousemen 2007, distribuito da BTF).


Torniamo agli altarini da scoprire. Quando si tocca la voce nelle sue “microcosmiche” implicazioni timbrico-ritmico-armoniche, salta fuori il nome di Demetrio Stratos. Savoldelli non è Stratos. Ne è solo un appassionato. Ma è quella passione che conduce a sperimentare, attraversando febbrili traslazioni in altri mondi sonori quali il jazz (Bobby McFerrin), il rock (Ian Gillan) e il pop (dai Neri Per Caso a Renga). Il motore stratosiano libera il cantante da qualsiasi pregiudizio, lo invita a duplicarsi nel caleidoscopico mondo delle sovraincisioni. Il piglio melodico – ciò che ci fa esclamare: «È orecchiabile» – diventa il veicolo ideale per apprezzare i numerosi avatar canori espressi dalla camaleontica cifra di Savoldelli.


È un vero piacere lasciarsi trasportare dal leggero calypso di Andywalker per planare sul rap be-bop e ossessivo di Circlecircus; con la chitarra di Marc Ribot (turnista di Costello, Capossela, Sylvian, Waits, Veloso, Zorn) in Mindjoke ci fermiamo al bivio tra Africa e America Latina (sensazione avvertibile anche in De-toxic-hatefull e in Insanology).
A proposito di “crocevia”, quello hendrixiano di Crosstown Traffic si trasforma in una sorta di reductio ad…loop, affascinante e accattivante quanto basta per mettere in luce le tinte black di Savoldelli. Ma non mancano nemmeno divertissment spiazzanti come la “gregoriana” Moonchurch o In the Seventh Year (emozionante cover del cantante jazz Mark Murphy). Felice la solarità soul di Bluchild. L’omaggio al maestro della voce degli Area sa di ghost track e ha l’indefinito titolo di Io?, contraddetto dall’incessante moto circolare e verticale dei suoni vocali. Si tratta, in sostanza, di un lavoro molto rifinito che colpisce soprattutto per la ricetta comunicativa, anche laddove la sperimentazione detta legge; ci si augura che la produzione di Savoldelli esca dalla nicchia e non rimanga una voce poco fa.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” - Steve Cummings di ABC Radio Networks

 

I’ve been hearing voices lately, but it’s nothing a therapist can handle. Strange thing is, it’s the voice of one man, Boris Savoldelli, an Italian singer steeped in jazz but unafraid to incorporate other forms into his music; African, Caribbean and church music, to name a few.


In his new album “Insanology,” Boris has stacked and layered his vocal instrument to an extent that few have successfully attempted before. That doesn’t work unless you’ve got the chops to make it work. And Boris does. In this case, Savoldelli’s voice is the only instrument you will hear, with the exception of a spare amount of guitar on two of nine tracks. Even then, you get a chance to catch those two items again at the end of the disc with Boris performing on his own.


Boris penned seven of the nine tunes himself. Words were added by Alessandro Ducoli after hearing demo recordings of the songs on the album. For the other two Savoldelli turned to “Crosstown Traffic,” which Jimi Hendrix wrote for his “Electric Ladyland” album in 1969. My guess is Hendrix would have approved of this a cappella version. The second, “In the Seventh Year,” is a tune written by American jazz singmeister Mark Murphy (who has exerted a strong influence on Boris’ musicmaking) and German jazz pianist Uli Rennert. Mark offered it to Boris specifically for this album. Keep an ear on Boris Savoldelli. This is an album by a promising artist in which a heaping helping of his promise is fulfilled.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” - Massimo Marchini di www.ondarock.it

 

E' un disco veramente folle, "Insanology", a cura di Boris, musicista bresciano, interamente a cappella, cioè con la sola voce, eccetto per un paio di interventi del grande Marc Ribot alla chitarra in altrettanti brani. Dopo diverse e sparse collaborazioni, con questo cd Boris Savoldelli giunge alla sua opera prima come solista.


Dalla musica leggera al funk, al calypso, alla sperimentazione, al jazz. Personale ed eclettico l'atteggiamento di Boris verso tutte le lingue parlabili, anzi, cantabili della musica. Sorprendentemente piacevole, ricco di groove fatti dalla batteria umana della sua voce, dalla polifonia di "Moonchurch", spiazzante e di singolare bellezza, alla straniante cover dell'hendrixiana "Crosstown Traffic", qui rivisitata in chiave funk; poi un brano inedito del grande jazzista Mark Murphy, "In The Seventh Year", dalle intense emozioni corali e dai suoni bellissimi.


Boris usa la voce come un'incredibile orchestra, re-inventando ruoli e strumenti, con sorprendente lucidità e progettualità creativa. Quando come in "Bluechild" la voce viene distesa su più layer a formare un coro polifonico, il risultato toglie il fiato e sembra impossibile che tutti quei suoni provengano dalla gola di Boris.


L'unica leggera critica che possiamo muovere a un esordio così coraggioso è di indugiare troppo su vocalizzi percussivi alla McFerrin, come in "Mindjoke", un po' già sentiti al punto da rendere ovvie alcune soluzioni qua e là. Ma in generale la voce di Boris è plastica, mutante, le sue composizioni intelligenti e fresche e dove osa di più, spingendo i confini verso la sperimentazione, il risultato è straordinario, come in "Io?", vertice dell'album tra i Gentle Giant di "Free Hand" e Demetrio Stratos.


Un disco innovativo e intrigante.

 

 

Boris Savoldelli, “InsanolBRUCE LEE GALLANTER (Downtown Music Gallery, New York) - 10-01-2008

 

A truly strange solo offering featuring Boris Savoldelli on all voices with Marc Ribot guest guitarist on two tracks.
When this Boris character contacted me to see if we would be willing to give his away solo effort, I wasn't too sure what to expect. It turns out that his solo vocal disc is well fun, inventive, silly and filled with some surprises.
Starting with "Andywalker," a sort of Beach Boys-like layered vocal ditty that made me smile. It is obviously that Boris has spent a lot of time adding layers of vocal parts to these pieces and he sings in mostly in English. "Mindjoke" features some elegant, stripped-down guitar from Mr. Ribot and doo-wop vocals in Italian. It is charming and reminds me of the Four Seasons somewhat. "Moonchurch" does have some lovely chanted vocals that one might hear in a church, especially if Brian Wilson was up in the pulpit. Jimi Hendrix's "Crosstown Traffic" gets an interesting funkified rendition makes one want to get down. I dig the way Boris uses his voice(s) orchestrally, adding layers of lush harmonies and tweaking his voice with subtle effects. Ribot again plays some exquisite, skeletal guitar on the title piece and then hits some fine blues-drenched notes mid-song, wailing away with that great sustain tone. "Bluechild" features rich layers of angelic vocal harmonies and "Io?" consists of more lush layers of various vocal parts sung in Latin and in hypnotic counterpoint. While this disc may not be as experimental as some of discs we usually offer, I am still mighty impressed by the crafty use of Boris' many voices. And the price is certainly right.

 

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Loris Furlan, www.ilmucchio.it (sezione FDM)

 

Che la voce potesse assumere la valenza espressiva di uno strumento, e non di convenzionale asservimento alla parola, lo sapevamo da tempo, grazie alla sperimentazione di importanti vocalist del passato e del presente.  Eppure ci sorprende ancora un lavoro discografico come quello di Boris Savoldelli, in cui lo strumento-voce sa coniugare, con estrosa  efficacia, un lungo e importante bagaglio di studi  e ricerca ad una godibilissima dimensione canzone. Capiamoci: “Insanalogy”, primo disco solista del cantante bresciano dopo svariate collaborazioni, si discosta decisamente dalle radicali esplorazioni e sfide vocali di un Demetrio Stratos, tuttavia condividendone il fervore di ricerca, sintonizzandosi piuttosto su calde interpretazioni  più affini a Bobby McFerrin o al suo maestro dichiarato (ed effettivo in occasione di un stage austriaco) Mark Murphy.  Dodici brani di sola voce, mirabilmente  assemblata, sovrapposta col supporto di un looper, salvo l’ottimale presenza in “Mindjoke” e “Insanology” del rinomato chitarrista Marc Ribot, a reggere uno stupefacente filo creativo, ricco di suggestioni, cromatismi, tra delizie swing, soul, rielaborazioni reggae e spiritual, sensuali divagazioni calypso.  C’è posto anche per una meravigliosa versione della hendrixiana “Crosstown traffic”,  sempre affine allo stile consolidato nell’intero album. Poi, infine, ci si accorge che da qualche parte ci sono pure delle parole: inglesi, italiane, non banali né casuali, ma pare un dettaglio quasi insignificante al cospetto della magia di tanta caleidoscopica vocalità e musicalità, e questo è forse il complimento migliore..

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Maurizio Matteotti, Ottopiù Spettacoli, 5 gennai 2008

 

Tutto con la voce. Quando un talento ti nasce a pochi chilometri da casa…Boris Savoldelli è un cantante che ha orbitato nell’area camuno-sebina, ma ch’è anche riuscito a far arrivare la propria voce a New York. E Mark Murphy (il jazz singer che può vantare 6 nomination ai Grammy) lo ha definito uno dei grandi, non ancora scoperti interpreti di un superbo modo di cantare; ammirazione testimoniata dal regalo di un inedito, “In the seventh year”. Ed anche Marc Ribot (già con Tom Waits e Elvis Costello) si è messo a disposizione, per impreziosire con la sua chitarra due brani di un album – l’esordio di Savoldelli – per il resto tutto costruito proprio con la voce (grazie alle sovraincisioni e all’ausilio di un looper).


La tecnica non è nuova (basti pensare a Bobby McFerrin). Ma Boris la reinterpreta con quell’eclettismo che lo aveva contraddistinto nelle epserienze fatte con gruppi (dal rock degli ultimatum al rock-funk sperimentale dei Kamakiriad all’ancora più ampio spettro dei Brother K). E – assecondato per i testi da Alessandro Ducoli (che, aldilà di frasi-flash da epater le bourgeois, mostra notevole attitudine eufonica) – si muove tra scat, jazz, soul, funk, swing…ma anche tra calypso e rap, sino ad un unire, in “Moonchurch”, echi di basilica e cori alpini.


Si respirano, insieme, una punta di follia (del resto, il cd non si intitola “Insanology”?) e la serietà del lavoro svolto. E, aldilà della curiosità, alcuni brani – a cominciare da “Mindjoke”, dalla title-track, dalla cover dell’hendrixiana “Crosstown Traffic” si impongo per quello che valgono in sé.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Enrico Ramunni, Rockerilla 15 dicembre 2007

 

Con tecnica solidissima ed immaginazione da vendere, questo allievo del grande Mark Murphy mette in scena un'operazione che non è di tutti i giorni: realizzare un album con la nuda voce sovraincisa su più piste, con l'ausilio di un looper per le parti ritmiche, aggiungendovi solamente l'idiosincratica chitarra di Marc Ribot in due pezzi. Se a questo punto avete in mente le ricerche di Demetrio Stratos siete fuori strada, perché Insanology swinga di bestia, passando dal jazz di Lambert, Hendricks & Ross al calypso e piazzando come ciliegina sulla torta una versione di "Crosstown Traffic" da far suonare a festa le campane di tutta Ladyland. Sperimentale nel procedimento e godibilissimo negli esiti, questo CD metterà d'accordo tutti i vostri conoscenti.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  www.movimentiPROG.net

 

L'esordio solista di questo giovane "maestro della voce". State cercando un nuovo grande talento della musica italiana? Eccolo qui: Boris Savoldelli, classe 1970, origini bresciane, curriculum di lusso ma soprattutto una voce grande così. Eccellente il suo nuovo album solista "Insanology": c'è solo Boris, con la sua voce, e una loop machine che gli consente di sviluppare nel migliore dei modi la sua idea "mantrica". Riagganciandosi un po' allo studio iterativo della minimal musica americana (Riley, Young, Reich), Boris concentra la sua attenzione su alcune cellule vocali, che con l'ausilio del looper vengono sviluppate come cerchi concentrici, creando un vero e proprio "sistema organico" al centro del quale la voce funge da motore propulsivo.

 

 Un progetto del genere non passa inosservato e piace molto a due grandi: il jazz vocalist Mark Murphy si accorge di questo grande talento e gli regala un ottimo inedito dal titolo "In the seventh year", il grande Marc Ribot (Lounge Lizard, Tom Waits, John Zorn etc.) non resiste e infila la sua chitarra in "Mindjoke" e nella focosa title-track... Partendo dagli studi stratosiani e dall'attività di Bobby McFerrin, senza dimenticare la lezione di leggendari rock vocalists come Ian Gillan e Paul Rodgers, Boris tira fuori dalle sue corde vocali un lavoro eccitante, un esperimento che ha nell'esigenza comunicativa, nella relazionalità con l'ascoltatore, il suo punto di forza (particolari i testi di Alessandro Ducoli).

 

Ci sono verve e ironia in "Andywalker" e "De-toxic-hatefull", un festival di colori e profumi caraibici e latinoamericani che rimanda alla ricchezza e al groove di vocal bands come i Manhattan Transfer ma anche a formazioni come Weather Report e Living Colour. Tanto per indicare alcuni punti chiave del disco, basta ascoltare le ritmiche di "Circlecircus" oppure l'idea "gregoriana" di "Moonchurch" e la passionalità di "Bluechild", e la cover dell'hendrixiana "Crosstown traffic" per capire l'anima funk di Boris. Come un solo uomo può diventare una piccola, gioiosa e trascinante orchestra. Un formidabile debutto solista.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Marco Del Corno - www.arlequins.it - 04-12-2007

 

Ho conosciuto Boris grazie a Sandro Marinoni (già sax negli Arcansiel e oggi mente dei S.A.D.O. insieme a Paolo Baltaro) durante una serata fredda dello scorso giugno. La prima impressione fu quella di una persona di grande profondità sia umana che musicale, con una predisposizione naturale per la sperimentazione. Boris oltre a produrre lavori solisti, proprio a seguito della collaborazione con Sandro si è unito al folle progetto S.A.D.O. diventandone l’elemento vocale. E’ proprio la ricerca e la sperimentazione sullo strumento musicale più naturale -la voce- che rende il progetto di Boris molto interessante. “Insanology” infatti va sicuramente in questa direzione musicale, e pur essendo abbastanza fruibile, risulta sufficientemente complicato e sperimentale da incuriosire l’ascoltatore di prog. Partendo dall’esperienza musicale di Bobby McFerrin, attraverso certo jazz, ma anche inconsapevolmente influenzato dagli intrecci vocali di Yes e soprattutto Gentle Giant (che Boris dovrebbe assolutamente ascoltare!), il nostro ci propone 11 squisiti brani, in cui l’unico strumento musicale è la voce (tranne in due brani che vedono ospite alla chitarra Marc Ribot – Lounge Lizards, John Zorn, Tom Waits, e Jazz Passengers -). La tecnica utilizzata è quella di creare intrecci canori, con ritmiche vocali in loop (che viste dal vivo fanno letteralmente venire i brividi), per generare tappeti sonori circolari, mentre la voce solista produce liriche alternate in inglese e italiano (scritte a due mani con Alessandro Ducoli). Il tutto dà vita ad atmosfere di grande impatto emotivo muovendosi liberamente in diversi stati, dall’intimistico a letterali esplosioni di gioia. In questo senso l’opener “Andywalker” è un buon esempio, con il suo loop quasi ossessivo e una linea vocale molto accattivante, tuttavia sono i successivi brani “Circlecircus” e “Mindjoke” (con una stupenda chitarra acustica del citato Marc Ribot) che catturano maggiormente l’attenzione e fungono da ponte verso la parte forse più sperimentale del cd. “Moonchurch” (che dal vivo è davvero splendida - e me ne rendo conto solo adesso) è una traccia, nella sua relativa brevità, davvero affascinante e, oserei dire, commovente. Poi ci si tuffa nel ritmo ossessivo di “Crosstown traffic” (cover dell’omonimo brano di Jimi Hendrix) e nella gioia esplosiva di “De-toxic-hatefull” che ricorda fortemente certi Yes. La successiva “In the seventh year” (di Mark Murphy e Uli Rennert) è, con le sue linee blues, il brano più jazz del lotto, mentre “Insanology” è di nuovo un breve momento molto ritmato, impreziosito dalla chitarra elettrica di Marc Ribot. Bluechild” è un blues struggente e molto evocativo che secondo le note di copertina dovrebbe chiudere il cd; in realtà tre brani aggiuntivi seguono. Le versioni di “Mindjoke” e “Insanology” senza chitarra, mettono in grande luce il lavoro di Boris sulla voce che, con la tecnica di salto di ottava, sembra creare contrappunti infiniti tra i cori di sostegno, la ritmica e la parte solista. Questo, a mio avviso, diventa lampante nella traccia che preferisco “Io?”, in puro stile Gentle Giant. In conclusione, “Insanology” è un cd particolare, che probabilmente interesserà una ristretta cerchia di persone, ma – e qui andrebbe aperta una discussione che non possiamo affrontare esaurientemente in poche parole – che dimostra come la scena musicale italiana, anche quella per così dire più sanremesca (e scusate la parolaccia) dovrebbe prestare attenzione ad artisti di estremo valore come Boris Savoldelli. Io vi consiglio di visitare il sito di Boris (http://www.borisinger.eu) e di provare ad ascoltare qualcosa…
probabilmente subito dopo vorrete acquistare il cd.

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Furio Sollazzi - www.miapavia.it - 03-12-2007

 

La pazzia di Boris è quella di Orlando innamorato, è la passione che prende il sopravvento sulla ragione, è l’afflato compositivo, la ricerca continua ed ossessiva, l’impossibile reso possibile; per amore si fa questo ed altro. Ed è l’amore estremo per la musica, per il canto, che l’ha spinto a sperimentare, ad osare, a spingersi oltre. Insanologyè tutto questo…ed anche di più! E’ un’antologia di insanità mentali applicate alla musica: solo un pazzo si metterebbe a fare tutto un disco con l’unico aiuto della propria voce. Ma non è stato il primo, e neanche l’ultimo. Da Roy Wood (degli ELO) ad Harry Nilsson, a Demetrio Stratos, per arrivare sino a Bobby McFerrin, una lunga teoria di “pazzi” si è cimentata in questo esercizio insano.


Nell’estate del 2006 Boris Savoldelli (crooner, studioso della voce, ve ne ho parlato più volte, e anche quest’anno sarà ospite al Lennon Memorial Concert) inizia la composizione di quello che sarà il suo primo album solista, un progetto sperimentale di sola voce dal titolo Insanology, prodotto da Paolo Filippi presso il Cavò Studio, interamente realizzato con la propria voce, senza strumenti aggiuntivi, e con l’ausilio di un looper (un campionatore vocale multi traccia).

 

Il lavoro si basa, per la composizione delle canzoni, su un’idea mantrica” dei brani, dove la ripetizione continua di brevi porzioni armoniche e ritmiche, sovrapposte le une alle altre creano il brano. Per la parte lirica del progetto si è avvalso della collaborazione di Alessandro Ducoli che firma tutti i testi dell’album. Dopo avere sentito alcuni provini del progetto, Mark Murphy (grande coroner statunitense e mentore di Boris) ha deciso di regalare un suo brano inedito dal titolo "In the seventh year" che è stato riarrangiato per sole voci dal compositore Federico Troncatti. Inoltre il chitarrista Newyorkese Marc Ribot ha partecipato alla registrazione di due brani: Mindjoke e Insanology. Questa però va raccontata. Boris (e qui si dimostra che è un pazzo) da sempre ammiratore di Ribot, gli scrive dicendogli che il suo sogno sarebbe averlo ospite nel suo disco. Il manager del chitarrista risponde che “ mr.Ribot non incide dischi a pagamento, ma sarà lieto di ascoltare i brani.”. Dopo poco tempo arriva una seconda lettera, questa volta di Ribot che dice di aver ascoltato l’album e che gli è piaciuto e vorrebbe fare degli interventi in due brani in particolare; e così, oltre alla voce di Boris, l’unico altro strumento che compare nell’intero album e la chitarra di Marc.


Difficile e complesso da realizzare, incredibile da progettare, Insanology è un disco godibilissimo da scoltare: un perfetto esempio di semplicità complicata. Sono, a tutti gli effetti, canzoni e, dopo pochi attimi, ci si può dimenticare che tutto è realizzato da una voce sola e godersi la musica, come in un qualsiasi altro disco. Bluechild (di Ducoli) e Crosstown Traffic (di Hendrix) sono, insieme a In the seventh year (di Murphy), gli unici tre brani non partoriti dai deliri di Boris. “Io?”, invece, è il nucleo generativo della “pazzia”. Concepita per l’album precedente (un concept dal titolo Degeneration Beat), è nata da una mia malsana idea, avendolo sfidato a sviluppare la canzone per sola voce. Se già amava giocare con il campionatore vocale, da quel momento il novello Orlando/Boris è stato preso da pazzia amorosa.

E meno male, visti i risultati. Un album splendido.

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Il Panes - www.debaser.it- 30-11-2007

 

Quando si dice che in Italia non c'è sperimentazione in musica, che non esiste un sottosuolo musicale all'altezza dei paesi stranieri, in realtà si sta dicendo una gran baggianata... Chi parla in questo modo guarda evidentemente alla sola Italia musicale che viene promossa nel circuito mainstream, all'Italia di Sanremo, della Pausini e di Nek. Altrettanto evidentemente queste persone sono convinte che l'underground italiano sia composto solamente da band di studenti che suonano cover metal alle feste della birra. L'Italia invece è piena di arte musicale, di sperimentazioni e percorsi personali davvero interessanti (per rendersene conto è sufficiente farsi un giro su MySpace). Boris Savoldelli si inserisce perfettamente in quella cerchia di artisti che, con la famosa gavetta, si sono creati un linguaggio originale lontano dagli standard della canzonetta italica.
"Insanology", il suo primo album solista dopo anni di progetti sperimentali tra i più disparati, si presenta come un disco unico già a partire dall'idea di partenza. Le 12 tracce che lo compongono sono infatti realizzate con il solo utilizzo della voce, che, con l'aiuto di una looper-machine, crea basi ritmiche, effetti, parti strumentali, canti e controcanti. Anche la struttura dei brani è diversa dal solito, non necessariamente legata al classico sviluppo strofa/ritornello, ma più libera, partendo dall'idea ciclica propria del loop. La cosa che più colpisce di "Insanology" è però l'eccezionale freschezza che, nonostante tanta sperimentazione, riesce a mantenere l'insieme. L'album risulta infatti incredibilmente scorrevole e la concettualità di base non va a intaccare la piacevolezza del prodotto. Insomma, Boris ha sondato le possibilità della sua voce tenendo però sempre presente lo scopo finale della musica: l'intrattenimento. Ed è intrattenimento (divertimento) allo stato puro quando gioca con le atmosfere caraibiche delle riuscitissime "Mindjoke" e "Insanology", in duetto tra l'altro con la chitarra del grande Marc Ribot (Thom Waits, Elvis Costello), unico strumento presente nel disco Secondo il mio parere comunque, è quando mette da parte il gioco che Boris raggiunge le punte massime del suo progetto: nell'emozionante gospel "Bluechild", e soprattutto nelle atmosfere sospese di "In The Seventh Year", il capolavoro del disco, un intenso brano firmato dalla leggenda del jazz newyorkese Mark Murphy. E' proprio con una frase di Murphy, presente sulle note di copertina, che mi sembra doveroso chiudere questa recensione, a dimostrazione che la scena musicale italiana contiene molto più di quanto si possa credere: "Boris is one of the great undiscovered proponents of simply superb singing and this cd proves it..."

 

 

Boris Savoldelli, “Insanology” -  Cesare Casalini - www.vocecamuna.it - 25-11-2007

 

Non un disco da usare come sottofondo. Non un disco da autostrada. Non un disco facile. E’ un album da sorseggiarsi con calma, da ascolto intenso ed appassionato. Dopo l’esperienza con i Brother K, il Boris Savoldelli ha sentito l’esigenza di sviluppare ancora di più quella ricerca sui suoni della voce che da anni lo sta impegnando.

Il risultato è “Insanology”, un album con 12 pezzi ognuno dei quali ha la sua brava particolarità (e già questo è un punto a favore dell’artista che se la gioca sull’acappella). L’unico strumento presente nel disco è la chitarra di Marc Ribot (!) in due pezzi, due versioni di “Mindjoke” (dal ritmo calypso), dove ci si può immaginare in una spiaggia cubana, e di “Insanology”, la title-track. Ma diversi sono i pezzi degni di nota dell’album. In “Moonchurch” la mia prima impressione è stata quella di trovarmi davanti ad un coro alpino, mentre in “De-Toxic-Hatefull” Boris sembra incontrare Bobby McFerrin.
“In the seventh year” (scritta da Mark Murphy ed Eli Rennert) sembra un Bing Crosby proiettato nel 2007, bella anche la poetica “Bluechild”. E’ inoltre presente anche una particolarissima versione di “Crosstown traffic”, proprio il classico di Jimi Hendrix.

Il disco è stato registrato, arrangiato ed editato al Cavò Studio di Azano San Paolo dal mitico Paolo Filippi, invece le tracce di chitarra di Marc Ribot vengono dal Greenpoint Sound Studio di New York e da Francois Lardeau. Da notare anche che i testi in italiano sono stati scritti dal sempiterno Alessandro Ducoli. Disco assolutamente da “provare”.

 

 

MANE', "Cromo inverso" (Gmd)- Fabio Zamboni (Alto Adige)

 

A volte ritornano. L'arte del rock, la  sua capacità di riciclarsi, sa rilanciare sé stessa anche quando attinge a un'era non proprio memorabile come quella degli anni Ottanta. Come  nel caso di Manè, nome d'arte del cantautore bresciano Pierangelo Manenti, che nel suo "Cromo inverso" attinge ai suoni con cui è cresciuto capace però di rinnovarli con un progetto elettropop piuttosto raffinato e per nulla in sospetto di puro revival. La musica dance di quegli anni mantiene appunto la sua forza di far muovere  i piedi ma  -  affidata com'è a testi originali e a un lavoro in studio che privilegia chitarre affilate, voci acute,    tappeti di tastiere mai scontati, percussioni elettroniche come colpi di frusta -  offre un prodotto molto attuale. Suoni e una voglia di anni Ottanta che troviamo ad esempio  anche in  band più giovani e modaiole come i Delta V e il loro ultimo album, senza voler arrivare a punte di creatività chiamate Subsonica. Fra gli otto brani di "Cromo inverso"  segnaleremmo soprattutto "Nereide" e il suo ritornello vincente, e poi i lenti "Onirica" e "Maria Bambina", brani con cui Anna Oxa avrebbe vinto il Festival di Sanremo anziché rimediare una figuraccia come quest'anno. Per restare nel campo delle citazioni, la voce ci ricorda quella estetizzante di Mango e il suo pop raffinato. Merito della musica ma anche dei testi, che in gran parte portano la firma di Alessandro Ducoli, lo Springsteen della Val Camonica. Il filo rosso è la voglia d'amore, coniugata però sempre in modo non banale. Un disco facile solo in apparenza, un lavoro che richiede e merita ripetuti ascolti per cogliere tutte le raffinatezze che racchiude.

 

 

MANE', "Cromo inverso" (Gmd)- Salvatore Esposito (Black Wave Records)

 

Cromo Inverso è un progetto musicale che nasce dall'incontro di Mané e Valerio Gaffurini con il cantautore camuno Alessandro Ducoli, ovvero tre persone diverse, tre personalità diverse ma con un unico fine da conseguire, un grande disco. Mané, questo il titolo del disco, è la realizzazione del cammino fatto insieme dai tre musicisti che hanno tentato di far confluire sonorità progressive e new wave in un rock dai tratti colti in cui lo spleen dei Fiori Del Male va a braccetto con i testi introspettivi tipici dello stile di Ducoli. Il disco composto da otto brani più una bonus track, si caratterizza come un viaggio onirico in cui poesia, rock e suggestioni prog avvolgono l'ascoltatore fin dalle prime note. Si parte con Immagine, il brano cardine di tutto il progetto in cui batterie elettroniche e le chitarre di Gaffurini fanno da sfondo ad un testo magnificamente interpretato dal falsetto di Mané che arriva a toccare vertici di grande intensità lirica. Meno interessante è il successivo brano Numero Uno, tesa e per certi versi fuori fuoco tanto che subito dopo ad affondarla arriva Le Fleur Et Le Mal, un brano di rara intensità in cui sprazzi elettrici e beat elettronici incorniciano un testo magnifico. Seguono la toccante Nereide e la sognante poesia di Per te, due brani dal grande impatto emotivo in cui protagonista è ancora il falsetto di Mané abilmente supportato da cori che compaiono e scompaiono creando alchimie vocali e sonore elegantissime. Si passa poi ad atmosfere più sincopate con Onirica, la cui linea melodica riconduce alle ultime produzioni in studio della PFM con tanto di archi e di ritornello ad uncino che rapisce l'ascoltatore con tutto il suo trascinante mood radiofonico per nulla banale per altro. Chiudono il disco Maria Bambina e la title track, entrambe completano alla perfezione un disco dal fascino innegabile a cui toglie qualche margine di eccellenza solo la presenza di qualche piccola caduta. Un disco che piacerà sicuramente agli appassionati di musica prog e non solo, speriamo solo non sia un episodio unico ma che Cromo Inverso cresca e diventi davvero un progetto a lungo termine.

 

 

 

e.

 

 

 

 

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