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COMUNCIATO STAMPA
2007 Lorenzo Tiezzi lt@lorenzotiezzi.it +393393433962 Ducoli: "Brumantica" (Double Stroke
Records - distribuzione: Family Affair) Ducoli parla (e canta). Tavolazzi, Bandini, Bosso e Galati improvvisano.
E' "Brumantica', disco 'territoriale', sospeso tra nebbie della Val
Camonica, jazz italiano e folk rock
americano Ducoli è un cantautore atipico. Ad esempio, è musicista, ma come capita
raramente agli artisti italiani, è anche grande ascoltatore di musica e la
sua collezione di folk rock americano arriva a 3.000 titoli. Per questo, tra i suoi riferimenti cita Neil Young e
Hank Williams e solo dopo Conte e De Andrè. Per capire come mai il gotha del jazz italiano sia rimasto affascinatio
dalle canzoni che ha scritto col chitarrista Mauro Stivala, non c'è neppure
bisogno di inserire il cd nel lettore. Basta aprire la confezione e leggere
la non-presentazione che l'artista ha voluto scrivere al posto delle consuete
(e noiose) note di copertina, al posto delle liriche dei brani, liriche che
invece si è 'costretti' a far entrare in testa ascolto dopo ascolto. Ecco cosa scrive, ad esempio, di
"Tutta colpa sua": "Gli alberi sono città. Città e capitali. Sono infiniti circuiti
di razze, di piazze, di strade, stazioni, binari. Di attese infinite di noi
pendolari. Tu puoi tenere il giardino. Tieniti il mio davanzale. Tieni la mia
collezione di scatole vuote. La piccola scala che apre la nostra finestra sul
tetto. Ti lascio il camino. Ti lascio la vasca dei miei pesci rossi. Ti
lascio la gabbia del mio canarino. Prenditi tutta la casa. Prenditi tutte le
cose. Adesso pago l'affitto agli gnomi. Adesso che vivo e divido lo spazio e
la mia collezione con altri abitanti (...)". "Brumantica", è stato arrangiato dal pianista Alessandro
Galati e suonato tra gli altri da Ellade Bandini (batteria), Fabrizio Bosso
(tromba), Ares Tavolazzi (basso), ossia da alcuni dei più importanti jazzisti
italiani. Un disco importante, a metà tra cantautorato e jazz, tra sperimentazione
e piacere d'ascolto. “Brumantica”: tra
boschi, fiumi e assoli "Brumantica" è un disco 'territoriale', come dice Ducoli,
ossia precisamente collocato nello spazio (e assai poco nel tempo,
probabilmente). Il dove è il nord, il fiume, la nebbia, anzi la bruma, la
luce che d'inverno si abbassa subito e lascia spazio a sere che sfociano in
notti i cui protagonisti non siamo noi, ma i tanti animali che abitano la
radura e la foresta. "Brumantica" è un disco intimo, grazie all'arrangiamento per 'quartetto jazz' più
voce solista. Ma, ecco un'altra caratteristica originale, non è un disco
triste. “Di cantanti che si piangono addosso è pieno il mondo” dice Ducoli. E
se non bastasse, la nebbia è attraversata dal groove e dallo swing della
musica. La title track d'apertura ha un ritmo travolgente e un giro di basso
che mette voglia di ballare. "Un piede nella fossa, quell'altro sulla
vanga" è altrettanto movimentata, ma l’apice dello swing arriva con
"Tutta colpa sua", brano che Ducoli 'canta' in modo più ortodosso del solito. Ma lo fa
attraverso un megafono, per cui l'effetto ‘fuori – tempo’ è garantito. Il
disco si chiude "Maddaluna", struggente ballata suonata a base di
hammond e tamburi e con una non-cover de "La canzone di Marinella"
di Fabrizio De Andrè. Ducoli cita un verso della canzone, poi il gruppo
improvvisa sulla melodia del brano. Il risultato è struggente, ma anche in
questo caso, la malinconia non resta sospesa, esplode e si espande. Riassumendo, "Brumantica" può piacere agli appassionati di
jazz ma anche a chi ama solo i cantautori. La forma canzone, nel disco, è
sempre rispettata e le liriche di Ducoli restano protagoniste assolute. Ma lo
sono insieme all'improvvisazione, presente sempre e in ogni brano, insieme a
una ricchezza sonora non comune. E' il suono del produttore Paolo Filippi, del suo Cavò Studio (Bg) www.cavostudio.com, lo
spazio in cui la label Double Stroke Records sta confezionando piccoli e grandi capolavori,
soprattutto in ambito jazz. CHI E' DUCOLI 35enne o giù di lì, Ducoli arriva a "Brumantica", dopo un
percorso musicale lungo e variegato.
Ad esempio, ancora oggi non interrompe le sue 'scorribande rock' con
My Uncle the Dog e Spanish Johnny. Mentre con "Taverne, stamberghe,
caverne" (2003), cd della sua "Banda del Ducoli" è stato
finalista al Premio Recanati (2004) e al Festival di Mantova. Ancora più
recentemente, con "Degeneration beat", omaggio alla "prosa
spontanea” e a Jack Kerouac realizzato con i Brother K e Mark Murphy, è
stato, ancora, finalista al Premio Città di Recanati /edizione 2006). Ducoli
per professione conosce più alberi e animali del bosco che le 'tendenze
metropolitane'. E' laureato in scienze forestali e 'Istruttore Direttivo
Tecnico' del Parco dell'Adamello, ossia passa più tempo all'aperto che tra
quattro mura. I MUSICISTI
COINVOLTI NEL PROGETTO ALESSANDRO GALATI (piano e arrangiamenti) www.alessandrogalati.com Nato a Firenze nel 1966, si dedica agli studi classici e
contemporaneamente al jazz col maestro Bruno Tommaso. Dopo essersi esibito in
numerosi club e festival in tutto il mondo, Galati inizia a pubblicare album
con regolarità. Ad esempio, nel 1995 pubblica Traction Avant, nel 1997 Jason
Salad, mentre nel 1999 esce Europhilia (il seguito del disco fu poi
commissionato dal comune di Sesto Fiorentino e dedicato all’European United
Nations). Sin dal 1988, Galati insegna piano e jazz combo all’accademia
musicale di Firenze e al Centro attività Musicali. Galati ha poi collaborato
con infiniti altri jazzisti, tra cui citiamo almeno Steve Lacy, Kenny
Wheeler, Lee Konitz, e Bob Sheppard. ELLADE BANDINI (batteria) … Tanto creativo nel generare nuove idee nello spettacolo, quanto
robusto nel portare il groove. Ma lui il groove lo ha portato nei dischi più
famosi della musica italiana, da De André a Mina, passando per più di
quattrocento celebri incisioni. Ellade suona il pop con una grande
personalità, ma è anche un jazzista vecchia maniera, uno di quelli che danno
del tu al piatto e che sanno far suonare le spazzole anche su un pezzo di
ferro… Ellade Bandini nasce a Ferrara il
17/07/46. All’età di 4 anni, come regalo di Natale, riceve una piccola
batteria giocattolo, dalla quale viene sedotto in modo totale e definitivo. A
15 anni prende alcune sporadiche lezioni presso il Maestro Roul Ferretti, mentre a 16 già in
pedana guardando il batterista Giorgio Zanella cerca di assimilare i
principali trucchi del mestiere. A 17 anni inizia con le orchestre
professioniste (Ugo Orsatti, Janos D’Este) nelle sale da ballo e night club
di tutta Italia, ricevendo da questo lavoro, da lui ritenuto da sempre la
migliore palestra per un musicista, benefici inesauribili suonando dalle nove
di sera, a volte, fino alle sei del mattino senza pause! Nel '65 con alcuni
amici, tra i quali Ares Tavolazzi al basso con il quale già suonava con
l’orchestra di Ugo Orsatti, forma il complesso “The Avengers” che diventerà
poi il gruppo personale di Carmen Villani. Nel '68 il caso lo porterà ad
incontrare Vince Tempera, dando inizio, grazie a lui, ad un lungo lavoro in
sala di registrazione che lo vede fino ad oggi presente in oltre ARES TAVOLAZZI (contrabbasso) Ares Tavolazzi è un contrabbassista jazz
italiano. Studia violoncello e contrabbasso al Conservatorio di Ferrara. Nel
1969 inizia a lavorare come sessionman nelle sale di registrazione milanesi
incidendo dischi di musica pop con artisti diversi quali: Paolo Conte,
Francesco Guccini, Mina, Eugenio Finardi, Lucio Battisti ed altri. Dal 1973
al 1983 fa parte del gruppo storico d'avanguardia AREA insieme a Demetrio
Stratos, Patrizio Fariselli e Giulio Capiozzo, registrando con il gruppo
oltre 10 LP e partecipando a numerose manifestazioni anche internazionali.
Nel medesimo periodo si avvicina alla musica jazz, frequentando l'ambiente
jazzistico di New York. Nel 1982 partecipa al tour italiano dell'orchestra di
Gil Evans, con Steve Lacy e Pietro Tonolo. Per tre anni consecutivi (dal 1984
al 1986) è primo in una speciale classifica dei bassisti italiani indetta da
Guitar Club. Nel 1987 vince il premio A. Willaert come migliore musicista
dell'anno. Dal 1990 ad oggi collabora in concerti live e registrazioni
discografiche con numerosi musicisti italiani e stranieri, tra i quali: Sal Nistico,
Max Roach, Lee Konitz, Phil Woods, Mau Mau, Massimo Urbani, Enrico Rava,
Stefano Bollani, Franco D'Andrea, Dado Moroni, Ermanno Maria Signorelli,
Enrico Pierannunzi, Roberto Gatto, Danilo Rea, Mike Melillo, Ray Mantilla,
Carlo Atti, Paolo Fresu, Tino Tracanna, Gianni Basso, Gianluca Petrella e
molti altri. Collabora negli anni a diversi lavori teatrali componendo e
suonando dal vivo (di recente Ruth e Il Cantico dei Cantici per FABRIZIO BOSSO (tromba) www.fabriziobosso.com Nato a Torino nel 1973 è uno dei più noti ‘giovani talenti’ del jazz
italiano ed è ormai session man affermato in tutto il mondo. Il suo è un
suono originalissimo che tocca il jazz tradizionale, l’hard e il be bop e poi
sfocia in forza, freschezza, lirismo.Dal
1994 svolge un'intensa attività
di free lance collaborando, e incidendo come sideman, con
vari musicisti fra cui: Gianni Basso, Paolo Di Sabatino, Riccardo Zegna,
Enrico Pieranunzi, Maurizio Giammarco, Massimo Moriconi, Emanuele Cisi,
Gabriele Mirabassi, Mario Negri, Gegè Telesforo, Claudio Baglioni, Stefano Di
Battista, Pietro Condorelli, Roberto Gatto, Sandro Gibellini, Marcello Rosa,
Flavio Boltro, Tullio De Piscopo, Piero Odorici, Slide Hampton, Randy
Brecker, Bob Mintzer, Irio De Paula, Hein Van De Geyn, Steve Lacy e numerosi
altri. Nel corso della sua attività di Free Lance Artist Fabrizio Bosso ha
suonato in diversi contesti nei seguenti paesi: Francia, Germania, Finlandia,
Etiopia, Kenya, Tunisia, Arabia, Tunisia,
Stati Uniti, e al Festival do
Jazz a Cuba. Al disco hanno partecipato anche: MARIO STIVALA (chitarra), SANDRO
GIBELLINI (chitarra), TINO TRACANNA (sax), Paolo Filippi (contrabbasso), Teo
Marchese (batteria). CARTELLA STAMPA
1997-2007 DUCOLI Brumantica – Salvatore
Esposito (www.bielle.org; dicembre 2007) Alessandro Ducoli
è uno dei più prolifici cantautori italiani della nuova generazione. Non si
contano quasi più i suoi dischi, le sue collaborazioni e i suoi side-project,
tuttavia i maggiori consensi li ha ottenuti con Nonostante i
tanti progetti paralleli e le band create, ha sempre mantenuto viva la sua
carriera come solista di cui si ricorda Lolita (che sarà presto ristampato in una doppia versione). Il suo nuovo
album come solista, "Brumantica", è senza dubbio il lavoro migliore fin qui prodotto da Alessandro
Ducoli, e questo non solo per la presenza di un grande cast di musicisti
(Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi alla basso, Fabrizio Bosso alla
tromba, Tino Tracanna al sax, Sandro Gibellini alle chitarre, e Alessandro
Galati alle tastiere) ma per l’ottima qualità delle composizioni. Si spazia
da influenze che partono da Tom Waits per incontrarsi con Roberto Vecchioni e
Paolo Conte, il tutto condito da sane atmosfere jazzate. n vestito splendido
insomma per canzoni che raccontano la scienza che studia le nebbie del fiume,
ovvero la "Brumantica". E chi meglio di Ducoli poteva raccontarci questa scienza, essendo lui
un esperto di scienze naturali e forestali. Le canzoni di questo disco,
dipingono atmosfere autunnali, intimiste con tratti malinconici pieni di nostalgia.
La consistenza del disco la si percepisce ascoltando l’ultimo brano, una
splendida resa jazz de Brumantica – Andrea Rossi
(www.musicmap.it; febbraio 2007) Se il jazz (quello vero, non quelle insipide contaminazioni che oggi
vanno tanto di moda...) incontra la canzone d'autore, che succede? Succede
qualcuna delle invenzioni di Paolo Conte, qualche brano di Cammariere, e poco
altro. Tanti, ora, fanno canzone d'autore "jazzata" (a volte anche
bene, nulla da dire), tanti viceversa suonano jazz facendo il verso alla
canzone d'autore: sono proposte spesso valide, lo si è detto, ma sono e
rimangono spurie. Fino ad oggi. Oggi c'è questo disco. Autentica canzone
d'autore in autentico jazz. Nulla da eccepire. Ciò che pareva quasi
impossibile, oggi è accaduto. Quindi era possibile. Bravo Ducoli, a
mostrarcelo, ed a fare ancora di più: a farcelo sembrare facile. Naturale.
Questo è il pregio dei grandi: fare cose geniali facendole apparire normali,
quasi banali. Quindi Ducoli è geniale, non abbiamo paura a dirlo. Se c'era
bisogno, in questo viaggio, di compagni di livello, beh, non è che si sia
lesinato impegno: qui c'è l'autentico gotha del jazz italiano. Ellade Bandini
alla batteria, Fabrizio Bosso alla tromba, Ares Tavolazzi al basso. Devo
continuare? Ducoli diviene così un innovatore del jazz, partendo (sì, è così)
dal rock. Incredibile? Non tanto. La sua "Banda del Ducoli" (rock
di ottima fattura) è tutt'ora viva e vegeta, e nel proprio carniere ha anche
risultati importanti come la finale del Premio Recanati. A volte la musica è
totale, e sa smentirsi, in quanto a generi e frequentazioni, con fantastica
semplicità. Brumantica - Christian
Verzeletti (www.mescalina.it; novembre 2006) È sempre più difficile seguire il percorso artistico di Alessandro
Ducoli, che abbiamo via via incontrato nelle spoglie di Bacco Il Matto, de
Brumantica – Marco
Quaroni (www.giornaledisondrio.it; novembre 2006) Che Alessandro Ducoli fosse uno dei nuovi cantautori più interessanti
del panorama nazionale ce ne eravamo accorti già dieci anni fa, quando con il
gruppo rock Bacco il Matto riscaldava le nottate di buona parte dei pub
valtellinesi, camuni e oltre. Poi il suo lavoro è ulteriormente cresciuto,
all’anima rock che oggi sfocia nel complesso springsteeniano Spanish Johnny
si è unita quella solista, più riflessiva e raffinata, che lo ha portato a
pubblicare un pugno di album davvero notevoli negli anni scorsi (su tutti
l’opera “Taverne, stamberghe, caverne” del 2003, uscita anche in versione
letteraria). Oggi il musicista di Breno ci regala un nuovo lavoro di questa
sua facciata intimista, “Brumantica”, semplicemente la conferma di un talento
misconosciuto e ancora non giustamente analizzato dalla critica e dal
pubblico. Un gran bel progetto cantautorale sulle orme del jazz, con trombe e
piano su tutto, echi di Conte e una grandissima personalità. “Brumantica” è
un album complesso, per palati fini, ma ascoltandolo e riascoltandolo si ha
la sensazione di essere di fronte ad un cantautore a tutto tondo, che
racconta della montagna e del fiume, della bruma, della durezza della
provincia, delle notti d’amore alcoliche, delle sofferenze quotidiane e delle
piccole soddisfazioni. Da notare che in questo album il 34enne camuno è
affiancato da musicisti del calibro di Ares Tavolazzi al basso e Ellade
Bandini alla batteria. Tanto per essere chiari, mezza band di Francesco
Guccini, che volentieri si è prestata a suonare nell’album di un uomo sincero
e onesto, che per guadagnarsi da vivere e racimolare i soldi necessari alla
pubblicazione dei suoi dischi fa il dottore forestale al Parco dell’Adamello.
Poi la sera si toglie gli scarponi (a volte li tiene), infila l’armonica a
bocca in tasca e va per locali, festival, teatrini di quart’ordine a mettere
in piedi show che hanno sempre una caratteristica, quella di essere veri.
Inutile stare a descrivere brano per brano un lavoro che va ascoltato, ma
nella sola “Maddaluna” c’è tutto il Ducoli che più amiamo, ci sono tutte le
sue doti di narratore brumantico e selvaggio in questo mondo ormai lontano da
certe cose. L’omaggio finale a De Andrè con “La canzone di Marinella” la dice
lunga su quali siano sempre state le sue fonti di ispirazione. Presto sarà
ospite della trasmissione Radioattività su Tsn per presentare il disco e i
prossimi concerti; contatti a baccoilmatto@libero.it. Bravo Ducoli, speriamo
che l’Italia prima o poi si accorga di avere ancora degli artisti in giro per
la strada. Ma temiamo sia una speranza vana. Brumantica –
Cesare Casalini (www.
debaser.it; novembre 2006) La brumantica, per chi non si intendesse di fiumi e di foreste, è la
scienza che si occupa della nebbia del fiume che fa la sua comparsa nei mesi
di ottobre e novembre (almeno così sostiene il Ducoli), ed ecco che, per
l’appunto, questo è un disco da ascoltare di notte, oppure in una di quelle
malinconiche giornate autunnali con le foglie cadenti e con la nebbiolina a
far da cornice. Attenti, però, perché la fantasia del Ducoli, quando sembra che vada da
una parte, può anche sterzare di colpo e cambiare totalmente rotta, e le sue
storie non hanno mai un finale scontato. Ducoli ha smesso di fumare (beato lui!), ma non ha smesso e non
smetterà mai di sognare. Una serie di canzoni da ascoltare di notte, in
silenzio, entrano sottopelle come delle lame e per questo meritano attenzione,
come direbbe Tom Waits, “in cerca di qualcuno che si prenda cura di loro, non
abbiate paura, non mordono”. Questa volta ha deciso di regalarsi e di
regalarci un’insieme di perline in territorio puramente jazz, accompagnato da
una serie di veri fuoriclasse del pentagramma. E’ una delle sfaccettature di Alessandro Ducoli, questo poliedrico
musicista che a volte è jazzman, a volte rock’n’roller, a volte cantautore
italiano. L’elenco dei musicisti è veramente da “bocca aperta” (lui la chiama
“una scampagnata di pazzi”, per me è un’insieme di fuoriclasse): Alessandro
Galati al piano e alle tastiere, Ellade Bandini alla batteria, Ares Tavolazzi
al basso, Fabrizio Bosso (un vero talento emergente della tromba), il fido
Mario Stivala e il grande Sandro Gibellini alla chitarra, nientemeno che Tino
Tracanna al sax, più Paolo Filippi (basso in “Lettera”) e Teo Marchese
(batteria in “Blou”). Da un elenco simile di musicisti ascoltiamo un disco che è pura poesia
sia testuale che musicale, ascoltare per credere cosa questi uomini hanno
fatto alla “Canzone di Marinella” di De Andrè, (semplicemente stupenda),
oltrechè su tutto il resto del disco. A mio parere tutto il disco è su livelli decisamente superiori alla
media, ma a spiccare sono due canzoni che personalmente non riesco a passare
giorno senza ascoltare almeno tre-quattro volte: “Blou” e “Maddaluna”, ma in
generale è l’intero album a lasciare un segno, e non va ascoltato in mezzo
alla confusione, per poterlo apprezzare al meglio va ascoltato in
tranquillità e per almeno tre volte di fila. La superficialità non può
abitare in dischi come questo. “ “Una scampagnata di pazzi”. Così Alessandro Ducoli definisce con spiccato
senso ironico l’intesa esperienza artistica che l’ha portato ancora una volta
a dar forma a emozioni e pensieri, avvalendosi di musicisti del calibro di
Ares Tavolazzi, Ellade Bandini. Fabrizio Bosso, autentico astro nascente
della tromba, nonché Tino Tracanna e Sandro Gibellini. Nei giorni scorsi è stato ufficialmente presentatoli cd “Brumantica”,
il dodicesimo del cantautore camuno: 7 brani inenditi e e una cover, La
canzone di Marinella, omaggio al grande Fabrizio de André. L’album di Ducoli
trae ispirazione dalle trascinanti atmosfere del “Paris Milonga” di Paolo
Conte, catalizzatore di umore e ricordi, di posti e paesi, di amori e
situazioni. “Brumantica” è prodotto da Paolo Filippi del Cavò Studio di
Bergamo e tutte le composizioni originali sono frutto della stretta
collaborazione di Ducoli con Mario Stivala e degli arrangiamenti del pianista
Alessandro Galati. Taverne,
stamberghe, caverne – Silvano Rubino (www.bielle.org; giugno 2005) Arriviamo un po' tardi, a recensire "Taverne, stamberghe e
caverne", l'ultimo lavoro di Alessandro Ducoli e della sua Banda, uscito
ormai un anno fa. Meglio tardi che mai, è il nostro motto. Soprattutto quando
si tratta di un artista con le carte in regola come Alessandro. Il buon
Ducoli, orgoglioso camuno della Val Camonica, è sulla breccia ormai da
parecchio tempo, con dischi all'attivo con la band Bacco il matto e da
solista. L'esperienza, quindi, c'è. E in questo cd si sente: un prodotto
maturo, fatto da gente che ha alle spalle molti concerti sui palchi e nelle
taverne (appunto) della provincia profonda (Brescia e dintorni, in questo
caso). Un album in cui convivono due anime diverse. Quella cantautoriale e
quella rock (più legata all'esperienza della band di Bacco il matto). Inutile dirlo, noi preferiamo la prima, quella in cui Alessandro e il
suo coautore Massimo Saviola si sforzano nella ricerca di un sound raffinato,
attento alle radici popolari. Il brano di apertura (e di chiusura), In quest'ottica, i momenti migliori del disco, insieme alla Fiera, sono
Un sabato felice, Delirio ordinario, A proposito di questi giorni e,
soprattutto, Nina. Sin dal titolo, un omaggio dichiarato a Fabrizio De André,
con citazione del ritornello di Creuza de ma e addirittura una nuova
registrazione delle voci dei mitici venditori del mercato del pesce di via
Statuto a Genova. Un omaggio bello e sentito, che si dipana in una melodia
dolce e malinconica e in un testo pudico: "Dal Porto di Genova partirà/
Con altri colori, per altre città./Nina sorride mentre guarda di fuori,/ Dal
porto di Genova lo aspetterà./ Ho bisogno di canzoni/ Nina che vola, con le
canzoni." Ducoli è l'ennesimo esempio della vitalità della provincia, dei luoghi
più periferici della Lombardia. Al riparo della Val Camonica (lui la
definisce "Terra di passaggio, con intorno le montagne" ),
Alessandro ha imparato a mettere a frutto molteplici influenze, a dosare nei
testi ironia (come in Sgangherata, scanzonato swing alla Sergio Caputo) e
impegno (come in Maledetta Africa), nelle musiche anima pop-rock (Berlicche,
Maligno, L'alluvione) e raffinatezza jazz (Lenta). Anche se non tutto ci convince, di questo disco (che forse proprio per
la doppia anima di cui dicevamo, rischia di perdere in omogeneità, di non
avere una cifra stilistica prevalente e vincente), lo promuoviamo a pieni
voti, perché è un prodotto onesto, ben suonato dalla banda (Arcangelo Buelli,
batteria, Massimo Saviola, fender jazz bass '66, fretless, contrabbasso,
Lorenzo Lama, chitarre, Renato Saviori pianoforte), ben cantato, con una voce
un po' ruvida da folksinger americano. Attendiamo la prossima tappa, per
vedere quale delle due anime prevarrà, nel cantuatore Ducoli e nella sua banda. Banda del Ducoli:
la magia è assoluta. Chissà quando verrà riconosciuto degnamente il talento
di Alessandro Ducoli? Cantautore ricco di energia Rock, ma anche scrittore finissimo
e poetico, il musicista di Breno ha degnamente assorbito la lezione di De
Andrè, Dalla, Rino Gaetano, Paolo Conte, insomma il meglio dei grandi autori
italiani. Ducoli è un uomo di montagna, che per vivere spegne incendi nei
boschi (come Kerouac in “Angeli di desolazione”), dominato comunque dalla
smania di vagabondare territori musicali diversi. A suo agio tra Rock, Folk,
Reaggea, spruzzate di Jazz, malinconie Blues, assecondato da una band
(Massimo Saviola al basso e alla direzione musicale, Arcangelo Buelli alla
batteria e dietro la console di registrazione, Lorenzo Lama alle chitarre e
Renato Saviori al pianoforte) che è più una fratellanza di amici che un
collettivo musicale (tipo E Streeters, per intenderci) in questo disco estrae
dal cappello magie assolute, brani che si scolpiscono nella memoria. Così, La fiera apre il cd, preceduta da un
breve intro di cornamuse, con la fisarmonica di Fausto Beccalossi a disegnare
atmosfere da balera, e lo conclude assumendo cadenze Blues. Nel mezzo ci sono
ammalianti rumbe caraibiche (Maligno,
una cover riadattata degli Aterciopelados), Funcky rinvigorito da
foalte di Hammond (Berlicche), una
bella canzone dedicata a Fabrizio De Andrè (Nina) in cui si infilano echi di Creuza de ma, reggae asimmetrici (Maledetta Africa), tanghi sbilenchi (Delirio ordinario), languide ballate condotte dal pianoforte di
Renato Saviori (Lenta) o dal sax
Guido Bombardieri (A proposito di
questi giorni). Insomma un bel campionario di suoni, onnivoro e stratificato,
in un album che colpisce per le sue improvvise svolte, i continui piazzamenti
all’ascoltatore, che crede di aver capito l’antifona. E invece ….. Le Taverne sono
l’ulteriore capitolo della vita discografica di indipendente di un musicista
autentico, sincero, capace di emozionare come pochi in concerto, ruvido
cocker ma anche delicato verseggiatore, ironico e disincantato autore della
vita d’oggi. Un lavoro che per qualità espressiva, varietà musicale, tecnica
e raffinatezza esecutiva, non ha nulla da invidiare a più celebrate
produzioni italiane. È la realtà: non hai successo se non sei un figlio di puttana.
Figuriamoci poi se addirittura osi scrivere canzoni sui figli di puttana:
diventi un reietto, un escluso. Forse così si spiega perché nessuno si fila
la musica di Alessandro Ducoli e della sua banda: troppo scomode le canzoni e
troppo libero l'uomo che ci sta dentro. Non ce ne voglia la mamma del Ducoli,
ma nella musica di suo figlio scorre il sangue di un mondo peccaminoso e
libertino, sbandato e triviale. Intorno al suo bambino ci sono puttane, a cui
non piace essere chiamate per nome. E lui si ostina a vivere un ideale di
canzone rock, osando cantare in faccia a quelle buone donne: alla fine, agli
occhi del mondo, diventa lui il figlio di puttana, quello che è fuori posto,
quello che si fa il sangue cattivo. Anche se il suo animo è nobile. Basta vederlo dal vivo con la sua Banda per cogliere questo istinto di
purezza, che lotta per liberarsi da urla e da smorfie animali. Così, tanto per cammuffare la propria voce, canta in un megafono, balla
a mo' di invasato come ne "Le iene" (quelle di Tarantino). Poi
dedica una canzone, che si intitola "Rosa", a chi si arrampica sui
muri per spiare le signore che si spogliano: un modo non proprio ortodosso
per suggerire uno sguardo diverso, un punto di vista spostato, di chi scruta,
valuta e dice la sua senza trattenersi. Provate a tenere alla catena un cane che ha addocchiato una femmina,
provate a dirgli di non abbaiare quando un gatto entra nel suo territorio.
Smania, ringhia, morde, anche se magari poco prima era l'animale più mansueto
del circondario. Provate ad ostruire il marciapiede ad una puttana. Ducoli e la sua Banda sono così: prendere o lasciare. Grandi aperture,
melodiche e strumentali, moine da gran signore, poi improvvise impennate
d'orgoglio, d'istinto, che mostrano i denti e lasciano via libera solo ai più
impavidi. Possono farti manicure da musica leggera e poi eccitarsi al richiamo
della carne, sfogarsi quando sembrava si fossero trattenuti: in altre parole,
canzone d'autore, reggae, rock. Il blues e un po' di jazz, perché la pioggia
non manca mai quando la fortuna non gira dalla parte giusta. Sono una combricola di burloni, un branco di bastardi, un crocchio di
puttane là all'angolo, ma hanno movenze di gran classe: "Little
wing" diventa "Mariposa libre", in spagnolo come la faceva
Sting, ma con la coscienza di chi sa che per possedere una cover ci vuole
passione. Passione e professionalità: quella che ti permette un voodo-blues
sotto un funk in italiano, quella che fa suonare logica la sigla di
"Quark" prima delle protesta sottile di "Maledetta Africa".
Quella che ti fa passare dallo swing all'assolo di chitarra rock, da un piano
ragtime a qualche scomposizione di basso, come se fosse tutto una cosa sola
(e alla fine lo è). Quella che ti fa apparire sincero quando tutti si
strusciano, senza badare nemmeno se la vittima di turno è già cadavere
(nessuno lo ha capito, ma "Nina" è uno dei pochi omaggi rispettosi
dello spirito di Fabrizio De andrè). Ma poi chi si accorge di come è composto il riff di
"Prevert"? Chi la nota la forza di Bob Marley dentro a "Tre
linee confuse" (quando ormai il reggae è diventato un surrogato dello
ska)? Chi li sente i sussurri che borbottano alla Paolo Conte tra le note del
piano di "Lenta"? Chi lo vede il fantasma di Dylan che si affaccia
sul palco mascherato in un beat prima di "Uomini delle taverne"? Eppure era di nuovo tutto lì, un'altra volta: era un sabato, verso il
tardi, il tempo era di un grigio scuro infreddolito, ma bastava solo mettere
la testa fuori. Non era una serata da puttane (niente ingresso da pagare) e
nemmeno la vigilia di Pasqua (nessuna benedizione dall'alto). Era un concerto de Secondo il teorema,
ripetutamente dimostrato, che la buona musica va ricercata negli angoli più
nascosti, Taverne, stamberghe, caverne - Paolo Bardelli (Reporter;
giugno 2003) Raffinatezza e poetica musicale di un
cantautore: la fiera della banda del Ducoli. Le canzoni del Ducoli sono
calore per l'anima. Questo artista orgogliosamente "camuno" (della
Val Camonica, nel bresciano) ha confezionato il suo secondo lavoro musicale
assieme all'ormai inseparabile Banda, raggiungendo una perfezione che solo
pochi cantautori italiani si possono permettere. "Taverne, stamberghe,
caverne", questo il titolo del cd distribuito dalla I.R.D., racchiude
melodie che nascono dalla provincia e sanno trasmettere (o, meglio,
raccontare) quella sincera e spigolosa vita dove tutto ruota ancora attorno
al "giorno della fiera". Un po' Vinicio ("Sgangherata"),
un po' Paolo Conte ("Lenta"), E il Ducoli è un artista nato per suonare
dal vivo in quelle 'taverne' a cui ha dedicato il disco. Chi ha avuto la
fortuna di assistere a un suo spettacolo è rimasto colpito dal suo apparire
'vero', dalla sua capacità di comunicare al pubblico ed essere narratore
musicale. Qualità di chi viene dalla provincia che nel Ducoli si uniscono
all'eleganza, questa sì non provinciale, dei suoi testi. Ascoltare
"Taverne, stamberghe, caverne" è un po' come alzare al cielo il
calice: se lo si fa assieme ad un compagno di viaggio è un gesto allo stesso
tempo semplice e profondo. Che scalda. Taverne,
stamberghe, caverne – Alex Saccomano (Suono; giugno 2003) La periferia, i piccoli paesi nascosti tra le valli, storie che si
intrecciano nella quotidianità di chi è, per scelta o per destino, emarginato
dalla vita metropolitana. Storie deliranti, racconti di rane catturate,
personaggi improbabili che popolano la fantasia di Ducoli e della sua Banda.
Una storia noire grottesca e teatrale, con immagini musicali a tratti sfocate. Uno squarcio di
luce nella produzione indipendente. A dimostrazione che volendo si può fare
un prodotto intelligente, dove semplici stati d’animo si traducono in canzoni.
Un disco onesto e per questo interessante e valido, senza l’appoggio di
produzioni faraoniche la musica può fare e dare. Tra il rock e il cabaret, ballate e canzone d’autore, fiere di paese e
fusion, le atmosfere scorrono piacevolmente e anche la stesura musicale di
alcune parti, inevitabilmente deboli, riescono a superare l’esame grazie alla
loro freschezza compositiva. Un ringraziamento a latere, nelle note dei credits, è per il “Signor G”: “Nei giorni in cui stavamo chiudendo le
riprese – dichiara Ducoli – è
mancato Giorgio Gaber”. Bisogna riconoscere che se il Ducoli si occupa di
“canzonette”, qualche maestro c’è stato e fra questi sicuramente Giorgio
Gaber è uno dei maggiori. Taverne, stamberghe,
caverne – Alessio Gambaro (GENOVAGANDO; giugno 2003) E’ un’opera imperdibile per chi ama le cose semplici, profonde,
tradizionali ma non antiquate, di classe e, soprattutto, di casa nostra. In principio era il Ducoli: cantautore poliedrico di sangue camuno,
ibrido artistico fra un’ispirazione da folksinger americano di razza (con una
devozione particolare per Neil Young), una sensibilità poetica tutta italiana
e un estro bizzarro da sbronza molesta, lo stesso che sfoggerebbe un
Capossela imbarbarito dal sesto / settimo whisky della serata. Per dare una
forma, uno sfogo e una destinazione alle pulsioni più propriamente rockettare
esisteva, a onor del vero, anche un gruppo, dedicato alla figura grottesca e
misteriosa di un qualunque Bacco il matto di provincia, e artefice di uno
degli esordi di rock tradizionale più maturi del suo tempo. Di tutte quelle
multiformi ispirazioni oggi non è rimasta che una banda: non certo una banda
qualunque ma, naturalmente, E’ forse la cura, a lato pratico, quella che non paga: una cura
maniacale, favorita anche dalla presenza (inedita, nel curriculum del Ducoli)
di una produzione di alto livello; cura nel dosare gli umori in maniera equilibrata,
cura nel rielaborare e fondere i temi -e, per così dire, i generi- degli
album precedenti senza concedersi troppi favoritismi e, soprattutto, cura nel
porre la musica a servizio di Testi con
Taverne,
stamberghe, caverne - Christian Verzeletti
(www.mescalina.it giugno 2003) “Un libro e un disco, praticamente la stessa
cosa”, si legge nel booklet. Del libro c’è solo qualche traccia tra i
credits, ma il disco c’è, eccome, e si sente. Taverne, stamberghe, caverne è il quarto album di Alessandro
Ducoli, con una band “nuova” e un pugno di storie, tutti dotati di quella
dose di verità indispensabile per un disco e per un libro: canzoni che hanno
bisogno di essere sentite sulla pelle, come una musica, e di essere viste,
immaginate, come una storia. L’album si presenta come un corpo narrativo, che
si apre e si chiude con la stesso pezzo, La
fiera, inquadrando un paesaggio di provincia e mettendo a fuoco una serie
di voci quotidiane, che diventano appunto storia, nel senso più popolare e
vero del termine. Taverne, stamberghe,
caverne è un disco che sarebbe riduttivo definire di solo cantautorato,
perché ha in sé una dote rara. Se è vero che, per non rimanere sommersi
nell’attuale panorama musicale, è indispensabile suonare con personalità,
Ducoli e la sua band hanno scelto il modo più intelligente e, forse, più
difficile per farsi notare: dodici canzoni che contengono un mondo tutto
loro. Ideali coordinate geografiche fanno risalire ad una “terra di passaggio
con intorno le montagne”, non solo quelle delle valli bresciane, mentre i
punti di riferimento musicali vanno da De Andrè a Capossela, da Ciampi a
Gaetano, oppure da Jackson Browne a Bruce Hornsby, se ci si vuole spostare
oltre i confini nazionali. Ducoli e la sua band sono dei viandanti, attratti
da qualunque forza in movimento: la gravità che fa scendere il vino in un
bicchiere, la spinta che muove l’onda del mare, il fischio di un treno o il
ritmo sgangherato di una vita, in perenne altalena tra felicità e nostalgia.
Logico allora spostarsi da un genere all’altro, con grande dignità ed
eleganza, dallo swing-soul di Sgangherata,
al funk di Berlicche, al rock
energico di L’alluvione, passando
attraverso raffinate ballate. Fisarmonica, sax, clarinetto e hammond la fanno
da padrone, con la signorilità di chi è sempre pronto ad offrire da bere e a
fare da spalla a chi si racconta: Taverne,
stamberghe, caverne diventa così un disco che offre rifugio a chi ha
voglia e tempo per ascoltare, per sorseggiare della buona musica e delle
buone storie. Anche con leggerezza, come in Un sabato felice, un esempio di che cosa potrebbe davvero essere
la musica leggera italiana. Come dice lo stesso Ducoli: “in origine l'uomo
trovò rifugio dagli elementi all'interno delle caverne; successivamente
imparò a costruirsi rifugi sempre più adeguati alle sue nuove esigenze. Ora è
arrivata l'esigenza di tornare alle caverne”. La canzone quindi diventa un mezzo
per rimanere attaccati alla vita, per proteggersi da una pioggia che non
smette di cadere, per non arrendersi ad un destino troppo comune. A conferma
poi del lavoro svolto sia in fase di arrangiamento che di registrazione,
tutto si muove con omogeneità e con spontaneità, quasi che fossero le storie
stesse a dar vita ai loro personaggi e ai loro autori. Così come succede nei
migliori dischi (e libri), piano piano l’arte si fa talmente personale da
uscire dal suo autore: “le mie navi nel porto / sono andate da sole / per
amore del sale / hanno messo le vele”.
Taverne,
stamberghe, caverne - Emiliano Coraretti (Avvenimenti 23-29 maggio 2003) Ducoli Blues. Il
Blues della Sgangherata. Il Rock in
stile Creedence Crearwater Revival del L’alluvione.
In Lenta e Delirio ordinario si avvertono persino l’odore delle notti di Tom
Waits. È una musica che ama l’America quella di Alessandro Ducoli. Ma ogni
volta, l’America, viene fatta passare lungo i confini della provincia
italiana. Brescia e dintorni, dove il cantautore (già voce e penna della band
Bacco il Matto) raccoglie storie di personaggi, che potrebbero essere nati in
Lombardia come nel Nebraska. I posti migliori vengono suggeriti dal titolo
del disco che il musicista realizza con Taverne,
stamberghe, caverne - Mauro Eufrosini (JAM – maggio 2003)
Questo disco
doveva essere un concept e doveva viaggiare assieme a un libro di Marco Quaroni,
L’uomo delle taverne, stralci del
quale sono disseminati nel booklet di Taverne,
stamberghe, caverne. Il libro non c’è ancora ma il Ducoli ci assicura che
(…) un libro e un disco sono la stessa
cosa (…). In effetti questo disco, il quarto progetto solista di Ducoli,
già protagonista dell’avventura Bacco il Matto, ha una forte connotazione
narrativa, sottolineata dai rumori che colorano e introducono le singole
canzoni: dal gracidare delle rane al passare di un treno, dai passi sul
selciato alle grida di una fiera, al vociare di bimbi. La fiera è il trait d’union dell’interop progetto, canzone che
apre e chiude il disco. Circoscrivendo così il racconto in una immaginaria
unità di tempo (l’oggi) e di spazio (da qualche parte in provincia), e dentro
Ma un disco non è
un libro e Ducoli e la sua Banda lo sanno bene. Oltre alle storie scritte nei
testi, ci sono quelle scritte sugli spartiti, ci sono le voci degli uomini e
quelle degli strumenti, la produzione, gli arrangiamenti: bene, tutto, in
questo disco funziona egregiamente. Gli arrangiamenti sono superbi e sempre
centrati sulla canzone, i musicisti impeccabili, i suoni eleganti e levigati.
Le canzoni poi abbracciano uno spettro consistente dei diversi linguaggi del
Rock d’autore, dal Blues/Funk di Berlicche,
che assieme alla roccata Delirio
ordinario è il momento più gridato del disco, alle citazioni di De andré nell’omaggio Nina (dove riecheggia Creuza de mä), al Blues cialtronesco
di Sgangherata, alla melodia
accattivante di Un sabato felice
(in un mondo perfetto, potenziale hit radiofonico). Alessandro Ducoli e la
sua banda, nella quale spiccano Massimo Saviola e Arcangelo Buelli, sezione
ritmica, co-autori e soprattutto produttori, sono una realtà della musica
italiana con la quale bisogna fare i conti. Taverne,
stamberghe, caverne - Fabio Zamboni
(Alto Adige, aprile 2003) L’irrequieto Bacco
il Matto degli anni Novanta e il più poetico e visionario Alessandro Ducoli
incrociano la loro urgenza di raccontarsi dentro una band che diventa il
centro di un progetto cantautorale intenso e coinvolgente. Il musicista
camuno (Val Camonica) porta i sui personaggi romantici e poco allineati
dentro i luoghi della sua vita quotidiana, una periferia alpina dove ci si
racconta nelle taverne e si frequentano le fiere, e dove storie di amori
balordi s’incrociano con storie di rane che ti attraversano la strada. Dopo
il disco raffinato, da vero cantautore (”Anche io non posso entrare”) Ducoli
sforna”il disco della band”, che trasuda appunto tutto il piacere di suonare
assieme di un gruppo di musicisti di razza. Meno ricercatezze e orpelli da
studio, ma più vita vissuta. E suonata. Taverne,
stamberghe, caverne - Gian Paolo
L’affranchi (Bresciaoggi, 17/04/03) Taverne, stamberghe, caverne è il titolo dell’album realizzato da un
gruppo di esperti musicisti, tutti bresciani: Quelli della «Banda del
Ducoli». Un disco profondamente bresciano, legato alle radici, aperto alle
suggestioni. È, soprattutto, un bel disco: da ascoltare quando piove e si ha
poca voglia di parlare, ma anche da sentire quando si ha voglia di far festa
senza staccare la spina al pensiero. «Taverne, stamberghe, caverne» è il
manifesto della Banda del Ducoli: un supergruppo che sventola anche la
bandiera dell’ironia ma non assomiglia a Elio e le Storie Tese, che non prova
nemmeno a scrollarsi di dosso la «fatal malinconia» ma non annoia mai come
certi cantautori vecchia scuola. Per questo progetto nuovo e ambizioso, che vuole dar voce alla
provincia che suona e fa davvero della musica un’arte, Ducoli ha formato una
squadra d’eccezione tutta bresciana. Musicisti esperti, tecnicamente
impeccabili, artisticamente corretti: fra ballate acustiche, tentazioni jazz
e suggestioni americane non fa mai capolino il motivetto commerciale. Il
risultato: un’ora di canzoni di classe, senza cadute di tono. Tra Fossati e
Cammariere, con un sorriso amico sulle labbra. La fiera apre il disco in modo lieve e intelligente, chiarendo le
coordinate artistiche. Si parla di “ …
stelle filanti, di sogni e desideri”, della malinconia di chi costruisce
la gioia senza essere creduto. Il pianoforte stende un tappeto alla Bruce
Hornby, gli arrangiamenti privilegiano il cuore pop del brano senza
trascurare l’indole folk. Sgangherata
potrebbe tranquillamente appartenere alla storia di Sergio Caputo, swinga fra
una luna fuggevole e una metropolitana che non c’è. L’assolo di Lorenzo Lama
illumina quella “…terra di passaggio con intorno le montagne, terra sulle
scarpe sulle suole c’è il catrame. …
rogna dentro al sangue da decontaminare”. Registrato in un tempo lunghissimo (fra il marzo 2002 e il febbraio
2003), inserito nel catalogo Ird (dunque in vendita nei negozi di dischi),
l’album della Banda colpisce fin dal primo ascolto. In "Taverne,
stamberghe, caverne" ci sono la voce «romantico-distratta» di Ducoli, i bassi
e i contrabbassi di Saviola, le chitarre di Lama, piatti e rullanti di Arki
Buelli, il pianoforte di Renato Saviori. Il disco (prodotto da Buelli &
Saviola) conta una sfilza di ospiti eccellenti (dalla corista Elena
Sbalchiero alle tastiere di Oscar Del Barba, dal sax di Guido Bombardieri
alla fisarmonica di Fausto Beccalossi, dall’hammond di Paolo Mazzardi alle
voci di Beppe Donadio & the Bluesisters). Recentemente Taverne,
stamberghe, caverne - Furio Sollazzi (www.miapavia.it,
31/03/2003) Ogni tanto, in un panorama asfittico di cantanti e autori
"omologati", spunta un fiorellino che si distingue dal mazzo.
Alessandro Ducoli (voce, chitarra acustica, armonica) ha suonato in vari
gruppi dell'area camuno-bresciana (Springs, Kantina Occupata, Pond Spashing e
Blesk) partecipando a vari festival e manifestazioni locali. L'esperienza più
importante la fa con il gruppo Bacco il Matto; artefici di un live act
assolutamente coinvolgente (e spesso arricchito da una manciata di cover
tratte dai songbook dei loro principali padri ispiratori: Bruce Springsteen,
Neil Young, Lou Reed, Iggy Pop, Steve Earle, John Mellencamp), sono una band
di spacconi della Val Camonica un po' naive, ma personaggi veri, sinceri e di
cuore, per un rock italiano sanguigno, ad alto tasso alcolico ed energetico,
dal suono scarno, dinamico e valvolare che rimanda agli stilemi del rock texano
più puro. Dopo due album (San Marco -1999, Cercatori d'oro
-2000) il gruppo si scioglie ma l'esperienza del palco resta nel DNA di
Ducoli. A suo nome ha pubblicato anche quattro album ottimamente autoprodotti: Sopra
i muri di questa città (1995), Lolita (1997), Malaspina
(1999) e Anche io non posso entrare (2000). Ho ascoltato Malaspina (molto bella la copertina) e l'ho travato
un disco con alcune intuizioni, dei buoni testi e molte ingenuità. La voce
ricordava un po' quella di Carboni nel suo "essere molle".
L'ascolto di Anche io non posso entrare mi ha confermato le buone
qualità di questo autore e una sua notevole maturazione (anche dal punto di
vista vocale). Quell'album contiene almeno tre brani notevoli: Io ti
sparerò per primo, Giovanna e Anche io non posso entrare. Dalle
esperienze come solista e da quelle con Bacco il Matto esce questo ibrido La voce di Ducoli sembra abbia raggiunto una sua maturità pur rivelando
ancora le radici dei suoi amori musicali con decisi riferimenti a
Springsteen, Tom Waits e anche al nostrano Capossela. Nei brani lenti,
invece, ha completamente abbandonato le "mollezze" per assumere
un'identità personale nelle modulazioni e nell'espressione (dobbiamo forse
ringraziare il nostro amico Boris Savoldelli che so essere interessato al
"soggetto" ?). Quello che appare sorprendente è la freschezza delle proposte e la
sincerità con cui evita di "vestire" le canzoni per renderle
gradite. C'è invece, oltre alla naturalezza rock di fondo, un'eleganza che ha
spolverate di blues e jazz in alcuni arrangiamenti. Acustiche, elettriche, Hammond e strumenti a fiato si alternano a brevi
inserti di voci e rumori che rendono il disco assolutamente omogeneo e quasi
un concept-album. Se vi capita di trovare in giro questo album, investite
(per una volta) qualche euro in un nuovo autore italiano. TAVERNE,
STAMBERGHE, CAVERNE (2003) Recensione di
Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk
Anche io non posso
entrare - Fabio Zamboni (Alto Adige) La doppia vita di
Alessandro Ducoli, cantautore camuno (ovvero Val Camonica), si esprime in due
progetti paralleli: quello legato al suo nome di battesimo e quello legato
allo pseudonimo Bacco il matto. Con questi due nomi ha realizzato finora una
mezza dozzina di dischi, che lo hanno portato dal vivo a esibirsi anche al
prestigioso Alcatraz di Milano e sulla carta ad incassassare una lusinghiera
recensione di "Musica!" di Repubblica al suo penultimo
album.. Ancora di più
meriterebbe questa nuova raccolta di canzoni in cui l'anima folk-rock,
springsteeniana, di Bacco il Matto si fa da parte per mostrare quella più
cantautorale, più intensa, di un musicista che racconta storie di amori
balordi o di sogni in compagnia di alcuni ottimi musicisti, a partire dal sax
soprano di Guido Bombardieri che impreziosisce i brani più riusciti: Lulù
e Alcune cose inutili. Gustosi siparietti alla Daniele Silvestri,
convincente la voce soprattutto quando evita di indurire i toni come nel
brano che dà il titolo all'album. Una voce fumosa e sincera, atmosfere
etno-jazz o delicatamente folk-rock, testi originali e suoni preziosi sono
gli ingredienti di un disco che per ora potete rintracciare quasi soltanto
alla fonte entrando nel curioso sito di Ducoli. Anche io non posso
entrare - Emiliano Coraretti (Musica! 28-06-2001) Alessandro Ducoli appartiene
alla schiera dei cantori che raccontano il mondo sempre dalla parte di chi,
con i propri sogni, ha un debito destinato a non azzerarsi mai. Già mente e
voce di Bacco il Matto, Ducoli pubblica il suo nuovo disco da solista
dimostrando ormai un pieno e intelligente controllo su tutti quegli elementi
che fanno della musica di John Mellencamp, Willy De Ville e Calvin Russell,
un formulario universale per dare voce ai sentimenti dei loser. Anche io non posso
entrare si snoda allora in undici episodi dove versi che fanno il
punto sui movimenti del cuore (Arrivederci ancora, Perfetta)
sono sorretti da arrangiamenti concentrati più sull'eleganza della
strumentazione (il reggae di Tre linee confuse, l'atmosfera fossatiana
di Il primo ballo) che sulla forza delle chitarre. Canzoni di vita,
scritte per ricordare che, nella vita, la felicità si concede solamente in
attimi da respirare con la testa sgombra dalla paura e un boccale di birra
sul cuore. Anche io non posso
entrare - Alex Saccomano (SUONO; gennaio 2002) Noto nel panorama
discografico con lo pseudonimo di Bacco il Matto, Alessandro Ducoli,
trentenne della Val Camonica, entra dritto d'infilata nell'olimpo della nuova
canzone d'autore. Non è il solito folksinger, non è il cantautore triste,
anche se i testi trattano di serietà della vita quotidiana. E di concretezza è
fatto questo disco, che vede l'autore e la sua band insidiare il territorio
di caccia magari di Vinicio Capossela; una voce roca e fumata e una band che
lo supporta con introduzioni trascinanti e cambi di ritmo improvvisi e toni
da rock band. C'è molto in questo disco, complicato nei suoni e nelle
atmosfere tese, impegnate e anche irridenti: il rock di Lou Reed, lo ska di Tre
Linee Confuse. Gli undici episodi
del nuovo CD solista sono tutti coinvolgenti, e offrono una competenza
musicale degli strumentisti che non si perdono nel virtuosismo esasperato ma,
quando necessario, si esibiscono in eccellenti assoli e fraseggi di supporto
eleganti. Whisky facile e rock americano alla camunese ma non è
mistificazione, né un surrogato di un "vorrei ma non posso": Ducoli
può e lo fa tranquillamente, percorrendo la strada della musica di qualità,
italiana. Un vagabondo affidabile del blues dove Io ti sparerò per primo,
una canzone d'amore appassionante, e Dieci metri sotto la città, sono
un alito alcolico di Tom Waits. Anche io non posso
entrare – Alessio Gambaro (GENOVAGANDO; giugno 2002) A dispetto della scarsa fama, è un album che comunica una maturità
raggiunta propria dei grandi cantautori. Quel che più colpisce di
cantautori come Alessandro Ducoli e di gruppi come Bacco il matto, suo
progetto parallelo, è la scarsità quasi grottesca di attenzioni da parte di
media e pubblico in rapporto alla freschezza della proposta. Questo non
perché l’ultimo album della sua piuttosto giovane carriera sia una capolavoro
storico ma perché, rapportato a molte altre uscite di genere baciate da una
fortuna ben maggiore, “Anche io non posso entrare” fa scintille. E,
curiosamente, non per quella speciale immediatezza, diremmo quasi quel certo
impeto selvaggio, che si e’ un po’ persa nel qualunquismo del pop mainstream
e che invece sopravvive grazie a molti gruppi rock underground. Al contrario,
l’album si distingue per il tocco raffinato degli arrangiamenti, per il
sapersi rendere intrigante e dire qualcosa che valga la pena di ascoltare,
addirittura per la capacità di evocare un inedito scenario musicale, una
sorta di epica rock come tante altre in passato ma che, al giorno d’oggi, è
raro rintracciare fra gli orpelli dei vuoti packaging discografici. Ed è un
epica che avvince, quella del Ducoli. L’epica della dannazione provinciale
che serpeggia fra i locali notturni della Val Camonica, e che avvolge abbozzi
di storiacce sfigate e rituali da sabato sera fra le spire di fumo delle
sigarette. L’epica degli amori che ancora prima di cominciare annegano nel
vino novello e nei terrei doposbronza della mattina successiva. L’epica,
ancora, di chi si sente un po’ un outsider in un mondo che dopo 25 anni di
vita ha gia disilluso tutte le speranze della giovane età, e sente che
proprio di domani non c’e’ certezza… Il mondo del Ducoli, insomma, che trova
in questo album la sua sintesi migliore. Abbandonate le riletture colte del southern rock padano (quello, per
intenderci, che fece follie alla fine degli anni ’80 con gruppi come Rats e
Negrita, e che trovò in Ligabue il massimo rappresentante a livello
“popolare”) su cui e’ imperniato il Bacco il Matto più recente, e trovata una
forma più corposa e concludente per i bozzetti da music hall del precedente
“Malaspina” (accattivanti in certi casi, un tantino logorroici in altri), il
rocker di Breno sforna undici brani tra il blues rock e la tradizione cantautorale
italiana, riuscendo a conciliare Springsteen e Fossati, Tom Waits e Guccini,
John Mellencamp e Capossela, il tutto con grande disinvoltura e, soprattutto,
con grande personalità, tanto che delle innumerevoli ascendenze proposte non
una convince appieno. Va detto - ed e’ una precisazione fondamentale nel
nostro caso - che si tratta di un disco estremamente omogeneo. Anche per
questo ha poco senso definire perentoriamente le influenze e proprio per
questo, se è vero che tutti i brani funzionano alla perfezione, senza un solo
momento di stanchezza, non ci sono lampi particolarmente geniali. Lo stile dell’autore è solidamente a fuoco: concreto, pungente, poetico
ma mai serioso, diretto ma mai grezzo, pessimista ma mai arreso. E,
musicalmente parlando, decisamente sopra la media, grazie soprattutto al buon
cast strumentistico di cui Alessandro si è circondato. Forse proprio a questa
chiarezza d’intenti, che più volte comporta il rischio di ripetersi, è da
imputare la mancanza di episodi sopra le righe. E se ci soffermassimo a
lodare un campione di eleganza come “Il primo ballo”, impreziosito da garbati
virtuosismi che sfumano in un malinconico finale latino-americano , o la
farsa tragicomica del picaresco protagonista di “Giovanna”, ma anche il pub
rock di “Dieci metri sotto la città” o il reggae composto di “Tre linee
confuse”, faremmo senz’altro un torto agli altri sette brani, che
rappresentano esattamente, al pari dei quattro citati, ciò che vorremmo
ascoltare dopo le due di notte in qualche bettola avvinnazzata di provincia,
ormai certi che il bruciore del whisky sul palato ci accompagnerà fino
all’alba. Sperando che proprio in quel locale, prima o poi, arrivi un
misterioso avventore chiamato Bacco e, imbracciata una chitarra, ci regali le
sue affascinanti e non troppo fortunate canzoni. Anche io non posso
entrare – Lucio Franceschetti (L’ISOLA CHE NON C’ERA; marzo 2002) Alessandro Ducoli, mente e voce
di Bacco il Matto, è uscito con un nuovo CD solista, con arrangiamenti curati
fin nelle sfumature. Gli strumentisti che lo accompagnano sono di qualità:
Arcangelo “Arky” buelli, Massimo Saviola, Mario Stivala, Beppe Gioacchini,
Oscar del Barba, Lorenzo Lama, Fausto Beccalossi e Guido Bombardieri; formano
un gruppo omogeneo e ben affiatato ed è evidente che credono nel progetto. Si
sanno districare bene sia quando si tratta di volare alto, sia quando si
tratta di picchiare duro. E ducoli con loro esplora territori diversi con
leggerezza: dal rock-blues penetrante di Io
ti sparerò per primo, al richiamo della melodia di Il primo ballo e Alcune
cose inutili, dallo ska di Giovanna,
al reggae di Tre linee confuse. La
voce è calda anche se nei pezzi più duri diventa fumosa, fino ad arrivare ai
maltrattamenti dei filtri ed alle distorsioni del megafono. Ma. Come lui
stesso dice: “Il più grande imbroglio
della nostra vita sono le parole….”, parole che raccontano della vita,
soprattutto della sua. Eventi piccoli e grandi, mediati dalle emozioni,
dall’amore, dall’accanimento. Sono i racconti di uno che vive da
non-allineato, che gioca a fare il rocker duro e dissoluto, quello che
maltratta e si maltratta, ma sicuramente dentro ha un’anima da buono. Testi
immediati, ma non banali. Parole eruttate di getto, senza cercare fronzoli o
la poesia a tutti i costi. Una per tutte Anche
io non posso entrare urlata al megafono e con accenti waitsiani. Emblema
di questa apparente contraddizione tra il bisogno di esprimersi e la ricerca
di sintesi, tra il vagabondo dissoluto e l’anima romantica.
Anche io non posso entrare - Gian Paolo Laffranchi
(BRESCIAOGGI; 24 settembre 2001)
Bacco, tabacco e rock nell’America
del Ducoli. Ma la notte è solo un particolare. Un luogo comune del blues, uno
stereotipo del “Rock made in America” sincero e sanguigno, come la nicotina,
il whisky, il cappello.Ma c’è molto di più nella musica appassionata e
indolente di Alessandro Ducoli, fantastico “loser” camuno. Le sue canzoni
riempiono la testa di suoni e il cuore di pensieri. Sono scritte per essere
conosciute, mandate a memoria, digerite, amate, come si ama l’odore della
propria cucina, il rumore della chiave che apre la porta di casa. Profumo di
sensazioni quotidiane, dolcezza di slanci spontanei e genuini. L’istinto guida il
Ducoli fin dall’incipit: il disco si apre con Perfetta, giro
armonico e alcolico nella “contrada dei pazzi”. Poi “..la nebbia agli irti
colli piovigginando assale”: è la chitarra di Lorenzo Lama che è un serpente
a sonagli, sibila riff Hendrixiani in Io ti sparerò per primo e
penetra nello stomaco, poi sale dritto fino al cuore. Un pezzo strepitoso. Il
primo ballo si sposa con Arrivederci ancora: suggestioni
romanticamente fossatiane, elegantemente crepuscolari. Prevért è rock
metropolitano, poesia e rabbia che s’addolcisce in Lulù, melodia
avvolgente, quasi DeGregoriana. Rino Gaetano rivive e suona con Willy De
Ville nella seduttiva, sinuosa Giovanna. Tre linee confuse è un
omaggio al miglior reggae italiano (ancora Fossati per intenderci). Il rock
alla Mellencamp riaffiora in Dieci metri sotto la città, privilegiando
il vigore delle chitarre senza trascurare gli arrangiamenti, curati
impeccabilmente in tutte le tracce da Massimo Saviola e Arcangelo Buelli.
Dopo le schegge taglienti della title-track (Anche io non posso entrare),
Alcune cose inutili riscopre il gusto della pioggia. Il vento che
soffia in un sax.Se il belpaese fosse America, questo disco, in distribuzione
in tutti i cataloghi IRD Italia, dovrebbe consacrare la carriera solista del
Ducoli. Il suo non è un
debutto: nato a Breno nel 1971, già in prima fila nell’ensamble Bacco il
Matto, ha alle spalle due opere (“Lolita”, 1997; “Malaspina”, 1999). Negli
anni ha intrecciato collaborazioni significative. In “Anche io non posso
entrare” una band dal sound torrido (Lorenzo Lama alle chitarre, Renato Saviori
al pianoforte, Massivo Saviola al basso e Arky Buelli alla batteria; i due
della sezione ritmica hanno registrato e missato tutto il disco all’ARKY
STUDIO di Paratico), con il talento di Oscar Del barba (piano, organo e
tastiere), Mario Stivala (chitarre acustiche), Beppe Gioacchini
(percussioni), Guido Bombardieri (sax e clarinetto) ed Elena Sbalchiero
(cori). Anche io non posso entrare - Mauro
Eufrosini (JAM – Ottobre 2001)
Bella e complicata
l’anima (musicale) di Alessandro Ducoli, tentata tanto dalle dissolutezze di
certo Rock and Roll sulle tracce di Lou Reed e Neil Young, inseguite con
Bacco il Matto, quanto da dissoluti vagabondaggi alla ricerca dell’ultimo bar
aperto, con il mangianastri della macchina a sfiatare i versi di Ciampi,
Gaetano e Capossela. Questi sono i vagabondaggi che Ducoli racconta nei suoi
album solisti, già tre ai quali oggi si aggiunge Anche io non posso
entrare. Un album bello e complicato come il suo autore, denso di suoni e
tensioni, scomodo nella sofferta dinamica tra urgenza espressiva, quasi
prepotente, e ricerca di sintesi, piacevolmente evidente nella cura minuziosa
degli arrangiamenti, dei toni e dei colori di ogni singolo intervento,
strumentale o vocale. Per certi versi
anche l’album della (temporanea) maturità di Ducoli, che riesce con maggior
frequenza, rispetto alle prove precedenti, a costruire sembianti verbali
incisivi e ben incollati allo svolgimento musicale della canzone. Quasi
perfette sono ad esempio canzoni come Il primo ballo, Lulù, Arrivederci ancora
o la conclusiva Alcune cose inutili, sospese tra respiro di ottoni solitari e
punteggiate da fraseggi ritmici nervosi ed eleganti. Sono il lato romantico
di Ducoli, dove anche la voce si accomoda sull’eco dei rimpianti, ed il
richiamo della melodia è più intenso. Altrove, nei brani più duri e
“rocckati”, Ducoli arriva a maltrattare anche la propria voce, sfigurandola
con megafonie filtri vari, e le chitarre e l’hammond prendono il posto dei
ottoni e del fretelss, nel gioco delle complicità solistiche. Tra questi
piacciono particolarmente la title track, dall’accento Waitsiano e Io ti
sparerò per primo, dagli inaspettati risvolti brit blues vintage. Malaspina / Anche io non posso entrare - Gordon Ipaloma
(Nessun Dorma)
Malaspina
Quando la vita ci
trascina in un porto non possiamo far altro che seguirla. Soprattutto in
giornate ventose, in mezzo a onde di dieci metri che rischiano di trascinarci
sott’acqua, è difficile trovare la folata giusta, quella costante, quella
pronta ad accompagnarti alla fonda. Raro è trovarne una sola; spesso sono
infatti diverse le correnti che direzionano il nostro scafo. Ci sono marinai
che seguono la scia lasciata da imbarcazioni precedenti, altri che tracciano
un solco proprio in mezzo alle onde. C’è però anche chi inconsciamente, in
tempi di tempesta, prende dritto per il mare aperto. Tutti di corsa in porto
e qualcuno che inverte la rotta, sfidando su di una goletta spartana ma
profondamente confortevole, la forza del mare. Unico lusso che si concede
questo pazzo è la raffinatezza delle vele, l’elemento essenziale affinché la
barca cammini. L’eleganza della semplicità potrebbe essere una delle cose
che, una volta in mezzo a cotante onde, ti può salvare.Ora vi è lecita la
domanda sulla reale direzione che il nostro ardito uomo di mare sta
prendendo. E’ presto detto. In mezzo al mare c’è un’isola dove la poesia
dell’amore non cessa, c’è un isola di quindici allettanti sirene. La barca si
avvicina all’isolotto e, con la leggiadria di un ubriaco che si trascina
senza mai cadere a terra, approda all’isolotto caricando tutte e quindici le
dannosissime donzelle. L’epica ci ha insegnato che sirene vanno rifuggite
come il peccato, almeno che il salvarci non ci interessi.Tenerle a bada non
dev’essere stata cosa facile per Alessandro Ducoli che di questa folle storia
ha fatto un disco al quale ha aggiunto, in un’elegantissima confezione, un
delirante libercolo di sue composizioni poetiche. Storie sincere, a tratti
affascinanti e commoventi, a tratti grottesche e guascone. E’ un disco da marinaio,
un disco di quindici canzoni che spesso prendono correnti diverse, seguendo
la scia di altre barche o frequentemente guidate verso il mare aperto. A
tracciare la rotta di questo viaggio insieme a Ducoli ci sono musicisti
sapienti ed eleganti, strumenti acustici dei quali spesso rischiamo di
dimenticarci. Quindici opere di artigianato musicale che trovano nella
linearità il loro punto di forza, pochi elementi messi in fila uno dietro
l’altro. Sono situazioni ed esperienze fissate senza alcun desiderio
nostalgico. Si sente l’esigenza da parte del nostro marinaio camuno di
congelare questi attimi e di donarli così… a noi decidere il loro destino.
Divertenti e malinconici giochi verbali girano sulle note. E’ un disco da
rispettare per la necessità che ne traspare. Anche
io non posso Entrare
E tutto ancora una
volta è disteso lì. Gli scogli sono scomodi, sembrano volerti trafiggere l’animo
ma questa è una storia d’altre stagioni; ora, tra le onde, ruota il tempo di
“Anche io non posso entrare” e l’onda si protende ad ammirarti da una
prospettiva diversa.Tra le rocce più alte rimane imprigionata l’acqua della
burrasca. Sembra quasi che lo facciano apposta, gli scogli; il mare li
schiaffeggia da millenni e loro, tra le rughe che solcano i loro visi, ne rapiscono
un pò. Lì starebbe un briciolo di un’effimera fine del mare, lasciandone al
primo sole solo un pugno di sale. Sarebbe un misero modo di chiudere il
sipario per l’elemento che tanto taluni impaurisce e altrettanti fa
sognare. Ma Sandrino però non ci sta, non porta rancore ma decide di
ridare la libertà al mare. Ancora una volta ha deciso che le cose è meglio
che vadano diversamente. Allora eccolo unire le sue mani a formare una tazza
e poi pian piano riempirle con l’acqua rimasta fra le rocce, rigettandola in
mare, orfana per poche ore ed ora di nuovo nel grembo materno. Quando per
Sandro sarà di nuovo il momento di riprendere il largo vedrete che il mare se
ne ricorderà; il mare, come del resto molti di noi, non dimentica i ducolosi
gesti. E poi io sono sempre stato dell’idea che il mare ama la gente di
montagna, quantomeno perché, stando dove sta, lo lascia in pace. A questo
punto però il sole sfuma e Sandro torna solo e riflessivo verso la fonda in
cui Malaspina l’aveva tratto. La goletta è in porto, pronta ad accogliere
chiunque voglia passarci del tempo e Sandro non è altro che un tenero ed un
po’ imbarazzato padrone di “casa”. La proverbiale eleganza delle vele,
che da sempre accompagna il viaggio del Ducoli è ancor più memorabile, vi
assicuro che danno al vento un suono mai udito, sarà mai che l’artista che
dimora in lui si sia ulteriormente affinato? Probabilmente sì ma vi
confesserò, in tutta sincerità, che questo timido ubriaco (questo resta, non
fatevi ingannare) ha finalmente una famiglia attorno a sé. Una famiglia che
lo stima e che lo rimprovera, che corre in suo aiuto quando elementi
distillati lo trascinano su di una rotta non necessariamente errata, ma
insensatamente più lunga del dovuto. Una famiglia che gli ha permesso, stavolta fuor di
metafora, di aprire la sua voce. Questo disco è la voce di Alessandro Ducoli,
una voce che dentro di sé raccoglie un po’ di mare (vi dicevo che il mare non
dimentica). La sensazionale e disarmante normalità di ciò che è
profondo. MALASPINA (1999) Recensione di
Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk
ANCHE IO NON POSSO
ENTARE (2001) Recensione di
Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk
Anche io non posso
entrare – Marco Quaroni (Il ritorno di Ducoli, musicista raffinato; Il Giorno
03-04-2001) Anche io non posso
entrare; un titolo che evidenzia anche un preciso percorso artistico
e culturale, una dedica speciale ad un artista che intitolò il suo disco
d'esordio "Ingresso libero". Alessandro Ducoli,
è un musicista di stampo antico e prezioso, residente a Breno ma
artisticamente legato alla Valtellina, terra che ha dato i natali alle sue
prime, entusiasmanti esibizioni dal vivo. Negli ultimi quattro anni ha inciso
due dischi con il gruppo come Bacco il Matto, San Marco e Cercatori d'oro, e
altri due da solista "Lolita" e "Malaspina". Con uno stile che
alterna un rock'n'roll crepuscolare ad un cantautorato italiano che molto si
avvicina alla lucida maestria di Rino Gaetano e Vinicio Capossela., il Ducoli
si presenta con la terza fatica solista. Si tratta di un'opera che contiene
11 importanti tracce di vita e che da Perfetta a Giovanna, da Io
ti sparerò per primo a Alcune cose inutili, alterna un rock spesso
urlato in un megafono waitsiano a ballate romantiche e vagabonde rette da una
voce calda e da un gruppo di musicisti di valore assoluto. Ducoli presenterà
il disco in Valtellina con una serie di serate che lo porteranno nel mese di
maggio in Aprica e poi a Tirano. “La nuova canzone
d'autore ha anche la voce di Ducoli; CONCERTI A Bolzano per pochi una
grande serata”- Fabio Zamboni (L’Alto Adige; 15-10-01). Quando si scrive
di un concerto, lo si fa un poco per chi c'era, al concerto, e un poco per
chi non c'era: ai primi si offre una chiave di lettura, ovviamente e
giustamente soggettiva, della serata; agli altri la notizia di un evento a
cui non hanno potuto o voluto partecipare. In questo caso - il concerto che
il cantautore Alessandro Ducoli ha offerto con la sua band nel secondo sabato
live del circolo Masetti, a Bolzano - i pochi che c'erano hanno vissuto così
intensamente il rapporto con il musicista da rendere superflua qualsiasi
interpretazione. Racconteremo perciò agli altri: agli assenti giustificati ma
anche a tutti quelli che si lamentano ché a Bolzano non c'è mai niente di
nuovo e a tutti i musicisti locali che avrebbero bisogno di aria fresca, di
un confronto con realtà diverse. A tutti questi
diremo che Alessandro Ducoli, trentenne camuno (Val Camonica) con alle spalle
una mezza dozzina di dischi col suo cognome ma anche con lo pseudonimo di
Bacco Il Matto nella sua versione più folk-rock e springsteeniana, ha offerto
oltre due ore di canzoni piene di vita e di musica, esaltandone le qualità
intrinseche (quelle che si possono ascoltare nel cd) con una performance
fatta di una voce fumosa e sincera, di introduzioni folgoranti, di uno
spessore musicale dovuto alla qualità dei singoli strumentisti ma anche e
soprattutto alla credibilità di un progetto in cui tutta la band crede
pienamente: con molta ironia e molto divertimento ma anche altrettanto
impegno e fantasia. Il rock-blues di Io
ti sparerò per primo e di Rosa, lo ska di Tre linee confuse,
i dolci languori di Lulù e il rock possente di Berlicche danno
allo show un andamento che rinnova curiosità e interesse canzone dopo
canzone, passando per qualche pezzo più datato e per alcuni inediti tra cui
un commovente omaggio a De André (Nina). Il Ducoli racconta la sua vita,
piccoli e grandi accadimenti quotidiani tutti condizionati dall'amore. Ma è una
vita (e un amore) per niente banale, vissuta con la passione di un
non-allineato, di uno che tira tardi la sera, che non accetta compromessi,
che le canzoni le suda e le fuma, e le scrive con la penna intinta nella
schiuma della birra. Parole semplici, immagini immediate, eppure nessuna
banalità. Fatte le debite proporzioni, scorrono davanti i fantasmi di
Capossela e di Tom Waits, ma non c'è imitazione, nemmeno nelle ballate
sghembe come Sgangherata in cui paragona le rane illuminate dai fari
su una strada piovosa agli artisti che si agitano sotto i riflettori del
palcoscenico. Poesia e ironia, e tanta voglia si cantare e di suonare. Insomma, i nuovi
cantautori italiani esistono, anche se il mercato crede che non ci sia più
nessuno dietro ai De Gregori e ai Fossati. E se non se ne accorge il mercato,
figurarsi se ne accorgono i bolzanini, e di loro quei pochi che ancora
cercano qualcosa di nuovo nella canzone d'autore italiana. Anche io non posso entrare - Corrado
Spotti (Bergamo settimanale 11-11-01)
L'apertura
dell'album è di quelle che attizzano. Perfetta è una canzone che fa
onore al suo titolo e sembra tratta da un Tom Petty d'annata ,diciamo
all'altezza di "Damn the torpedos". Poi il resto del disco si
dipana con piacevole consapevolezza,attraverso un rock cantautorale che non
si trattiene da sconfinamenti inaspettati. C'è la fisarmonica e c'è il
contrabbasso,il sax e il clarinetto,un bel po' di tastiere e,di tanto in
tanto, una chitarra elettrica curiosamente riminescente dei suoni di Donald
"Buck Dharma"Roeser dei Blue Oyster Cult più accomodanti. Ma
soprattutto, c'è molta scrittura cantautorale , presa in mezzo tra l'Italia
impegnata e il rock americano . Alessandro Ducoli
non è sconosciuto dalle nostre parti. Viene da Breno e vanta all'attivo,prima
di questo album, un paio di dischi in proprio e con i Bacco il matto,il suo
progetto collaterale. Ha frequentato a
lungo i locali della zona bergamasca, meglio se dell'area Sebina, ed è un
indubbio piacere vederlo crescere musicalmente, con un album di livello che
gli permette una visibilità più ampia anche su scala nazionale. Di Anche
io non posso entrare parliamo con qualche mese di ritardo sull'uscita,
grazie anche alla circostanza di un'esibizione di Ducoli: il prossimo 1
dicembre al Ninfea di Spinone al Lago. Ma ne vale la pena, perché si tratta
di un album di qualità. Ora, però, per Alessandro Ducoli le cose
diventano complicate. Come dare un seguito ancora più grande ad una carriera
alimentata da un evidente talento? A questo punto non basta più fare belle
canzoni. “E' tenera la
notte a Villa di Tirano”. Paolo Redaelli ( E' tenera la notte
a Villa di Tirano e risuona di parole e di musica, perché sul palco del
Funanà ci sono Alessandro Ducoli, cantautore con band e Marco Quaroni,
scrittore tout court. Insieme danno vita ad una strana serata in questo
locale dal nome esotico e misterioso (nessuno sa spiegarcene il significato,
ma «fu» sta sicuramente per fumoso, come appunto si addice alla bisogna),
pieno di ragazzi che in un venerdì di gennaio han voglia non solo di bere ma
anche di ascoltare suoni e parole. Quando la
temperatura è giusta, parte Quaroni, cappello nero e sciarpa scarlatta,
recitando le recensioni giunte on line ai suoi prodotti letterari, la più
benevola delle quali recita, parafrasando il titolo dell'ultima sua fatica:
«gli struzzi sono buoni solo al forno». E' un modo per rompere il ghiaccio,
perché il giovane vecchio ragazzo (1976) sa scrivere bene e i suoi libri
meriterebbero maggior fortuna, anche se sono oggetto di culto
appassionato. Quaroni è di Villa e in
questo piccolo paese è cresciuto anche un altro scrittore (e saggista e
regista) come Grytzko Mascioni. Mica male per un agglomerato di duemila
anime, sparpagliato qua e là sui monti. Marco dichiara il suo affetto per il
borgo natio e selvaggio e poi lascia spazio ad Alessandro Ducoli da Breno,
Valcamonica, cantautore roc(k)cioso e ironico che a me ricorda Rino Gaetano e
John Hiatt, destreggiandosi tra rock e swing e ragtime e blues e reggae con
una musica composita che non conosce la parola noia. La band è più che all'altezza e si lancia
in gustose improvvisazioni, anche Ducoli è uno che con la penna ci prende
(non solo quella della chitarra) e canta di amori perduti e di storie malate
e di caserme. Ma non è un lagnoso songwriter. La sua musica possiede qualità
ed energia e i titoli colpiscono come slogan: «Io ti sparerò per primo», «Io
convivo bene con la mia pazzia». E la band (Lorenzo Lama chitarra, Massimo
Saviola basso, Renato Saviori tastiere, Arcangelo Buelli batteria), macina
chilometri su strade polverose e c'è un bellissimo momento quando Lama
insegue echi hendrixiani in una «little wing» cantata in portoghese da
Ducoli. Pausa per un po' e
Quaroni vuol fare leggere a Veronica Sbergia (bella voce blues prestata alla
letteratura) il suo racconto su Vladimir Kaifa, novello Icaro salvato dal
provvidenziale letame, ed è una bella parabola sull'umiltà. Però il pubblico
borbotta e le parole si perdono. C'è più rispetto per la musica che per le
lettere, ma la ditta «Quaroni e Ducoli» forgiata da amicizia vera va dritta
per la sua strada con pervicace ostinazione e a ottobre uscirà un «lisco» (o
«dibro») a quattro mani e queste serate servono a collaudare il prodotto che
verrà. Siamo ansiosi. “Poesia e ironia,
la band del Ducoli stupisce e conquista”. Ilenia Posterla (Il Giorno;
27/01/02) VILLA DI TIRANO:
Poesia e ironia, Musica e impegno. Quando una voce calda e sincera riesce a dare
colore ai versi di un prosatore può nascere una serata particolare. Canzoni,
deliri e sentimenti sono stati gli ingredienti del venerdì sera al pub Funanà
di Villa di Tirano. La band del Ducoli ha stupito i numerosi presenti con
arrangiamenti e assoli, vocali e strumentali, di sicuro effetto e di qualità.
Il rock metropolitano, con tratti di blues e reggae, si è fuso magistralmente
con la tradizione della musica italiana d'autore. Le canzoni di Alessandro Ducoli, trentenne
camuno con al suo attivo due dischi da solista e due con il gruppo, oltre
all'ultimo lavoro "Anche io non posso entrare" sono un inno alla
vita, riempiono il cuore di pensieri e la mente di sensazioni. La voglia di
trasmettere musica, parole e canzoni del Ducoli, della sua band e di Marco
Quaroni, giovane valtellinese compagno di avventura, autore di un romanzo,
una raccolta di racconti e un monologo, "Struzzi da corsa", ha
contagiato i giovani e i meno giovani che si sono trovati al Funanà la scorsa
notte. L'insolito e
indovinato sodalizio musicale e letterario si va consolidando con serate
nelle varie località non solo di Valtellina e Valcamonica, ma anche al di
fuori del territorio regionale (sono stati a Bologna e a Roma). Il prossimo
appuntamento in calendario è a Bergamo città (per avere maggiori informazioni
si può digitare l'indirizzo www.ilducoli.cjb.net) il 29 gennaio. Da
risentire. Lolita – Gianpaolo
Laffranchi (Bresciaoggi; 17 ottobre 2007) Un album da bere.
Doppio come un whisky, distillato nel 1996 e imbottigliato nel 2007. Alzi la
mano chi ricorda un esperimento del genere. Originalità: è il marchio di
fabbrica di Alessandro Ducoli, cantautore Doc orgogliosamente distante dalla
categorie di ieri, oggi e domani. Con «Lolita’s Malts» sale sul macchina del
tempo e gioca a confondere le acqueviti con un disco che è a tutti gli
effetti il suo primo, tirato a lucido con marchingegni tecnologici.
Lolita – Cesare
Casalini (Vocecamuna; ottobre 2007) L'aveva detto, il
Ducoli, che aveva l'intenzione di rimettere mano ai nastri del vecchio
"Lolita", l'album che ha rappresentato il suo esordio su CD nel
1996. Quello che non aveva preannunciato è che l'intenzione era quella di
rivisitare i pezzi di quel bel disco, originariamente molto jazzato, in
chiave elettronica, una cosa un po' difficile da aspettarsi da un tipo come
lui. Fa infatti un po' specie pensare ad Alessandro Ducoli in mezzo a un
techno raver studio a registrare questi pezzi, ma il risultato che ne viene
fuori è sicuramente interessante ed affascinante, visto che nella nuova
versione le canzoni non perdono un'oncia del loro significato e del loro
fascino, anzi, in certi casi ci guadagnano, come in "Benny Jag
Blue", dove viene accentuato e messo in evidenza il ritmo reggae, che
peraltro non è presente solo qui. Tra i miei preferiti, sicuramente
"Luna ubriaca", con voce filtrata e un ritmo ipnotico, "Nuda e
cruda", e "Sapore nero", che personalmente mi ricordano il Tom
Waits più sperimentatore e folle. Tutte le canzoni sono poi accompagnate
dalla descrizione minuta del tipo di whisky adatto all'ascolto di volta in
volta. Per coloro che si dovessero scoraggiare davanti a un ascolto così
inatteso, niente paura: c'è sempre il "Lolita" vecchio, denominato
"Middle Cut", visto che è l'imbottigliamento che viene dall'alambicco
(cioè l'originale). Invece la "1st release" (che poi sarebbe
"Lolita's malts") è la prima distillazione dopo l'invecchiamento di
11 anni. Io non sono un intenditore di whisky, ma una bottiglia invecchiata
di 11 anni dovrebbe essere al punto giusto, no? E allora, alla salute! Lolita - Giorgio
Baratto (Viceversa) Opera prima per
Alessandro Ducoli, in verità esisteva già un demo ma purtroppo la mancanza di
esperienza e una produzione sicuramente non idonea alle sue composizioni
avevano fatto sì che quel nastro non lo rappresentasse. Discorso diverso per
questo CD che si avvale della collaborazione di ottimi musicisti che
rappresentano l'elite della musica jazz italiana, il risultato è un disco
denso di atmosfere jazz e solo il brano introduttivo Lolita varrebbe i
soldi dell'album, il tessuto sonoro di tutto l'album ricorda molto gli ultimi
lavori di Guccini la struttura delle liriche è però meno complessa del più
famoso cantautore emiliano. Un CD autoprodotto
dalle atmosfere molto eteree dove i testi e le musiche di Ducoli vengono
arricchite dagli interventi dei singoli musicisti, e l'ascoltatore viene
cullato dalla fisarmonica di Fausto Beccalossi dalle tastiere di Andrej Kutov
dal contrabbasso di Andrea Donati e il sax di Federico Putelli. Cercatelo e
non ve ne pentirete. Il CD è di
difficile reperibilità in quanto autoprodotto ma potete richiederlo
direttamente all'autore: Alessandro Ducoli Via Gera N. 6, 25043 Breno (Bs). Lolita - ZenRen
(360°) Nove pezzi tendenzialmente
swingati in questa autoproduzione di Ducoli, diluiti in atmosfere
crepuscolari - perchè come canta lui stesso “qualche volta questi raggi di
sole danno veramente fastidio” - ben realizzate con fisarmonica, allunghi di
violoncello e definiti espressionisticamente dagli urli del sax. Suppongo che
alcuni riferimenti musicali possono essere Conte o forse di più Capossela.
Anche il canto è swingato, forse un pò ripetitivo, come le melodie, ma del
resto qui stiamo ciondolando sull'ultimo bicchiere, nell'ultimo bar,
nell'ultima delle tante noti sempre troppo brevi e troppo inutili. Stiamo
aspettando quel qualcosa di non ancora definito, quel qualcosa di puro cui
aspira ogni anima immatura, inondata di interrogativi, gonfia di sentimento
che ancora non sa davvero cos'è l'amore è l'oggetto della lacerata ricerca
che sta svolgendo su un campo vasto quanto lo spazio tra paradiso e inferno.
Che ancora non sa che servirà a niente. Buoni anche i testi, che parlano per
lo più di amori annebbiati della sfumata tristezza giovanile dalla quale però
emergono i tratti decisi di un carattere forte in divenire. Amori che si
consumano di notte, tra sangue, pelle, carezze, desiderio, calore, baci,
suoni e odori, mentre la finestra dell'alcova è una tela nera su cui i
lampioni disegnano nell'aria fredda della notte fitte macchie di luce, come
un firmamento. E a parte la ingenuità o la ruffianeria di versi come “la
notte è fatta per sognare ... amare ... ballare” - troviamo anche “la coda
del diavolo incollata all'asfalto” e “l'uomo è un cane che urla alla luna
anche quando è contento”. Qualcuno ricorda
che l'amore è un cane che viene dall'inferno secondo Bukowski? Insomma i
pezzi reggono ottimamente queste atmosfere notturne. Il che ne conferma la
validità. Se avrete occasione di sentirle dal vivo, vi sorprenderanno per
l'energia che covavano e che esplode nel riarrangiamento per gruppo rock. Il
lavoro è tutto scritto, arrangiato e prodotto dal Ducoli. Visti i risultati
non mi pare poco. INTERVISTE Cesare
Casalini, www.vocecamuna.it CESARE: Il
terzo e ultimo elemento a esibirsi stasera al Conary Goes Acoustic 2004 è
stato un signore che tutti noi ben conosciamo e che si è nascosto dietro il
nome di Grapefruit Moon, in realtà è Sandro Ducoli. Come mai questa
denominazione fittizia? SANDRO: Nella
tavola degli elementi io mi configuro come lo stronzio. Dovevo venirci con
Mario Stivala e Federico Troncatti, doveva essere una cover band di Tom
Waits, dovevamo fare Grapefruit Moon, però poi non avevano tempo. CESARE: E ti
hanno lasciato solo. SANDRO: Sono
stato presentato da un DJ che è griffato Sisley sopra e Rocco Barocco sotto.
Una serata veramente storta all'inizio. CESARE: Ho
notato una serie di cover più qualche pezzo tuo pre-Bacco il Matto che tu hai
rispolverato e che io ti dicevo da una vita di rispolverare, ma tu non mi
ascoltavi, ad esempio "Benny Jag Blue"... SANDRO: Ho
scelto le cover perchè sapevo che qua alla gente non glie ne frega niente,
quindi faccio un po' di ever green perchè evito di proporre le mie
allucinazioni mentali, ma mi sono accorto che anche degli ever green non glie
ne frega niente, probabilmente devo smetterla di fare queste pantomime
rovk'n'roll. C'è troppo rock'n'roll in giro per pensare di proporre il mio. CESARE: A
proposito di rock'n'roll in giro, sto avendo notevoli riscontri tramite la
radio e tramite gente che ha ascoltato il disco, sull'album di My Uncle The
Dog, e che mi dice che è un bellissimo album. SANDRO: Deve
essere poca la gente che ha ascoltato il disco perchè ce li ho ancora quasi
tutti a casa. Però quei pochi che lo hanno ascoltato sappiano che gli sarò
eternamente grato. CESARE:
Sappiano che si tratta del miglior disco rock mai uscito in Val Camonica e in
Lombardia, in Italia non so, va bè, non andiamo
troppo oltre, però... SANDRO: Non so
quali dischi di rock italiano conosci, io ne conosco veramente pochi. CESARE:
Comunque tra quelli che conosco io è uno dei massimi, soprattutto una canzone
che mi è piaciuta parecchio e su cui vorrei chiederti qualche lume,
"Lacqua". SANDRO:
"Lacqua" è una canzone un po'... ma poi sai, quando scrivi queste
cose qui poi la gente non le capisce. Una canzone che cerca di raccontare il
pentimento di un guardiano delle riserve idriche del 2040, siccome l'acqua
fra qualche anno sarà il petrolio del futuro, il guardiano si pente di quello
che sta facendo e vuole liberare questa riserva idrica per lasciare che
l'acuqa corra di nuovo. Non so se bisognava dirla questa cosa, comunque è una
canzone abbastanza difficile. CESARE: Ultima
domanda: come mai hai iniziato con Bob Dylan? SANDRO: Ho
iniziato con Bob Dylan perchè dovevo preparare la canzone per gli Spanish
Johnny, siccome ci metto molto a imparare i testi, faccio molta fatica, ho
cominciato a prepararmela da solo, ho detto: la faccio perchè è un pezzo che
funziona sempre. Mi sono dimenticato le parole della terza strofa. CESARE: Grazie
e speriamo di vederci in finale. Mescalina (Christian
Verzelletti; giugno 2003). Mescalina è
orgogliosa di pubblicare la prima intervista mai realizzata in assoluto ad
Alessandro Ducoli in quindici anni di presenza nel Folk-Rock italiano,
ammesso che questo esista e che non sia piuttosto una sorta di limbo. Sulla scia di “Taverne, stamberghe,
caverne”, disco da poco pubblicato con “La banda del Ducoli”, siamo risaliti
alla lunga storia di questo cantautore, originario della Valcamonica, fino a
colmare un lasso di tempo personale ed artistico trascurato da molti.
Pubblichiamo questa lunga chiacchierata nella speranza che qualcuno, oltre a
noi, riesca a farne tesoro … prima che passino altri quindici anni. Allora, Alessandro, vi ho conosciuto solo ora con
questo disco: dove siete stati voi o dove sono stato io? Credo sia più un mea
culpa … Io sono sempre
stato qui, “rinchiuso” in Camunia mentre i miei compari hanno sempre suonato
nel circondario di Brescia. Forse non è colpa di nessuno, semplicemente
l’Italia offre spazi e occasioni sempre più piccole per potersi esporre e
proporre. Raccontaci un po’ la tua/vostra storia, da Bacco il
Matto … In una riga: “….
disperato paroliere chitarraio camuno. Praticamente ignoto, altrimenti
dimenticato ….”. In realtà: “…. Ho iniziato verso la metà degli ‘80
avvicinandomi alla musica attraverso il cantautorato italiano più o meno
“classico” e qualcosa del folk americano più conosciuto. Con un gruppo di
amici ho fondato gli Springs con cui, oltre a canzoni mie, proponevamo alle
festicciole canzoni di Neil Young, Bruce Springsteen, De Gregori, Dylan, De
Andrè, Waterboys, U2, ecc. In questa formazione suonavo l’armonica e cantavo.
Le prime cose che scrivevo ovviamente soffrivano dell’inesperienza giovanile
(ad esempio trattavano i “grandi” temi della vita che, un quasi 18enne spesso
non riesce a rendere in maniera adeguata). Erano comunque buone cose e alcune
di esse ancora oggi le suono privatamente … conservo un demo registrato molto
bene di un concerto in cui ci sono le cose migliori che abbiamo costruito con
gli Spings … Magari un giorno lo potrai vendere come un pezzo da
collezione … o magari un po’ prima di quel giorno, non si sa mai che qualcuno
leggendo l’intervista … Il primo grande
cambiamento è arrivato con l’Università. I Jane’s Addiction, i Pearl Jam, gli
Alice in Chains, gli Screeming Trees e i Nirvana (capisci di cosa sto
parlando? Erano finiti gli anni ’80!). È stato un momento che mi ha portato a
sviluppare una certa curiosità nello stile di scrittura “non italiano” ed a
conoscere infinite quantità di musica: Tim Buckley, Nick Drake, Joni Mitchell,
Tom Waits, John Martin. Nel frattempo ho approfondito la conoscenza dei
cantautori Italiani che amavo di più: De Gregori, Conte, De Andrè e Rino
Gaetano. In quel periodo nascono i Pond Spashing (letteralmente “sguazzare
nella pozza”), poi ribattezzati Cantina Occupata (credo in segno di protesta
alle occupazioni gratuite di certe fazioni studentesche del periodo; qualcuno
forse si ricorderà I due anni
successivi, con l’aiuto di Luciano Mirto (chitarrista camuno), ho realizzato
un demotape nel 1993 (“Rosso”) e uno a cavallo tra il 94 e il 95 (“Sopra i
muri di questa città”). Nonostante la pesantezza dei due lavori sono riuscito
a farmi ammettere ad una delle infinite semifinali di Rock Targato Italia
(certamente uno degli episodi più tristi della musica italiana). Suonavo da
solo su una base preregistrata: uno schifo di spettacolo. Mi sa che di questo sarà ancora più difficile
piazzarne la registrazione! L’anno successivo
ho deciso di cambiare registro e di costruire il mio primo vero album
solista: “Lolita”. I demo precedenti mi avevano deluso perché non ero
riuscito a dare la forma giusta alle canzoni; questa volta volevo un disco di
fisarmoniche, contrabbassi, pianoforti e sassofoni. Ci sono riuscito. Forse
per fortuna o forse perché ad aiutarmi ho chiamato dei musicisti di
prim’ordine tra cui anche Arcangelo Buelli che nemmeno si rendeva conto di
quale collaborazione negli anni successivi avremmo intrapreso. “Lolita” è un
disco che contiene diversi errori tecnici e alcune ingenuità compositive che
tuttavia si equilibrano in maniera meravigliosa nel mood complessivo del lavoro.
La mia intenzione era quella di produrre un disco notturno di canzoni
romantiche e deliri alcolico-amorosi (forse Tom Waits in quel periodo era
l’artista che mi interessava di più ma non credo sia andata del tutto così)
per cui anche l’ingenuità doveva essere una componente poetiche delle liriche
e delle musiche. “Lolita” contiene alcune canzoni che ancora oggi la gente mi
chiede di cantare ai concerti; forse un giorno riapriremo i nastri del lavoro
per correggerlo (forse ricantarlo) e per farne una masterizzazione dignitosa. Scusa se insisto, è che di solito gli archivi dei
musicisti vengono recuperati e resi noti dopo la morte degli stessi … questo
ribadire vuole essere un augurio a due sensi … La partecipazione
ad un concorso musicale (l’ultimo della mia vita) è stato il “pretesto” per
rimettere in piedi una banda. Mi piaceva il nome Bacco il Matto perché
contiene un omaggio alla mia terra (in camuno “bacco il matto” significa
letteralmente “faccio il matto”) e soprattutto perché sottolinea l’unico dio
che ritengo davvero interessante. Ho coinvolto nel progetto Nicola Bonetti
(che conoscevo perché spesso mi chiamava nella sua band per suonare
l’armonica), e Mario Stivala che era uno dei migliori chitarristi che la
camunia potesse schierare. Alla fine del 1996 è nata Abbiamo iniziato a
mettere in piedi il repertorio arrangiando
alcune canzoni di “Lolita” in veste elettrica (è incredibile ascoltare
come in entrambe le situazioni il contesto delle canzoni venga mantenuto
intatto e ne sia rispettata l’esigenza comunciativa) e canzoni di Young,
Springsteen, Iggy Pop, Lou Reed, ecc. Abbiamo fatto una serie di serate molto
intense e la gente ha risposto con grande entusiasmo: “Questa sera andiamo a
vedere il Bacco”, ecco cosa diceva la gente in camunia (eravamo davvero una
buona Rock’n’Roll band). Purtroppo nel 1997, quando le cose con il Bacco
stavano girando a mille all’ora, sono dovuto partire per il Corpo degli
Alpini e c’è stato un anno intero di stop. Al ritorno dalla Tridentina di
Bressanone ho trovato una banda praticamente sfasciata per i soliti motivi:
matrimoni, impegni di lavoro ecc. Nella tua storia c’è sempre qualcosa che si fra te ei
tuoi progetti, fra te e la realizzazione della musica … anche questo è molto
“rock”, intendo come difficoltà e sofferenza per giungere alla musica … Nicola Bonetti ha
deciso di riprendere in mano le redini della situazione e abbiamo rimesso in
piedi il Bacco. Abbiamo chiamato al basso Luca Pedrazzi e alla batteria Mauro
Ferretti. È stato un anno intensissimo di concerti che è culminato con la
registrazione di “San Marco”. Due giorni in un garage di Berbenno con il
fonico Giuseppe Salvatori e il primo disco del Bacco era pronto. San Marco
esprime la “necessità di Rock’n’Roll”; canzoni come “Cane randagio”, “San
Marco”, “Nuda e cruda”, “Marisa ha un nome”, “Babilonia”, lo sottolineano con
tutta la forza che avevamo (ti assicuro che era davvero tanta). Il disco è
stato ben accolto dalla critica anche se i tuoi colleghi non si sono mai
spesi molto per riconoscere che in quelle canzoni oltre a tante buone cose
c’era davvero del Rock (intendo nel senso più filosofico del termine – senza
nessuna presunzione - per me per “essere Rock” prima bisogna “vivere Rock”,
poi dopo si capisce cosa significa e si riesce a dare il proprio contributo,
grande o piccolo che sia; band che copiano il Rock americano ti accorgi che
non sono rock perché non vivono così). Il pubblico ha salutato il disco
gloriosamente. “Nuda e cruda” è addirittura diventato il grido di battaglia
degli operai della ferriera di Lovere alla fine della giornata di lavoro.
Cheap Taylor, in vacanza in quel periodo a Bologna, riceve da un nostro amico
(Mauro Eufrosini) un copia di “San Marco” e lo trova molto sincero: ci regala
una canzone speditaci direttamente da NY in una busta contente soltanto la
registrazione DAT di Raffaella. Incredibile: Rock, troppo Rock! Euforia, non
credevamo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, eravamo già pronti per
iniziare a lavorare al disco nuovo. Parallelamente ho
cominciato con Mario Stivala ad arrangiare un pugno di canzoni cui volevamo
dare una veste decisamente acustica. Abbiamo lavorato come dei folli e ad
aiutarci abbiamo chiamato Arcangelo Buelli che oltre ad aver suonato ha
interamente curato la realizzazione del disco. Inizialmente volevamo fare un
doppio album di 18 canzoni, ma per motivi soprattutto di tempo e risorse abbiamo
registrato 15 canzoni. “Malaspina” è il disco che amo di più tra quelli che
ho realizzato, anche per il contesto in cui è stato realizzato: era la mia
via di fuga da un periodo devastante per questioni familiari ed era il mio
modo di affermare che si può fare musica di buon livello anche al di fuori
dei grandi centri della produzione musicale italiana. Il disco doveva
apparire come una sorta di episodio nel mio percorso musicale che in quel
periodo era praticamente centrato sul progetto Bacco il Matto. Non è stato
del tutto così, perché le canzoni contenute in “Malaspina” hanno colpito i
coraggiosi che hanno ascoltato il disco riconoscendomi finalmente la
qualifica di cantautore. Bellissimo, grande musica. La confezione del disco è
molto particolare (praticamente un suicidio finanziario) e contiene un
booklets ricchissimo cui sono allegate una serie di poesie deliranti del mio
periodo universitario (molti non hanno capito il vero senso della cosa e mi
hanno accusato di presunzione e volgarità gratuita; io oggi credo aver fatto
la cosa giusta anche se si può ammettere che qualche animo sensibile possa
rimanere urtato da certi “bassi” contenuti del “simpatico” componimento: il
miracolo della poesia). La promozione di “Malaspina” è stata praticamente
sacrificata perché inconciliabile con l’intensissima attività live del Bacco.
Praticamente con i Bartolino’s (io, Mario Stivala, Oliviero Testa, Mirco
Spreafico e Giorgio Premoli) abbiamo fatto due sole serate entrambe aperte
dalla canzone “Aguaplano” di Conte tanto per far capire di che genere stavamo
trattando: un successo. Cominciavo a sentirmi su di giri e volevo a tutti i
costi produrre altre canzoni. I tempi erano maturi per registrare un disco
nuovo del Bacco. “Cercatori d’oro”
è il secondo e ultimo disco realizzato dal Bacco. L’ingresso di Dario Filippi
al basso in sostituzione di Luca Pedrazzi sposatosi in Valtellina, è stata
l’occasione per approfondire il percorso musicale del Bacco e il pretesto per
scrivere nuove canzoni. L’esigenza di Rock’n’Roll espressa in “San Marco”
rimane intatta in questo disco che però approfondisce i temi lirici tutti
centrati sulla metafora del “cercatore d’oro”. Il disco è stato realizzato
con l’aiuto di Roberto Ortolan, di Arcangelo Buelli e di Valerio Gaffurini.
Questa volta non volevamo realizzare un lavoro “garage” perché i temi erano
più riflessivi e in un certo senso più delicati. La critica questa volta ha
accolto il lavoro con qualche entusiasmo in più (comunque mai eccessivo). Nel
momento di maggior successo del Bacco, Nicola Bonetti ha mollato la presa per
questioni di lavoro trasferendosi in Friuli. Evidentemente l’esigenza di
Rock’n’Roll non era più così forte. Il Bacco ha finito la sua avventura
all’inizio del 2001. Quello che è successo dopo è la storia recente, praticamente
quella della Banda del Ducoli. Di nuovo la difficoltà nel perseguire, nell’inseguire
e nel trovare il “rock”? … però avevo
iniziato a intuire i primi problemi del Bacco già un po’ ed avevo deciso di
mettermi a produrre un nuovo disco solista. Ad aiutarmi ho chiamato ancora
Mario Stivala che ha curato la preproduzione di “Anche io non posso entrare”.
Arcangelo Buelli ancora una volta è stato il “direttore d’orchestra” e ha
scelto come collaboratore Massimo Saviola che già in “Malaspina” aveva suonato
il basso. Massimo è stato chiamato perché servivano arrangiamenti nuovi e
occorreva “azzardare” musiche più complesse di quelle finora realizzate.
Considera che il suo ruolo alla fine si è rivelato determinante anche per
dare una decisa svolta alle mie canzoni. Fino a quel momento infatti la mia
esigenza era sempre stata quella di badare
unicamente ai testi lasciando la fase di arrangiamento e studio delle
musiche “forse” in secondo piano. Anche io non posso entrare” è stato
identificato come il disco della mia maturità artistica. Non so se sono
d’accordo, ma comunque, se lo dicono tutti, forse è così. La svolta di tutta
la faccenda forse è proprio successa a cavallo tra le vicissitudini del Bacco
e la lavorazione di “Anche io non posso entrare”. Visto come si erano messe
le cose con il Bacco, ma soprattutto in considerazione dei buoni risultati
ottenuti lavorando insieme ad Anche io non posso entrare, credo Arcangelo e
Massimo mi abbiano letteralmente salvato la vita. Forse sono stato
un po’ prolisso ma è la prima volta che mi viene chiesto di raccontare la mia
storia. Sorry. Non sembra proprio che comunque la storia possa
considerarsi conclusa, visto quello che sta facendo “La banda del Ducoli” … Il progetto “La
banda del Ducoli” è un po’ complesso da descrivere in due righe perché
racchiude cinque personalità tra loro molto diverse. La forza del progetto
credo sia anche questa, dal momento che la collaborazione tra di noi ha dato
solo ottimi risultati (almeno per noi è così, credo anche per gli altri).
Oltre ovviamente ad Arcangelo e Massimo che sostanzialmente sono
identificabili nei “direttori” artistici” (non so cosa voglia dire
esattamente ma sostanzialmente intendo “quelli che si sbattono per dare un
senso musicale ben definito al progetto”), suonano Lorenzo Lama alla chitarra
e Renato Saviori al pianoforte. Anche loro sono musicisti molto conosciuti e
apprezzati nel circondario musicale (ovviamente escludo il Ducoli che di
circondario ha ben poco da parlare). Siamo un ottima band, purtroppo abbiamo
poche occasioni per poterci promuovere. Per ora va bene così, anche se un po’
di rammarico comunque c’è. Senza nessuna presunzione, ritengo infatti che
proponiamo ottima musica e soprattutto un concerto intensissimo (sia dal
punto di vista umano che dal quello tecnico). Purtroppo sembra che nemmeno
questo basti a garantire rispettabilità e occasioni. Pazienza.. Parlando di storie non posso non chiederti del libro
che avrebbe dovuto accompagnare il disco … I due progetti sono nati insieme
già come idea o si sono incontrati strada facendo? Il libro è stato
scritto da Marco Quaroni con cui, oltre all’amore per il Rock’n’Roll, condivido deliri alcolico-culinari e
avventure notturne in giro per le bettole delle Alpi. Ci siamo conosciuti,
perché ad un nostro concerto del Bacco ho suonato una versione di “Adam
raised a Cain” del Boss particolarmente riuscita. La nostra prima
collaborazione è identificabile nello “scambio di prefazioni” tra il disco
“Anche io non posso entrare” e il libro “Struzzi da corsa”. Da lì in poi
abbiamo passato molte serate a discutere di musica e lettere ed è nata l’idea
di convogliare i nostri successivi progetti in un opera comune. Nei momenti
più deliranti abbiamo sostenuto che “Le taverne” sarebbero state la più alta
espressione dell’arte dei “finiti” mai realizzata in Italia. Forse abbiamo un
po’ esagerato, ma lo spirito del lavoro doveva essere quello altrimenti si
rischiava di costruire un’opera fiacca. Ma il libro di Marco Quaroni quando uscirà? Purtroppo quando
tutto era pronto per stampare i nostri lavori e le serate di presentazione
pronte sul calendario, Marco ha avuto problemi grossi in famiglia (brutte
faccende) e la cosa è saltata. Ora lui è nel suo “bimestre sabbatico” in giro
per l’Europa ai concerti di Bruce Sprigsteen, per cui credo che non prima del
15 luglio al Public house o il Tra l’altro anche il disco ha un quadro narrativo:
comincia e finisce con la stessa canzone, una sorta di struttura ciclica …
poi ha un suo paesaggio e delle storie che precisano ancora di più l’ambiente
… Di provincia? Questo fatto è
stato dettato proprio dalla necessità di dare al disco una forma quasi di
“colonna sonora” del libro. Intendiamoci, nel libro non succedono le cose che
succedono nel disco, tuttavia il concetto della storia e il percorso umano
dei personaggi del libro è stato costruito pensando alle canzoni e viceversa. Tu hai mai scritto qualcosa che non fosse una canzone? A parte poesie
volgari, no. Una raccolta di poesie, come ti accennavo, è già contenuta in
“Malaspina” (Il miracolo della poesia), poi ci sono altre due raccolte: Millennio
e L’ultima perla. Un giorno sicuramente le proporrò, forse in un'unica opera
intitolata “Miracoli e simili”; oggi non credo che il pubblico sia ancora
pronto. Scrivere è un modo per ripararsi dalla realtà, per
cercare un rifugio, un ambiente proprio? Per me no. Credo
che la realtà sia la più importante fonte di ispirazione per un cantautore.
Scrivere quello che ti accade è il metodo migliore per riuscire ad analizzare
il tuo comportamento e quindi che tipo di essere umano sei nei confronti del
mondo in cui vivi. Io in genere scrivo per descrivere: a volte descrivo
quello che faccio e quello che sono io, a volte quello che fanno e sono gli
altri, altre volte per descrivere semplicemente una strada, un cortile, una
montagna, ecc. Mi piace inoltre pensare che una mia canzone possa essere
letta anche come la mia opinione nei confronti dell’argomento che sto
trattando. È un modo per far capire che ho intenzione di espormi, non di
fuggire. Quando le canzoni si staccano dalla realtà si tratta, almeno nel mio
caso, di un “gioco della fuga” verso qualche tipo di sogno (in genere le cose
inventate appartengono ai miei deliri notturni, guidati quasi esclusivamente
dall’alcol, ma sono comunque quasi sempre ancorate agli episodi reali della
mia vita). Però potrebbe essere interpretato così il titolo del
disco? Il disco
rappresenta il mio personale omaggio alla vita di provincia delle Alpi.
Attenzione: non si tratta dell’apologia delle “piccole cose” della “piccola
provincia italiana” (la canzone italiana di queste stronzate è piena;
l’ipocrisia è sempre in agguato, ma aiuta a vendere dischi), ma più
semplicemente della descrizione dei ritmi e abitudini dell’Italia in cui io
vivo. Io l’ho inteso come se la musica stessa fosse quella
taverna / caverna, un possibile riparo a quello che ci sta attorno … Forse è più
corretto parlare di musica come possibilità di avere un amplificatore al
posto delle corde vocali e quindi di poter essere ascoltati più lontano.
Oppure più semplicemente di musica come fonte di colore sonoro alle cose che
scriviamo. Allora la musica viene amplificata dalla caverna /
taverna! … Nel booklet accenni al fatto che da sempre l’uomo è andato
costruendosi ripari, sin dai tempi delle caverne … da qui ci si è evoluti
verso le taverne, ma comunque l’uomo ha sempre cercato di rifugiarsi in
qualche buco … Non proprio,
quella frase vuole semplicemente simboleggiare la necessità di una
involuzione. Stiamo procedendo con un po’ di presunzione verso ritmi che non
vanno d’accordo con la nostra natura. Oppure semplicemente io mi ritengo
inadeguato a questi ritmi e non ritengo giusto che io e quelli come me
vengano esclusi. Le (t)caverne sono la mia forma di protesta nei confronti
dei “rifugi moderni” in cui ho la sensazione che la gente sembri essere più una
parte dell’arredamento che l’elemento principale della bolgia. Forse sono un
po’ disadattato ma non importa, in questo momento mi sento così e devo
scriverlo nelle mie canzoni. Che poi è anche la situazione del mercato
discografico, dove ogni artista per sopravvivere deve trovare il proprio buco
… ciascuno più o meno dignitosamente … Sì, anche se nel
mercato discografico italiano l’unico buco in cui puoi trovare posto oggi ti
lascio immaginare qual’è. Ovviamente ognuno sviluppa un proprio stile e un
proprio genere, ma non si tratta della ricerca di una personale collocazione
in questo o quello stile, ma credo più semplicemente dello sviluppo del
proprio “io artistico” secondo un cammino che dovrebbe coincidere con la
maturazione personale. Io oggi non cerco più una collocazione o la mia
nicchia, faccio i dischi perché ho delle canzoni che mi piacciono e ho
immaginato più o meno quale arrangiamento voglio dargli. Tutto qui. Ma torniamo a parlare del disco, che è ben più
interessante: storie di uomini e di vite, ma anche di suoni … il cantautorato
italiano, prima di tutto, no? Certo! Trattandosi
di un disco di canzoni, il cantautorato italiano è il primo punto di
riferimento. Del resto anche noi abbiamo dei maestri (sono certamente meno di
quello che vogliono farci credere, ma ci sono; alcuni purtroppo non ci sono
più) e non ritengo sia possibile prescindere dal loro insegnamento. Certo non
bisogna limitarsi a scopiazzarne gli stilemi, come fanno tanti “artisti”
anche di acclamata fama. “Nina” è un
omaggio a De Andrè, che prende spunto da “Ho visto Nina volare”? Quasi che
vogliate salutarlo, ora che è volato e che Nina lo sta a guardare … “Anime salve” è
l’ultimo disco italiano che mi ha commosso. “Nina” vuole essere un omaggio
alla bellezza di certe canzoni e di certe immagini che solo qualche autore è
riuscito a trasmettere con la sua opera. Non è una canzone per De Andrè, ma
una canzone per parlare del suo modo di scrivere De Andrè. La metafora “del
vento alla schiena” in “Ho visto Nina volare” mi ha disarmato, anche io ho
avuto i brividi quando l’ho ascoltata dalla voce del Faber e ti assicuro che
dove stavo ascoltando il disco non c’era vento. Questa credo sia la grandezza
di un autore: riuscire a trasmettere sensazioni. Tra l’altro il riferimento va ad una canzone che
“dipingeva” la morte … lo sguardo nostalgico è per la mancanza di uno come De
Andrè nel panorama della nostra musica? Per questo la necessità di fare
provviste di canzoni? Per forza di cose.
L’Italia di oggi propone poche belle canzoni e bisogna andare a trovarle in
mezzo a migliaia di puttanate di basso gusto e infima fattura. Quando se ne
trovano è meglio metterle da parte e conservarle per i momenti di carestia!
De Andrè non scriveva canzoni, dipingeva dei veri e propri quadri; ascoltando
i suoi dischi la musica e le parole servono a trasmettere immagini e farti
entrare nella storia che viene raccontata. Questa è stata la mia impressione.
Siamo molto più poveri da quando è morto De Andrè. Mi sembra che nel vostro bagaglio ci sia anche del
rock americano, sia per le ballate che per alcuni pezzi con una matrice più
robusta … ti butto lì alcuni nomi che mi sono venuti in mente: Jackson
Browne, Bruce Hornsby, Steve Earle? Questo fatto
deriva certamente dalla produzione di Arcangelo e Massimo che ascoltano poca
musica italiana. Forse gli stilemi di Steve Earle erano rilevabili più in
Bacco il Matto, ma per quanto attiene Jackson Browne e Bruce Hornsby ci siamo
appieno. Considera che l’ultimo lavoro di Browne è stato utilizzato come
“ascolto comparativo” in fase di mastering. Tra l’altro in quel disco c’è una
canzone intitolata “Sergio Leone” che dimostra come anche gli americani sanno
che l’Italia ha prodotto dei maestri; il fatto è che si sforzano più di noi
di salvarne la grandezza. E la musica leggera: “Un sabato felice” mi sembra un
canzone perfetta in questo senso … “Sabato felice” è
un omaggio ad un nostro carissimo amico che ama la musica e la vive giorno e
notte. Volevamo costruire una canzone che potesse simboleggiare la forza
della musica intesa come momento di aggregazione. Doveva per forze di cose
essere una canzone melodica, una canzone ascrivibile alla categoria della
“musica leggera”: mi sembra di capire che ci siamo riusciti. La “canzonetta”
diventa nobile quando non è ipocrita; quando è sincera diventa canzone e la
canzone è uno dei vettori di comunicazione storicamente più forti e sentiti. Il suono è molto raffinato, con clarinetto, sax e
fisarmonica, nonostante non perda in spontaneità e in quell’essere
“sgangherato” … Se ti riferisci al
suono generale del disco, certamente sì. Era l’obiettivo della produzione di
Arcangelo e Massimo costruire un disco di canzoni supportato da musica di
alto livello. I dischi italiani spesso non danno la giusta importanza alla
comunione tra musica e lettere, suonano “scollegati”. Cosa che non succede ad
esempio nei dischi di Jackson Browne, tanto per citare un nome già
utilizzato. Io credo che siamo riusciti a rendere bene sia la musica che le
lettere: siamo un’ottima squadra. Se avessimo un “rettangolo di gioco”,
daremmo del filo da torcere a tanta gente anche di serie A. Avete arrangiato, registrato e prodotto tutto voi? Il disco è stato
prodotto da Massimo e Arcangelo nello studio che Arcangelo possiede a
Paratico. Io sostanzialmente ho portato degli ibridi di canzoni che poi sono
stati analizzati discussi e arrangiati. Altre canzoni sono state scritte
insieme utilizzando musiche preparate da Massimo. Per un lungo periodo
abbiamo poi rodato i pezzi eseguendoli dal vivo, fino a quando non eravamo
sicuri che funzionassero sotto tutti i punti di vista ovvero che fossero
pronti per essere registrati. Arcangelo e Massimo sono dei veri
professionisti, è difficile sbagliare qualcosa con loro (forse il cantante
qualche errorino è riuscito a farlo comunque). Un lavoro estenuante, ci siamo
praticamente prosciugati il cervello (.. e le palle), ma non volevamo più
tirarci indietro. Del resto non è facile produrre questa mole di lavoro e
contemporaneamente conciliare tutto il resto, soprattutto se si tratta di
sacrificare lavoro e famiglia. Spero
che questo disco serva anche a dimostrare che non servono grandi mezzi e
infinite risorse per fare buona musica, ma semplicemente buone canzoni e
tanta voglia di confrontarsi con la musica stessa e soprattutto una grande
dose di professionalità (a questo però ci hanno pensato soprattutto Arcangelo
e Massimo). Nelle tue canzoni mi sembra di percepire una certa
leggerezza, ma anche la precarietà della vita … insomma, storie di perdenti,
ma non arresi e comunque felici di rimanere attaccati alla vita … Se per “perdenti”
intendi gente che non farà il presentatore televisivo o non si occuperà di
sondaggi da spiaggia, sì. Se invece intendi persone che non riescono a dare
un contributo a questa società, no. I miei personaggi sono vincitori, sempre.
Anche quando perdono lo fanno per dimostrare che nessuno riuscirebbe a
perdere come fanno loro e quindi in un certo senso si sentono i migliori. Io
poi sono interista, figurati. Ti senti così anche tu? Ovviamente. Ovvero la pioggia che non smette di cadere e il vino
che riconcilia? Se ti riferisci
alla canzone “Delirio ordinario”, sì. Quella canzone parla dell’ultimo stadio
che può raggiungere l’uomo (secondo me): quando ha perso anche il cappello e
la pioggia gli cade in testa. Però il mio personaggio non smette di stare
sotto la pioggia, lo fa perchè è giusto, perché vuole essere sicuro di avere
perso, del resto come afferma nell’ultima strofa non è del tutto colpa sua o
forse non è del tutto sicuro che sia proprio tutta colpa sua. Dalle tue canzoni proprio si percepisce la “lentezza”
della vita di provincia, o almeno di una certa provincia, forse più ideale
che reale … Realissima. Io
sono così e cerco di vivere questo tipo di provincia. La lentezza comunque
dev’essere relazionata ad una unità di misura o comunque ad un elemento di
confronto: non sono le mie canzoni che suonano lente, sono le canzoni degli
altri che suonano veloci. Eppure c’è un continuo movimento nel disco, dalla
terra che si muove sotto le scarpe alle onde del mare, dalla pioggia alle
nuvole stanche in cielo …. l’inquietudine che attanaglia l’uomo e lo rende un
viaggiatore anche quando passa tutta la vita nel suo paese? Vedo che hai
capito cosa intendo dire. Ogni cosa si muove, bisogna solo entrare
nell’ordine della velocità con cui lo fà. Saperne parlare in maniera adeguata
per me è stato sempre un motivo di ricerca lirica e di grande soddisfazione
artistica quando ci riesco (spesso mi accorgo solo io di esserci riuscito).
Ad esempio nell’album “Anche io non posso entrare” la chiusura è affidata ad
una canzone dal titolo “Alcune cose inutili”, in cui il protagonista si trova
a dover “difendere” la propria vita di fronte all’accusa gratuita di una
sorta di immobilità. In una frase afferma “ho fatto anch’io il mio giro del
mondo, avanti e indietro da una strada”. Se vuoi è un viaggio anche questo. Nel brano conclusivo, che non credo sia una variazione
casuale di “La fiera”, le navi vanno in porto da sole, mettono le vele per
amore del sale … quasi che ci fosse qualcosa di altro che induce l’uomo,
uscendo da quello che è la sua esperienza … la musica? L’arte? Certo, io vedo la
vita come un continuo viaggio verso la conoscenza, verso il confronto di
quello che siamo con quello che abbiamo intorno. Il riferimento alle navi che
chiude il disco è stato voluto per poter dare a tutta storia raccontata il
senso di un sogno circolare: una sorta di viaggio con la metà coincidente con
il “ritorno a casa”. Le navi che vanno via senza di noi vogliono
simboleggiare la bellezza del ritorno alla propria realtà ovvero di risveglio
dal sonno: “la gente si è fermata a pensare come i quadri sul muri e i cani
sono andati per strada per cercarsi qualcuno”, questo è quello che amo della
mia provincia. Torna quindi quel senso di rifugio che viene dalla
musica? Che ci mette in pace? Più che in pace,
ci mette in ordine. Considera però che la musica deve comunicare prima di
ogni altra cosa, felicità e ritmo. Il resto è in più. Io spero di esserci
riuscito, certamente il merito è tutto di Arcangelo e Massimo: le mie parole
non arriverebbero così bene se non fosse una grande musica a trasportarle. Ed è come se fosse la musica a fare noi più che noi a
fare la musica? O le storie a fare l’uomo più che l’uomo a fare le storie? Adesso mi confondi
un po’. Forse sto giocando troppo con le parole, mi ci sto
attorcigliando … finiamo con qualcosa di pratico: avete concerti in
programma? Pochi, le
occasioni sono sempre più rare. Il 24 giugno a Brescia (Lio Bar), il 15
luglio a Esine (Public house), il 22
luglio a Fino del Monte, il 4
settembre a Chiari (Le Quadre). Magari prima o poi ci si vede e si beve qualcosa
insieme! Certamente sì … davanti
a distillati degni del Rock! Grazie a te a Mescalina. My Uncle The Dog
(Christian Verzelletti; Mescalina) Una chiacchierata
con Andrea Bellicini (alias Bogartz) e Alessandro Ducoli (ex Bacco il Matto),
ovvero le due voci dei My Uncle The Dog: tutto si è svolto in cucina tra
carne e vino rosso, un po’ di insalata e molte padelle. Lo stereo che suonava
Thelonius Monk, una cagnolina che dormiva in poltrona e qualche bicchierino
di whisky hanno aiutato a parlare di Rock’N’Roll e di Beat … Mescalina: Come in tutte le interviste per bene
cominciamo a raccontare come vi siete incontrati! Andrea Bellicini: Ci siamo incontrati alle
selezioni di Rock Targato Italia! Alessandro Ducoli: È vero! Lui era nella giuria! Mescalina: Era uno di quelli che ti ha stroncato? Alessandro Ducoli: Sì, io cantavo “Binario morto”,
una canzone etilica, una sorta di Battello Ebbro adattato in Valle Camonica,
dove come sai non c’è navigazione, e lui me l’ha bocciato. Poi è venuto a
fare due chiacchiere e a spiegarmi … Andrea Bellicini: Già all’epoca ero troppo colto
per lui! Mescalina: E come siete arrivati ai MUTD? Andrea Bellicini: Si era parlato spesso di fare una
cosa insieme, ma non l’avevamo mai presa troppo sul serio; l’occasione è venuta
per l’intercessione di Davide Sapienza, che ha avuto questa idea di
suggerirci di fare qualcosa insieme, che avrebbe potuto essere interessante …
ovviamente Ducoli ha insistito, perché era ad un “binario morto” della sua
carriera, poi lui sentiva il peso degli anni e, sai, il fatto di suonare con
una band giovane e underground lo metteva nella condizione di potersi vantare
coi giornalisti di fare queste cose … Alessandro Ducoli:
No, il fatto è che, siccome loro sono ad una svolta commerciale in vista del
prossimo disco, io ho sempre paura che la loro onestà morale e il loro
spirito da bravi ragazzi della Valle venga traviato da produzioni che non
sono adeguate - perché non esistono produzioni adeguate in Italia! - quindi
ho pensato di fargli fare un vero disco rock in modo tale che, appena si
sputtanano con il disco ufficiale, possono dire “Ma però abbiamo fatto questo
disco che è rock’n’roll …”. Mescalina: Come è salata questa insalata??!! Alessandro Ducoli: È così salata, perché in questa
stanza c’è una persona con poco sale in zucca e quindi ho cercato di
compensare … Mescalina: E il nome My Uncle The Dog da dove è
uscito? Alessandro Ducoli: All’inizio volevamo chiamarci
“The Gazza’s coming back”, ovvero “I ritorni di Gascoigne” per significare
che eravamo un fiasco a priori … Mescalina: Cioè che anche voi, colti e talentuosi,
avevate bisogno di elomosinare un contratto nella serie B cinese? Andrea Bellicini: Guarda che lì potrei davvero
giocare anch’io! Alessandro Ducoli: Comunque, non ho mai capito perché
il nome non è piaciuto … poi facevamo le prove il sabato pomeriggio, quando
loro erano svegli da un quarto d’ora, mentre io già al mattino presto ero in
piedi per zappare l’orto, quindi io arrivavo alle prove, sudato e vestito
come un contadino, e si era pensato di chiamarci Uncle Dog proprio per
questo, poi alla fine Bellicini ha avuto un’idea di metterci l’articolo
davanti … Andrea Bellicini: A me sembrava che ricordasse i
contadini di Faulkner, l’America rurale dove i personaggi si chiamano sempre
coi nomi degli animali: anche in Steinbeck è così e siccome io sono colto … Alessandro Ducoli: Io ho letto otto libri di
Steinbeck, tra cui “Pian della tortilla” e “Furore”! Andrea Bellicini: “Pian della tortilla” è davvero
grande … ecco, noi avevamo questa idea di rock’n’roll che veniva dal basso,
dalla rozzezza, senza riferimenti troppo elevati, sai quei bifolchi americani
col forcone, che ammazzano uno solo perché è straniero? Alessandro Ducoli: Non abbiamo ancora fatto il
brindisi … Andrea Bellicini: A noi! Mescalina: Ai bifolchi! Alessandro Ducoli: A noi che siamo così bifolchi
veri! Mescalina: Nel disco c’è questo fattore istintivo,
con cui ognuno segna il territorio a suo modo … come dei cani randagi? Andrea Bellicini: Sì, l’intento della cosa era quello
… lui più col cantautorato e noi più underground, se vuoi … Alessandro Ducoli: Si, è vero, anche se parlare di
cantautorato nel mio caso è scorretto, perché ho scritto cose più vicine al folk
americano che al cantautorato italiano: il fa diesis per esempio non lo uso
quasi mai … Mescalina: Perché non sai suonarlo? Alessandro Ducoli: Ma sì e poi perché gli accordi
sono tutti lì, quelli che servono: troppe note e troppi accordi ti rovinano. Anche
Bacco Il Matto aveva questo approccio: non era così underground, ma il sound
era rock’n’roll! Andrea Bellicini: Ci siamo trovati un po’ a metà:
noi che facciamo rock alla nostra maniera, un po’ aggressiva, abbiamo fatto
un passo più verso la tradizione e meno rispetto all’underground e a cose più
estreme che facciamo di solito, mentre lui ha fatto un passo avanti
recuperando un po’ delle cose che faceva come Bacco, magari le cose sue meno
tradizionali … Mescalina: Il suono che ne è uscito dà l’idea di
essere esagerato … Alessandro Ducoli: È perché non avevamo alcun tipo
di vincolo ed è venuta fuori l’indole nostra … Mescalina: Infatti c’è spesso qualche riferimento
all’istinto animale! Andrea Bellicini: Certo, perché, se tu parli di
qualcosa di forte, devi dargli una veste sonora adeguata, altrimenti sembri
uno dell’oratorio che dice “Sì, guarda
come sono fuori coi capelli lunghi” e sei lì che suoni le canzoni di
Battisti, ma non sei veramente così. Ma, se tu parli di cose forti, devi
dargli la veste giusta per far uscire … Alessandro Ducoli: Anche perché comunque si tratta
di animali affamati … Andrea Bellicini:
Mmh, penso proprio che mi farò uno spiedino! Guarda che noi siamo rock’n’roll
perché abbiamo fame, non perché abbiamo acquisito le capacità o per altro …
ti ricordi l’esordio di Eriberto, quando era bravo? Adesso si chiama Luciano
(giocatore del Chievo e dell’Inter) … ha esordito e ha fatto un gol dopo una
corsa di quaranta metri: Mazzone si è girato e ha detto “Questo c’ha la
rabbia che viene dalla fame!”. Ecco lui non era
un fuoriclasse, ma con quel gesto voleva dire qualcosa e così anche il nostro
disco: non è un capolavoro, ma non è quello l’obiettivo … Mescalina: Difatti suona molto sporco, molto sudato,
anche voodoo … Alessandro Ducoli: Il compito era che io ho dato tre
canzoni ai Bogartz e ho preso tre canzoni da loro, quindi loro dovevano
arrangiarsi i miei pezzi e io arrangiarmi coi loro … In “Zachary
Taylor” anche l’argomento è voodoo e ho usato la stessa ritmica che ho usato
già quando ho scritto “Berlicche”: se tu senti il lavoro ritmico sui timpani
in “Zachary Taylor”, è molto simile se non uguale a quello che c’è su
“Berlicche” … Andrea Bellicini: È come se devi fare un film sul
voodoo e lo fai girare a Spielberg o a Lynch: Spielberg magari dal punto di
vista formale è impeccabile, ti fa una gran cosa, ma, se invece lo fa Lynch,
di certo non è così perfetto e magari non ci capisci neanche tanto, perché
lui segue i suoi percorsi, magari è anche meno valido tecnicamente, però di
sicuro è più inquietante, ti spaventa molto di più … Mescalina: Infatti nel disco c’è questa aria noir … Andrea Bellicini: Eccome! Mescalina: … e le storie che pubblicate sul sito
dei Bogartz (www.bogartz.it) arrivano così al momento o c’è dietro un copione
già scritto? Andrea Bellicini: Avrei in mente una storia, ma
seguo l’ispirazione e la scrivo così a mano: mi piacerebbe scrivere ancora un
po’ di puntate, anche perché saltano fuori le storie del disco, sia noi sia i
personaggi di cui si parla nel disco … Alessandro Ducoli:
Difatti è ambientato a Tampa in Florida: ci sono le paludi, è un paesino di
provincia, c’è Cletus che sarei io … Mescalina: E c’è il riferimento a James Elroy?! Andrea Bellicini: Sì, l’ho letto talmente tanto,
che per forza … Alessandro Ducoli: Io ho letto Stevenson, “L’isola
del tesoro”, alle medie … Mescalina: Potremmo trovare qualche punto in comune
tra Cletus Cobb e Long John Silver, guarda che anche lì c’è una ricerca
inquieta … scherzi a parte, che poi non sono neanche tanto scherzi, il fatto
che hai rifatto “Perfetta” dà l’idea di questa borgata di paese
apparentemente tranquilla e invece sono tutti pronti al delirio, alla follia,
non appena se ne presenta l’occasione … Alessandro Ducoli: Pensa che io volevo fare “Gesù mi
ha chiesto di restare”, un pezzo che secondo me stava molto bene anche dal
punto di vista dell’intuizione rock, però avevo visto subito che non
funzionava, come se ci fosse l’alchimia sbagliata. Dovevo andare a cercare
delle cose, che staccavano dall’obiettivo, che era immediatezza e
concretezza: da qui anche l’idea di fare un disco molto corto, con la coda
che comunque è ancora “Tonight’s the night” … Mescalina: Sì, è corto, concreto e breve, ma ha
dentro tanta ciccia … Andrea Bellicini: È grosso! Sono le frequenze
basse! Sai, le usiamo tanto anche come Bogartz: i bassi ti fanno vibrare, ti
prendono lo stomaco. È quella cosa lì: un impatto come “Tonight’s the night”,
che è una cosa grossa, come anche “Lacqua”. E la ricerca di suoni è stata
quella: non una faina che va a rubare, ma un bisonte che si muove grosso e fa
rumore e è pesante e lo senti che arriva … Alessandro Ducoli: È tutto dettato dalla esclusiva
esigenza di rock’n’roll. Esigenza, proprio: una questione vitale! Mescalina: E lo avete intitolato “Tonight’s the
day” invece che “Tonight’s the night” proprio per dire “questo è
rock’n’roll”? Alessandro Ducoli: Allora, la questione del titolo …
innanzitutto, quando ho scelto di riarrangiare secondo il mio stilema
“Tonight’s the night”, era perché ne avevo le scatole piene, perché la
canzoni che faccio io fondamentalmente le puoi ricondurre alla figurazione
ritmica di mi minore o di la o di re, ma soprattutto di mi minore, e siccome
“Tonight’s the night” ha una scomposizione che può essere ricondotta al mi
minore, la facciamo tutta in mi minore proprio per dimostrare che grandi
pezzi si possono fare con questi pochi accordi! Poi mi sono
informato sul significato del titolo, che non vuol dire “Stanotte è la notte”,
ma “Questa è la notte più lunga”. Allora io ho scritto “Tonight’s the day”,
perché volevo fuorviare tutti quelli che si fanno le seghe mentali sul
rock’n’roll. Dopo, nel parlare coi Bogartz di un titolo con un senso ironico,
loro si sono entusiasmati, figurati … Secondo me la
gente fa troppa filosofia sul rock’n’roll, per cui cambiare il titolo e
giocarci sopra mi sembrava necessario, anche perché l’Italia non è l’America,
per cui noi alla fine siamo un po’ più diurni che notturni, e gli abbiamo
dato quel senso lì … Mescalina: Ma i MUTD avranno un futuro o è una cosa
che si esaurirà con questo disco? Andrea Bellicini:
Diciamo che ci siamo divertiti a fare il disco e anche le date che facciamo
live ci divertiamo parecchio: il nostro obiettivo adesso è di fare più date
possibili, ma non dovunque e per qualunque motivo, piuttosto vogliamo
mirarle, vogliamo che ci facciano divertire, poi dopo si vedrà … in realtà un
altro disco ci sarebbe: abbiamo anche pronto il titolo e abbiamo anche
scritto una canzone insieme … Mescalina:!!?? Alessandro Ducoli: Si intitola “Real Yoko”,
sull’influenza nefasta delle fidanzate nel mondo del rock … Mescalina: Quello sì, non solo sui Beatles, ma
anche su tutte le figure femminili che sono venute dopo: sono state rovinate dall’influenza
di Yoko Ono! Alessandro Ducoli: Ma è proprio il concetto di Yoko!
Il mio motto è che Mark Chapman avrei anche potuto perdonarlo, se quel giorno
sparava anche a Yoko! Pensa che coglione mostruoso che è Mark Chapman che va
lì, li vede tutti e due insieme, ha una pistola, quindi almeno sei colpi, e
spara solo a John Lennon! Mescalina: Forse era d’accordo con Yoko! Alessandro Ducoli: Se era d’accordo con Yoko, allora
l’influenza nefasta è proprio dimostrata! Mescalina: Tra l’altro ci si può vedere anche un
filo di continuità con gli argomenti dei Bogartz e con lo spirito dei MUTD,
molto noir e centrato sull’omicidio, è così anche per Cletus … Alessandro Ducoli: Infatti poi Cletus alla fine … Andrea Bellicini: No, non dirlo! Mescalina: Va bene, allora, se questo è top secret,
parlando di altri progetti che avete insieme come quello sulla Beat
Generation … Andrea Bellicini: Mmh … è una storia lunga: il
progetto è nato da Boris Savoldelli e si chiama “Degeneration Beat” … ho
avuto anche una discussione su questo argomento col mio professore di
letteratura anglo americana … Alessandro Ducoli:
È per quello che mi considerate un buzzurro! Avete studiato tutti e due! Me
ne sono accorto tra le righe dei vostri sorrisi ammiccanti … Mescalina: Non mi sembra che il tuo istinto ne stia
uscendo schiacciato … immagino sarà stato così anche per questo progetto, no?
Andrea Bellicini:
L’idea sarebbe quella di ricreare l’atmosfera di “On the road”, non tanto
delle sue manifestazioni immediate dal punto di vista letterario, di ambienti
e di viaggi, quanto piuttosto trasportarne il senso nella realtà, che può
essere quella dell’Italia di provincia; difatti il lavoro sarà in italiano,
anche se suonare beat in italiano sarà una cosa abbastanza difficile e straniante,
perché il beat è inscindibile dalla lingua inglese. Alessandro Ducoli: L’idea è comunque quella di
rappresentare questa cosa attraverso le diverse anime del protagonista, sia
dal punto di vista tematico, con le diverse voci che ci sono, sia per le diverse
atmosfere sonore, che vanno dal jazz tradizionale, alla ballata folk, ad
alcune cose che vivono molto di ritmica, ad altre con dei tempi blues suonati
in maniera molto precisa fino ad alcune cose invece con la chitarra
distortissima … Mescalina: Ma non è rischioso scegliere una figura
mitica, anche abusata come quella di Kerouac? Alessandro Ducoli: Infatti! Guarda che io non ha mai
letto nulla di quello che può essere definito Beat Generation, quindi in un
certo senso il rischio di fare la brutta copia della Beat Generation, già
quello non c’era … Mescalina: … io non sto parlando di fare una copia
o una cosa più o meno originale: piuttosto chi si avvicina al vostro
progetto, non rischia di farlo in modo prevenuto, di trovarsi costretto,
condizionato dal mito che è stato creato attorno a Kerouac? Alessandro Ducoli: Ho capito, ma sostanzialmente noi
partiamo dal fatto che la scrittura Beat segue un discorso musicale, quindi
cerchiamo di adattare la lingua italiana a certi tipi di scomposizione ritmica,
a certi atteggiamenti metrici … poi, sì, mi sono fatto spiegare la filosofia
di vita di Kerouac e che tipo di persona era: io all’inizio pensavo che
fossero soltanto drogatifrocialcolizzatimerde, invece ho scoperto che Kerouac
era anche un romantico, per cui mi sono inventato questa cosa che è un
esperimento linguistico, in cui si cerca di ricostruire l’atteggiamento Beat
di scrittura usando però argomenti italiani, ricostruire l’atteggiamento beat
di scrittura, però senza essere condizionati da quello che è già stato
scritto … Mescalina: Cosa intendete per argomenti italiani? Alessandro Ducoli: La storia, che noi abbiamo
costruito, parla di un personaggio … praticamente io mi sono immaginato Jack Kerouac,
che vive in Italia oggi e passa un sabato sera alla ricerca del Beat, del
Beat nel senso filosofico del termine … Andrea Bellicini: Si parla di muoversi, ma non nel
senso di andare per spazi: è l’esigenza di spostarsi per vedere
qualcos’altro, non importa se di un migliaio di miglia o di un paio di metri.
La storia è mossa comunque da un romanticismo, poi effettivamente prendere
proprio “On the road” è una grossa responsabilità, però in quell’opera ci
sono i presupposti per dire le cose alla tua maniera, cioè per muoversi, per
cercare qualcosa di tuo. Quel libro nasce in fondo da un’esigenza dell’autore
di avere un rapporto con il suo te stesso e con quello di ognuno:
paradossalmente noi, in questo muoversi limitato dal punto di vista
geografico, abbiamo riscontrato le nostre vite, ma soprattutto la stessa
precarietà dei rapporti affettivi e sentimentali che si possono ritrovare in
persone che viaggiano sulla lunga distanza … Mescalina: Ma tutto questo si tradurrà in un disco?
Andrea Bellicini: Sì, anche se per ora siamo solo a
livello di pre-produzione. Poi abbiamo incontrato anche Mark Murphy e
Fernanda Pivano… Alessandro Ducoli: A cui io ho sottratto questo
utensile, che era il cavatappi adoperato da Hemingway! Andrea Bellicini: Per ora abbiamo lo storybook e
tanto materiale, che io e questo essere qua, insieme a Boris Savoldelli e
Federico Troncatti, stiamo mettendo in musica, in Beat. Ecco, alla fine anche
se sembriamo tanto opposti, quello che mi avvicina a questo animale, perché
Ducoli è fondamentalmente un animale, è il suo bisogno autentico di
esprimersi. È il Beat. Mescalina: E tu Ducoli? Alessandro Ducoli: Io, in quanto animale, non posso
che emettere qualche suono strano, qualche grugnito o peggio. O al massimo
interpretare la parte di Cletus! Mescalina: Anche questo è Beat?! Alessandro Ducoli: Però lui non ne ha la coscienza!?
Mescalina: O forse finge di non averla … Salvatore Esposito, www.rockinfreeworld.tk
Ho iniziato ad
ascoltare Neil Young per caso. Per fuggire. A differenza di molti miei amici
non ho avuto fratelli maggiori a cui rubare i dischi o qualche cugino che
prima di partire per lunghi viaggi riflessivi mi ha lasciato i suoi scaffali
in consegna. Niente Led Zeppelin, niente Pink Floyd, niente Stones, niente
Hendrix, niente Macartney. Ho avuto due sorelle maggiori e una sola radio in
casa fino a quindici anni. Una condanna. Conosco, ancora oggi, quasi
esattamente la discografia di Claudio Baglioni fino a "La vita è
adesso", Sandro Giacobbe, Enzo "Pupo" Ghinazzi, Riccardo
Fogli, Giampiero Artegiani e i Collage. Un calvario, anche Fiordaliso.
All'inizio è stato ovviamente un inconsapevole subire (ero troppo giovane)
fino a quando la maggiore delle mie sorelle, che ha frequentato l'Università
Cattolica a Milano, ha assistito, ovviamente per questioni di mera
rappresentanza, al concerto del "vecchio" a Milano. Quello dei
lacrimogeni. Mi sembra l'87. Il suo resoconto è stato perentorio. Oltre a
sottolineare che certa gente dovrebbe starsene fuori dalla musica disse che
Neil Young era vomitevole. Ho cominciato a chiedermi chi fosse Neil Young.
Invece di assecondare la mia curiosità ho comprato "Like a virgin"
di Madonna. Tutto sommato un buon disco. Non ero ancora pronto. La vera
svolta è però arrivata quasi contemporaneamente, forse qualche mese prima,
non mi ricordo. La truffa è che è stata proprio per merito delle mie sorelle.
La minore delle mie sorelle si è innamorata persa del suo maestro di Judo.
Per la cronaca è stata anche campionessa italiana juniores. Questo Ivan, a
cui probabilmente devo la vita senza nemmeno sapere chi sia, ascoltava
Springsteen. Segue quindi un lungo periodo in cui a casa mia arrivano le note
del Boss. In continuazione. Cadillac ranch. Il resto è venuto da solo.
Basioli, Cere e Panteghini, compagni della scuola per geometri, hanno già
approfondito oltre il Boss, molti altri grandi. Tra questi c'è ovviamente
Neil. Riaffiora il curioso aneddoto del Palatrussardi. Richiesta di
duplicazione immediata subito accettata da Panteghini. "Harvest",
"Zuma", "After the gold rush", "American
stars'n'bars" e "Rust neever sleep". Seguono, con calma, anche
perché la radio in casa era sempre una, tutti gli altri. Tutto qui. Di tutto
questo periodo, a parte ovviamente i ritornelli di Baglioni e le tette di
Madonna, mi ricordo ben poco. Mi ricordo che ero un povero pirla che faticava
a tenere il passo dei miei coetanei emancipati che partecipavano a concerti
(il Boss a Milano, cazzo, David Bowe, Pink Floyd a Venezia, io non c'ero),
happening serali di ascolto dei dischi lasciati dal cugino che adesso vive in
India. Gli anni '80, che oggi in parte ho rivalutato, sono stati un vero
calvario …. e non abbiamo accennato all'arrivo del pop più bieco che però era
l'unica arma per limonare. Save a prayer. Pazienza. Per la mia presenza
scenica, ero più magro di adesso, e avevo una certa dimestichezza con
l'armonica, mi hanno messo a cantare nel gruppetto. Gli Springs. Con
Panteghini. De Andrè, De Gregori, U2, Springsteen e anche "Like a
hurricane". Una banda di bassissimo livello. Grande passione però. Non
credo serva altro per amare il Rock'n'Roll. Il resto è ordinaria follia da
rockettaro di provincia. Compreso il periodo Grunge e il classico ritorno
alle origini per il ripasso dell'accademia Beatlesiana, di Elvis, Stones e
contaminazioni Motown. Abbastanza normale. Molto simile alla faccenda di
tanti altri con cui la sera mi trovo a parlare dell'ultimo disco di Mark
Lanegan, della perdita di identità del Rock italiano o di come la presenza di
Yoko Ono sia stata il triste presagio della nefasta influenza che certe
signore hanno avuto sui migliori rocker della storia. Ecc. ecc. ecc Quali sono le cose
che ti hanno colpito della musica e dell'arte di Neil Young? E qual'è il
perido della sua carriera che preferisci? Mi piace la forza.
La forza anche quando si tratta di accarezzare le corde della Martin. Mi
piace il tocco di armonica. Il testo sempre incredibilmente legato alla
musica. Mai una parola che non sia perfettamente dentro gli accordi. Mi
piacciono i "veci" che nel video ballano "Harvest moon".
Non mi piacciono invece certi suoi atteggiamenti autoritari ma chi può dirlo
fino in fondo che sia davvero così. Le biografie si contraddicono ogni volta
che escono e io finora non conosco nessun amico personale di Neil che possa
dirmi veramente quale sia il suo carattere. Non mi piacciono alcune
produzioni di difficile ascolto. La stessa immediatezza di "Hey, hey,
my, my" non c'è in certe produzioni. Mi fa impazzire "Cortez the
killer". Mi commuovono le piccole creature che cercano di fuggire alla
stupida "War of man". Molte cose poi non le ho ancora ascoltate.
"After the gold rush" e "Rust neever sleep" sono i dischi
che preferisco. Ma come fai a dare un giudizio quando ogni suo disco può
essere legato a particolari stati d'animo. Un mese può essere Zuma il disco
migliore, quello dopo può essere Freedom, Tonigh't the night, Harvest moon,
On the beach. Poi ci sono dischi che non mi piacciono a priori ma credo che
tutti siano d'accordo sul fatto che "Broken arrow" sia un disco
poco riuscito. Gli anni '80 li conosco poco. Mi piacciono molto alcune cose,
soprattutto di "Trans", ma altre sono francamente un po'
imbarazzanti. Credo, anzi ne sono certo (me l'ha detto Marco Grompi), che
tutto sia troppo legato ai suoi rapporti con Quanto ti ha
influenzato il songwring di Neil? … Big john's been drinkin' since the river took Emmy
Lou … a volte piango quando riascolto Powderfingher. Le immagini sono
lì, da toccare, da vivere. Non stai sentendo un racconto. Nessuno ti sta
raccontando niente. Sei dentro nel racconto insieme a tutti gli altri e tieni
in mano il fucile. Sai che Big John non beve perché è un ubriacone, beve
perché la vita non è stata gentile. Non hai più ventidue anni, se li hai sono
sempre troppo pochi, oppure non li hai mai avuti. Sai che sulla barca ci sono
dei guai. Sai che non consegnano la posta. A volte sento quasi la stessa
paura del ragazzo. So tutto di quella famiglia anche se nessuno di loro mi ha
mai raccontato niente. Mi piace pensare che si possa scrivere e comunicare la
stessa intensità di sensazioni. Non so se ci riesco nelle mie canzoni ma a
volte mi piace pensare che è così. L'ascolto ciclico di Powderfingher
ovviamente serve anche a guarirmi dalla presunzione. Quali sono stati i
motivi che ti hanno spinto ad imboccare la via maestra della vita da rocker? I Rocker vivono il
Rock'n'Roll 18 ore al giorno. Io suono circa 2 ore, altre Cosa è cambiato
nella tua vita da quando hai pubblicato il tuo primo album, Lolita? Sono ingrassato e
sono sempre più stanco. Suono anche un po' meglio ma continuo ad essere un
chitarrista mediocre. Ho preso lezione di canto e me la cavo sempre meglio
con i testi. Mi sono laureato. Ho distrutto tre macchine. Mi piace il malto
scozzese. Non fumo più e continuo ad essere interista. Odio Baglioni,
Giacobbe, Fogli e Pupo. Fiordaliso non esiste. Considero Mogol la causa
principale dell'agonia della musica italiana. Sono orgoglioso che la prima
canzone che ho imparato a suonare sia "The river" e non "La
canzone del sole". Il Grunge mi ha cresciuto onesto e sicuro dei miei
sentimenti. Ho scoperto Stevie Wonder e Caetano Veloso. Mi piace Monk.
Chiaverei la figlia di Peter Gabriel, per piacere e per opportunità. Al
prossimo concerto acustico presenterò una mia personale rivisitazione di
"Into my arms" con chitarra e armonica. Vorrei essere uno degli
animali, uno a caso, del booklets di Boys for Pele. Carlito Brigante non ha
mai ascoltato Lolita. Adriano Celentano è ospite dei salottini per ricordare
il Faber e non consoce il testo di Piero. I miei colleghi comprano 2 dischi
all'anno e i dieci che si masterizzano sono peggio della merda. Gigi
d'Alessio è in studio con Tony Levin. Canto con gli Sapnish Johnny. Penso che
Van Morrison da quando ha abbracciato la fede di Scientology faccia solo
dischi pietosi. Rino Gaetano continua a produrre libidine. De Gregori scrive
"… ed ho imparato che l'amore insegna ma non si fa imparare …". Spendo
più soldi in birra che in vestiti e acconciature. Spendo più soldi in musica
che in vacanze. Gli unici giorni di ospedale o di malattia che ho fatto sono
attribuibili a contusioni da sabato sera. Ho scritto "Come un
Setter". Simona Ventura presenta "Quelli che il calcio" e suo
marito è condannato per aver truccato partite. Jannacci nonostante tutto
continua a non arrendersi. Ombretta Colli è un grande dubbio. Mi vergogno
sempre meno. Rimetto i rimorsi insieme alla birra in eccesso. Mi piacerebbe
suonare il piano. Ecc. ecc. ecc. ecc. Oltre a tutto questo ho trovato dei
grandiosi compagni di viaggio e continuo a fare musica e canzoni. Qual'è stato il
tuo sviluppo artistico e cosa è cambiato nella tua musica in questi anni? Seriamente questa
volta. Non so se si tratta di sviluppo artistico. Forse i cambiamenti sono
dovuti al cambiamento della persona. Dal punto musicale, nonostante la
fortuna di suonare con musicisti che sanno fare il loro mestiere, credo non
sia molto migliorata. Conosco gli stessi tre ritmi di dieci anni fa e suono
solo con un po' di precisione in più. Il cambiamento più significativo forse
lo osservo nel modo di scrivere. La maturazione non è solo attribuibile alla
maggior possibilità di trovare argomenti perché la vita vissuta è un po' di
più rispetto a qualche anno fa. Credo sia invece legata alla ricerca lirica
di questi anni. Ricerca che continua tutt'ora. Quello che ti ho detto prima
riguardo Big John è tutto vero. L'uso della parola dev'essere sacro. Sempre e
comunque al servizio della bellezza. Anche se racconta cose brutte. Sempre e
comunque per arricchire una figurazione armonica, un ritmo, una melodia.
Musicalmente nessuno mi ha mai capito perché ho fatto progetti tra loro molto
diversi. Ma nella mia deontologia di canzone "Vito malavita" e
"Lulù" raccontano le stesse cose. Sono canzoni e basta. Veniamo alle
esperienze più recenti, cominciamo con Mantova ci ha
trattato come le pezze del culo. Non mi piace ricordare Taverne,
Stamberghe e Caverne, è un disco che si pone in controtendenza rispetto al
Ducoli rocker, quanto c'è di rock nella tua personalità e quanto di
cantautorato alla Tom Waits per capirci? Ti ho già
accennato che non vedo alcuna differenza. Molte canzoni proposte da Bacco il
Matto erano già presenti nella parte che se vuoi possiamo definire più
"canautorale". "Sgangherata", "Berlicche" e
anche "Delirio ordinario" stavano per essere arrangiate per il
terzo disco del Bacco (mai finito). Tom Waits al Tropicana Motel suonava
ballads ma era pieno di Rock'n'Roll e di Blues. Mi piace pensare soltanto che
una canzone debba servire alla comunicazione. Occorre raccontare qualcosa,
ovviamente sperando che ci sia qualcuno disposto a sentirla, perché hai
qualcosa da dire. Se usi il Rock o altri stili non importa, il senso è
quello. Se poi ti riferisci ad alcune atmosfere "latin" presenti
nelle taverne occorre considerare che comunque quel disco fa parte di un
progetto più ampio che non comprende solo canzoni del Ducoli ma di una Banda
in cui il Ducoli è canta anche e scrive i testi. Ho letto che
insieme al disco ci doveva essere un libro? Raccontaci un po' di questo
progetto multiforme, la tua idea di recente è venuta anche a Young, con il
libro su Greendale...c'è da non crederci? Infatti. Il
progetto delle Taverne è un'opera scritta insieme a Marco Quaroni. Il disco è
la colonna sonora ipotetica di un lungometraggio ispirato al libro di
Quaroni. L'opera nel suo insieme si intitola "Uomini delle
taverne". Il libro si intitola "L'uomo delle taverne" e
comprende diversi argomenti molto cari sia a me che a Quaroni. Credo che sia
un'opera interessante. Sicuramente rappresenta la radiografia esatta del mio
modo di vedere le cose. Per capirla fino in fondo ovviamente occorre leggere
anche il libro ma non ho quasi nemmeno la mia copia. Bisogna chiederle
direttamente la lui. Purtroppo le cose con Quaroni non sono andate come
speravo. Sono temprato. A proposito di concept
album, non ti è nuova come esperienza, qual'è il tuo giudizio su Greendale? E
secondo te come mai un artista decide di dedicare un album intero ad un solo
argomento? Tutti i lavori che
ho fatto sono concepiti come concept, almeno l'argomento è a grandi linee lo
stesso. In questo la scuola di Neil è stata molto determinante.
"Zuma" io lo vedo come un concept, idem per "Tonigh't the
night". "Harvest moon" anche. Certo Greendale è un'unica
grande canzone. Un unico argomento. Forse la tua idea di concept è più
approfondita della mia. Non importa. Rimane il fatto che mi piace molto.
Anche se contiene una sorta di latente rassegnazione per le cose che
succedono, belle e brutte, che lascia un senso di offuscata malinconia e
tristezzezza. Credo che forse occorrerebbe conoscere quella parte di America
per capire fino in fondo cosa può significare davvero questo disco. Però conosco gente che dice cose che possono
sembrare "when I was young people wore what they had on". Anche qui. Young è
grande. Rimane comunque il fatto che gli argomenti di Greendale mi piacciono
molto. Poi c'è il megafono di "Be the rain". Sono un ecologista
convinto. Lavoro per il territorio. Tutti i giorni faccio i conti con chi
sostiene la sostenibilità delle proprie azioni e si fotte una parte di
territorio. Non credo però che sia l'uomo a dover salvare "mother
earth", credo che l'uomo debba mettersi semplicemente un po' da parte e
che il mondo sappia benissimo come salvarsi da solo. Comunque denunciare un
certo schifo è sempre molto importante. Forse il disco è nel complesso un po'
difficile ma in questo caso credo che sia il racconto a fare la differenza.
Certo se la produzione italiana curasse dei booklets con traduzioni
autorizzate e magari con una approfondita traduzione dei testi e più approfondite
chiavi di lettura, sarebbe tutto molto più semplice ma non importa. Forse
devo ancora attutire l'emozione dello Smeraldo (forse anche il costo) per
approfondire meglio il lavoro ma non tarderò. Sempre parlando di
Taverne, Stamberghe e Caverne, in quel disco mi ha colpito molto il tuo
omaggio a Fabrizio De Andrè, devo essere sincero ascoltandola bene, arriva a
commuovere, come mai hai deciso di scrivere una canzone con … un giorno la
prenderò come fa il vento alla schiena….. Esattamente uguale a Powderfingher.
La bellezza mi commuove. Più schifo abbiamo intorno e più le cose belle
appaiono grandi. La musica italiana ha bisogno di esprimere questa bellezza.
Ce la stiamo sputtanando. Soffriamo ipocrisia. La nostra musica puzza lontano
un chilometro di ipocrisia. Io personalmente ne ho pieni i coglioni di gente
che scrive canzoni che descrivono realtà assolutamente lontane dalla vita
quotidiana di oggi. Anche se si tratta di scrivere questioni intimiste o di
denunciare che non sei d'accordo con la realtà, o ancora per protesta. Siamo
pieni di canzoni con testi che hanno solo un senso musicale (peraltro mai
pienamente calzante con la musica e con il ritmo che accompagna le parole) ma
non sai cosa raccontano. Quando te lo spiegano capisci ancora meno.
Risultato: la settimana successiva non ti ricordi nemmeno cosa dicono. Si
ricordano soltanto fregnacce orecchiabili per decerebrati (" … it's a
Piece of crap"). Quando non si sa più che cazzo fare si fanno tributi a
Battisti. Giusto perché Mogol ha ancora bisogno di soldi. Il rock è grande
perché ognuno che ascolta "Back in black" pensa di camminare come
un uragano. Tutti quelli che hanno cantato "Bobby Jean" hanno un
amico che avrebbero voluto salutare. Chi cavalca il sabato sera pensa di
essere Johnny Yen. Quelli che cantano "Rock in the free world" si
battono ogni giorno perchè anche il loro piccolo mondo sia libero. Tutti
comunque personaggi che possono essere la tua realtà. Anche se si tratta di
altri continenti e di altri sabati sera. Nel rock italiano di oggi puoi
riconoscerti in una canzone per qualche settimana, la settimana successiva
sei già cambiato. La canzona non va più bene. Io sono stato Johnny Yen 15
anni fà e a volte lo sono ancora oggi. A volte sono Big John. Altre quel
pirla del Ducoli. La musica dei cantautori barcolla ma riesce ancora a
raccontare qualcosa (anche se molti cantautori oggi sono narcisi peggio di
Elton John, che almeno suona come un dio). Gente che scrive testi
apocalittici, sentenziosi e autodistruttivi e poi fa colazione con i
biscottini della nonna. Gente che parla di grandi sentimenti e poi si spara
enormi strisce di cocaina in mezzo alle puttane. L'uinica purezza di cui
veramente sentono il bisogno è nel taglio della polverina. Iggy Pop dovrebbe
fotterseli tutti. Poi ci sono quelli che scrivono secondo gli stilemi del
Rock ma non si capisce da che parte stanno. Chiedete a Ligabue se c'è anche
solo un 1% dei suoi fans che conosce Neil Young. Io la radio che passa Neil
Young non la conosco, non esiste. Nelle sue radio da fumetto cinematografico
forse. Bella situazione. Scusate lo sfogo. Comunque De Andrè cantava la
bellezza di tutte le cose. Questo è il senso delle cose. Veniamo al
presente, com'è nato il connubio Bogartz e Ducoli? L'idea di fare un
disco insieme ad Andrea Bellicini, basso e voce dei Bogartz, c'era già da un
po'. Sempre sospesa fino a quando Davide Sapienza ci ha ricordato che poteva
essere curioso ascoltare Ducoli e i Bogartz insieme. Io avevo alcune canzoni rimaste
indietro dalle scorribande di Bacco il Matto. Altre cose mi sarebbe piaciuto
rubarle ai Bogartz e mettermele addosso. Quindi ho iniziato a parlarne con
loro che hanno capito l'intenzione del lavoro e abbiamo costruito
"Tonight's the day". Abbiamo iniziato ad arrangiare i pezzi che
avevo proposto e a riarrangiare le canzoni che mi erano piaciute
immediatamente del loro repertorio. Andrea Bellicini ha scelto dal mio
repertorio "Perfetta" per riarrangiarla a loro modo. Insomma uno
scambio di idee. La scelta di inserire una cover è nata dalla necessità di
segnalare immediatamente all'ascoltatore che i Dogs sono assolutamente
schiavi, discepoli o qualcosa di simile, del rock'n'roll (… prisoners of
rock'n'roll"). La scelta di "Tonight's the night" era praticamente
obbligata. L'arrangiamento che ne ho proposto ai Bogartz è stato subito
approvato. Loro hanno completato l'idea e hanno scelto i suoni. Tutto molto
immediato. Quasi naturale. Un’escursione in territorio alieno ….. Domanda banale ma
perchè il nome My Uncle The Dog, e i soprannomi alla Travellin' Wilburys?
Volevate fare la superband? La cosa è nata per
caso perché loro mi hanno sempre pigliato per il culo per il mio
atteggiamento un po' selvatico. La storia di "Moody Crow Pit" che
si legge nel sito dei bogartz è nata proprio così, così come l'idea dei nomi.
Sono contento di essere Cletus, Ducoli, Bacco il Matto. Mi piace l'idea.
Molti adesso mi chiamano Cletus. Prima mi chiamavano Bacco. Ducolo. Adesso
sono Cletus perché pensano che vivo davvero in una palude. Forse è vero.
Abbiamo scelto nomi che potessero rispecchiare la personalità del gruppo, ad
ogni nome è stato dato un soprannome altrettanto cercato. Il mio soprannome
ad esempio è quello di uno Small Batch della Jim Beam. Nella palude non si beve
solo fango. Quanto c'è di
istintivo in questo disco, io lo sento rabbioso, folle incontrollato..... Tutto. The Mud!
Come dice Bellicini, dovevamo costruire un pungo di canzoni affamate. I cani
che ho in mente io hanno sempre molta fame. La follia non è clinica, è
fisica, è solo riconducibile al desiderio di bruciare tutto in un colpo solo
…. ti ricorda niente!? E' la stessa
follia che anima i personaggi del Ducoli? Certamente. Io più
che di follia preferisco parlare di delirio. Per me il deliro è una sorta di
follia reversibile. Quindi ti permette anche di sopravvivere a te stesso.
Dev'esserci sempre un po' di delirio perchè aggiunge teatro alla vita. Credo
che la renda più piacevole. Più interessante. La cosa difficile è rendere il
delirio, oltre ad assicurarsi che sia reversibile, sempre rinnovabile. Per
non ripetersi. Per non copiare se stessi. Finora, senza grandi presunzioni,
penso di esserci quasi riuscito. Di chi è la colpa
dell'aria da noir che tira nell'album dei Bogartz o di Ducoli? Della palude. Quali sono i
riferimenti letterari presenti in Tonight's the day? I riferimenti
letterari dovete chiederli a Bellicini perché è un grande appassionato e
studioso di letteratura americana. Io conosco solo Jack London e Steinback.
Leggo molto poco. Potrei anche raccontarvi cifre di cui vergognarmi sulla mie
letture. Ho letto alcune cose che mi sono piaciute molto ma non credo nemmeno
di ricordarmi gli autori. Forse "Lacqua", ultimo pensiero di un
vigilante pentito di una multinazionale delle risorse idriche in un ipotetico
futuro negativo, può essere avvicinata a qualche racconto ecologista di
Sepulveda ma l'ho scritta prima di leggerlo. Un certo cinema americano riesce
ad essere molto letterario. "Angeli con la faccia sporca" è la
storia di Ducoli e dei Bogartz. … ? Perchè avete
scelto il titolo Tonight's The Day? Dovevamo costruire
un disco scuro. "Tonight's the night" è il disco più scuro di Neil
Young. Più di "Times fade away". Più di "Sleeps with
angels". Ho chiesto a Marco Grompi di spiegarmi il significato reale di
quel titolo. La sua risposta è stata eloquente: "la notte, la notte più
lunga". Quando la notte è uguale al giorno sei finito nel
"tonight's the day". C'è qualcosa che non va. Almeno alle nostre
latitudini. Almeno se consideri la normalità è divisa tra notte e giorno. La
cosa che non va forse sei tu. Non ci sono accezioni negative, semplicemente
il fatto che sei finito in una sorta di baratro. Di buco. Di fosso. La
reversibilità di questa condizione non è un dato esatto. L'unico dato esatto
è il fatto che il tuo giorno viene vissuto esattamente come vivi la notte. Se
la notte dormi, lo fai anche di giorno. Se la notte non respiri, non la fai
nemmeno di giorno. Se la notte scrivi, lo fai anche di giorno. Se la notte
bevi, idem. Se chiavi, lo stesso. Tonight's the day. Il mio problema peggiore
è che sto vivendo una condizione simile pur continuando a fare una vita
normale durante il giorno sovrapponendo le cose tra loro. Giorno di 32 ore.
Caos. Quali sono i
progetti per il futuro di Alessandro Ducoli? La cosa che sto
seguendo con maggior attenzione in questo periodo è "Degeneration
beat". Un esperimento italiano di "prosa spontanea" costruita
con altri quattro personaggi: Andrea Bellicini, Boris Savoldelli, Federico
Troncatti e Andrej Kutov. Io mi sono occupato di scrivere i testi. Sono stato
coinvolto perché non avendo mai letto nulla di Beat Generation potevo
riuscire a costruire una prosa spontanea non contaminata dal mito di Kerouac
o di Corso e altri della combriccola. Mi hanno permesso di fare domande di
ogni tipo su Jack Kerouac e sulla Beat genereation ma non mi hanno concesso
alcuna lettura. Mi hanno dato alcuni ritmi su cui dovevo scrivere racconti e
testi. Mi hanno obbligato, peraltro senza troppa fatica, ad ascoltare tutto
quello che riuscivo del Jazz di fine anni ' Facciamo un passo
in dietro e andiamo ai Cercatori D'oro, come è nato quel progetto
discografico sotto le spoglie di Bacco il Matto? Il nostro sito si
apriva con il messaggio "il Rock'n'Roll è la nostra principale
necessità". Bacco il Matto era il mio pseudonimo siae poi adottato nella
prima formazione del Bacco e quindi divenuto una figura complessa formata da
4 loschi individui. Qualche mese fa ho scritto una canzone per raccontare
l'avventura di Bacco il matto. La canzone, intitolata "Tombstone",
la sua spiegazione si apre con queste parole: " … il Rock'n'Roll che
diventa metafora. Il Far West lentamente si trasforma nell'america di oggi e
il Cow Boy a volte non riesce a capire. La contrapposizione tra l'equilibrio
perfetto dei campi di frumento e l'autostrada viene cancellata dal profilo di
una signorina sdraiata tra le spighe. Il ritorno a Tombstone diventa un
invito per quelli che hanno lasciato il cavallo per la salire sul treno. Per
quelli che hanno dimenticato che il Rock'n'Roll non è uno stile musicale ma
uno stile di vita". Forse il progetto del Bacco non è ancora finito ma
in questo momento le cose sono cambiate rispetto a quel periodo e soprattutto
sono cambiate le persone. Bacco il Matto ha navigato per circa 4 anni ogni
tipo di palcoscenico proponendo molta energia e grande sentimento. Abbiamo
registrato due dischi: "San Marco" e "Cercatori d'oro".
Sono stati molto apprezzati da quelli che li hanno ascoltati. Sempre in
Cercatori D'Oro c'è la splendida Raffaella di Cheap Taylor, come sei riuscito
a farti regalare quel brano? E qual'è il tuo rapporto con lui? Cheap Taylor era
in Italia nel '99 per presentare i suoi bootlegs parigini. Mauro Eufrosini
era il suo riferimento logistico e gli ha dato "San Marco" quasi
per caso. In quel periodo Mauro ci seguiva per procurarci qualche serata.
Dopo qualche mese Cheap ha mandato a Mauro un DAT per noi. Su quel nastro
c'era una canzone che lui disse di aver scritto in Italia e che gli sembrava
giusto che diventasse nostra. Raffaella. Ci sembrava un sogno. Era la giusta
ricompensa per dei cercatori d'oro che in quel periodo erano già in studio
per registrare un nuovo disco. Abbiamo provato a contattarlo senza mai
riuscirci, solo per dirgli grazie. Quando sei On The
Road per suonare qual'è il tuo rapporto con il pubblico? Cosa gli dai e cosa
ricevi? Mi piace cercare
un livello di comunicazione. Mi piace raccontare le canzoni per verificare se
sono cose in cui si riconoscono le persone che sono nel locale. Voglio capire
se sono le stesse cose che vivono loro. Mi piace raccontargliele come non si
sarebbero mai immaginati. Poi mi piace divertire. Il Rock'n'Roll è fatto per
godere! Credo che un concerto debba avere tre caratteristiche fondamentali:
professionalità, sentimento e ritmo. La professionalità è d'obbligo perché ti
permettere di capire la realtà di quello che stai facendo. Inoltre è anche
sinonimo di rispetto per il pubblico (non guasta mai; troppi artisti vanno in
giro nei club a raccontare le loro nenie monocorde e monoriitmiche pensando
che raccontare i propri sentimenti sia sufficiente per fare della musica una
forma d'arte). Il sentimento è il motore del Rock'n'Roll. Il ritmo muove le
chiappine e dietro alle chiappine si muove tutto il resto. Rosalità! Di te mi ha
colpito la tua personalità multiforme, poeta, rocker, cantautore...Bacco Il
Matto, Banda Del Ducoli, quante sono le tue anime? O forse ne hai una sola? O
ancora hai preso spunto da Bonnie Prince Billy aka Palace Brother aka Will
Oldam... Non lo so più
nemmeno io. Negli ultimi tempi al posto del cervello ci ho il purè. Come nel
Vesuvio per Lello Arena. Credo che un buon artista, passatemi questa
autodefinizione, debba essere in grado di teatralizzare il suo personaggio.
Fa parte dello spettacolo e finché c'è Rock'n'Roll c'è speranza (.. forse è
stipendio … non è la stessa cosa.. non importa). Bacco il Matto cantava
"Nuda e cruda", la stessa del Ducoli. Potrei farla anche con i
Dogs, sarebbe la "Nuda e cruda" di Cletus. Nel lavoro del Kerouac,
un vero concept in questo caso, Jack Kerouac viene catapultato nell'Italia di
oggi all'inizio di un sabato sera ed ha tempo fino al mattino per cercare di
riconoscere il Beat nella realtà che lo circonda. La ricerca prima
appassionata, poi agitata, poi disperata, avviene tra il continuo alternanrsi
di tre anime che lo accompagnano nel suo viaggio. Non ti anticipo nulla, ti
manderò il lavoro. Credo che riuscire a convivere con diverse personalità
senza creare danno a se stessi e agli altri sia una cosa accattivante. Finora
"… non ho fatto mai del male a nessuno", a me forse sì. Sono quasi
corroso. Una domanda per
concludere....se ti dicessero che il rock è morto cosa risponderesti? Troppo facile. Ti
risponderò senza usare riferimenti del "vecchio maestro". Come ti
ho detto parlando di Tombstone, il Rock'n'Roll non è un genere musicale, è
uno stile di vita. Finchè ci sarà l'uomo, ci saranno uomini che vivranno il
Rock'n'Roll. Gli altri non mi interessano. Il Mucchio Selvaggio
(“fuori dal mucchio” luglio '99; intervista a Nicola Bonetti). San Marco (Mucchio Selvaggio n° 341) è il
titolo del CD d’esordio dei bresciani Bacco il Matto, la cui carriera è stata
finora scandita soprattutto dai frequenti concerti nel nord Italia. Ad
aiutarci a conoscere meglio il quartetto, comprendente anche Alessandro
Ducoli (voce/armonica), Dario Filippi (basso) e Mauro Ferretti (batteria), è
il chitarrista Nicola Bonetti. Come è nata la
band? Io e Alessandro ci
conoscevamo da tempo: poi alla fine del 1996, ci siamo trovati a dover
allestire un gruppo per partecipare a un concorso. Quello è stato il pretesto
per iniziare, mettere in atto e continuare a soddisfare la nostra necessità
più impellente: suonare Rock’n’Roll. Perchè Bacco il
Matto? E’ un incrocio fra
il dovuto omaggio al dio Bacco, quello del vino, e una frase tipica delle
nostre zone che indica le continue bizze caratteriali di una persona. Posso
assicurare che è tutt’ora azzeccato, per l’intera band. Quali sono le
vostre radici? Rock americano.
L’ascolto della musica anni ’70 è stato rilevante, anche se abbiamo badato
alla definizione di un suono attuale, senza nostalgia di sorta nel suono così
come nel messaggio. I nostri padri ispiratori sono Neil Young, Bruce
Springsteen, Lou Reed, Iggy Pop, ma anche artisti minori più vicini al roots
come Calvin Russel, Seve Earle o James McMutry. Il vostro disco si
intitola "San Marco": c’è dietro qualche ragione politica? Nessuna, il titolo
deriva da una situazione che rispecchia l’indole di vita di Bacco il Matto:
durante il carnevale di Venezia, uno di noi ebbe il campanile di Piazza San
Marco come contorno alle attenzioni dedicategli da una generosa signorina in
maschera. Lo stile dei
vostri brani è molto narrativo, come lo Springsteen della prima ora. Non
avete mai tantato di praticare un lavoro di sintesi? Ci piace
raccontare storie e situazioni: il fattore narrativo è stso un elemento
iniziale fortemente voluto da tutti, forse per paura di non essere abbastanza
diretti o comprensibili, ma siamo anche ciscienti del fatto che la sintesi ha
i suoi lati buoni......è come disegnare un quadro o scattare una fotografia.
In futuro potremo farne più uso, ma per giungere a questo crediamo crediamo
di dover crescere ancora e di attendere che il passo avvenga in modo
naturale. Cosa volete
esprimere con le vostre canzoni? Con la musica, che
è la nostra vita, ci proponiamo di trasmettere sensazioni che oggigiorno, per
vari motivi, sono purtroppo messe in secondo piano. Le nostre storie sono
tutte vere e i nostri personaggi reali, per non tralasciare la comunicazione.
I Bacco il Matto cantano anche ciò che vorremmo fosse la nostra esistenza
quotidiana, e l’intento è scrivere la colonna sonora adeguata per ogni
momento della giornata. Qual’e la
differenza di approccio fra lo studio e le esibizioni dal vivo? E’ immensa, perchè
i dischi non possono sintetizzare appieno ciò che capita nei concerti.
Bisogna premettere che l’attività live di Bacco il Matto è come il carburante
per un motore o come il vestito giusto per una bella donna; per noi tutto
gravita attorno alle serate, alcune canzoni sono addirittura arrangiate nei
soundcheck e quando ci è consentito usiamo i palchi come sala prove proprio
per immedesimarci nell’ambiente. In studio non si ha la possibilità di
sviluppare la stessa energia, un po’ perchè manca la spinta data dall’essere
davanti ad un pubblico e un po’ perchè con l’autofinanziamento le risorse
sono limitate. Per giovani band
rock come la vostra, l’Italia offre occasioni per fare qualcosa di serio? La situazione non
sembra rosea: l’industria per investire ha bisogno di riscontri commerciali,
ma è anche vero che per ottenere tali riscontri occorrono investimenti. Gli
spazi per farsi notare sono veramente pochi, ma a prescindere da ciò abbiamo
deciso di non fermarci e di continuare ad autoprodurci. Se necessario anche
per sempre. Recensendo
"San Marco" ho paragonato la vostra "Oggi" a "Uncle
Johns Band" dei Grateful Dead. Qualcuno, però, mi ha detto che non
conoscevate quel brano...... Esatto. Quando me
lo hanno fatto sentire, però, non ho potuto negare una straordinaria
somiglianza fra i due riff. Inoltre, a nostro vantaggio non abbiamo neppure
le date, visto che c’era qualche decennio di differenza a favore dei Grateful
Dead! Ti dirò di più: la stessa cosa è accaduta, sempre con oggi, con un
pezzo presente in "Tracks" di Springsteen, con relativa e uguale
sensazione di stupore da parte nostra. C’è comunque da rilevare che, dopo il
riff iniziale, i tre pezzi si evolvono in direzioni completamente
differenti.... Qual’è la vostra
idea di Rock? Il rock è uno
stile di vita, un livello superiore di sensibilità che non si può scegliere.
E’ una traccia incisa nel DNA di alcune persone che si trovano a seguire
determinate morali o filosofie, ma non per decisione propria bensì per intima
necessità . La cosa non si deve per forza sviluppare in modo creativo, nel
senso che si può "essere rock" anche non avendo mai preso in mano
uno strumento. E’ molto brutto comunque, rendersi conto della presenza di
personaggi che si etichettano rocker senza avere avuto questa grazia, anche
se basta un po’ d’occhio per riconoscerli subito. Cosa avete
intenzione di fare in futuro? Lavorare nella
musica e riuscire a viverci. Arrivare a mantenersi dignitosamente esercitando
una professione che adesso, almeno per la massa, dignitosa non è ancora, se
non praticata a livelli straordinari di notorietà. A noi questi livelli non
interessano, ci accontenteremmo semplicemente di non dover rubare il tempo
alle notti per fare quello che più desideriamo: suonare. Spanish Johnny (Christian Verzelletti; Mescalina) Mescalina: Spiegatemi un po' chi sono gli Spanish Johnny: un branco di
springsteeniani abbandonati a sé stessi? Cletus Cobb: Più che altro siamo un gruppo di
diseredati, cacciati dalle mogli e dalle madri! Ci siamo accolti a vicenda per
strada e io sono quello messo peggio! Almeno così sembra. Prima di me c'era
un altro cantante, che adesso vive in Australia. Io non faccio
"cover" di solito, solo che avevo ancora un po' di debiti con il
rock'n'roll … quindi ho accettato di buon grado. Mescalina: Siete sicuri che sia stato un bene accogliere Cobb nella vostra
famiglia? Forse era meglio l'Australiano ... Santiago Lobo: Cobb aveva le credenziali e lo spirito
giusti per entrare a far parte dei Johnnies: conoscenza della materia
trattata e entusiasmo per rinnovare un progetto che, dopo tre anni di
concerti, era arrivato ad un punto morto. Gli Spanish Johnny più che una band
di musicisti sono degli appassionati di un certo modo di suonare, una sorta
di band tributo ad un suono e ad un'attitudine che solo chi ha ancora fede
nel sacro verbo del Rock'n' roll può capire. La musica che Cobb ha proposto
sui suoi dischi e sui palchi per anni non ci ha fatto dubitare che fosse la
persona giusta per noi! Mescalina: Ma tutto è nato dalla canzone di Springsteen "Incident on 57th
street"? Cletus Cobb: Certo che sì. Loro erano già Spanish
Johnny nel '98 e sono partiti proprio da "Incident". Quando abbiamo
deciso di scrivere il disco, io ho chiesto di aprirlo riscrivendo un mio
finale di "Incident". Nella canzone del Boss Spanish Johnny viene
portato via e secondo me muore. Il Boss stesso non lascia intendere niente di
più preciso quindi ho deciso di finirla io con Spanish Johnny che scappa con
Puertoricane Jane … Mescalina: Il vostro Spanish Johnny quindi ha lo stesso spirito di quello di
Springsteen, un po' disperato e un po' romantico? Cletus Cobb: Ovvio. Mescalina: E avete messo il mandolino alla fine del pezzo perché nell'omonima
poesia di Willa Sibert Cather si parla di un suonatore di mandolino? Cletus Cobb: Esatto, abbiamo trovato questa poesia di
Willa Sibert Cather (peraltro meglio come conosciuta come "madre"
dei romanzi rosa!) in cui c'era questo spagnolo che suonava il mandolino. … Mescalina: E se Springsteen stesso avesse preso il nome del suo personaggio
proprio da quella poesia? Santiago Lobo: Non lo so, ma sarebbe interessante cercare
di capirlo, lui non ne ha mai parlato, credo … Cletus Cobb: In ogni caso Springsteen ha un lato
romantico meraviglioso e chi ascolta la sua musica senza cogliere questo
aspetto secondo me ne ascolta solo metà. Mescalina: E voi avete messo "strumenti da border" come armonica e
fisarmonica per dare un'atmosfera da ghost town? Per crearvi un vostro
ambiente come se lo è creato Springsteen con il suo "spanish ghetto"?
Cletus Cobb: Sì, anche perché l'idea è che il progetto
"Jokerjohnny" sia diviso in due capitoli: il primo è quello diciamo
più romantico, che deve cogliere un certo tipo di romanticismo del rock'n'roll,
anche con suoni più distesi usando il pianoforte, la fisarmonica,
l'harmonium. Il secondo disco invece sarà più rurale, più legato alla terra
nel senso di appartenenza alla terra e quindi sarà un po' più crudo … Santiago Lobo: Stiamo pensando ad un disco più acustico,
anche più bluegrass proprio … Cletus Cobb: Però non avevamo calcolato che sarebbero
venute le "Seeger sessions", anzi il secondo capitolo doveva essere
spudoratamente bluegrass, comunque abbastanza sudista (nel senso Louisiana del
termine), adesso invece lo limiteremo un po' altrimenti poi vengono a dirti
che fai le cose perché le ha fatte il Boss! Appena riesci a trovare una fetta
di pane te la mangiano gli altri! Mescalina: Diciamo che anche voi siete dei bei morti di fame però! Sempre pronti
a rubare … se penso quello che avete fatto a "Jokerman" … Cletus Cobb: Non abbiamo rubato niente. Dylan ce
l'avrebbe regalata comunque. La decisione di dare un volto diverso a
"Jokerman" è venuta, perché, nonostante quello fosse uno dei dischi
migliori negli anni '80, quell'arrangiamento non faceva uscire il pezzo
immenso che ci è sembrato. Mescalina: E come vi è venuta l'idea del trombone? Cletus Cobb: Henry Dakota suona il trombone nella banda
del paese … Santiago Lobo: Noi facevamo
già "Two hearts" col trombone! Mescalina: Tra l'altro su "Jokerman" ti sei preso anche una licenza
poetica cantando "fuck your sister" invece di "marry your
sister", no? Cletus Cobb: Ce ne sono altre due di licenze poetiche:
una quando viene esplicitamente detto che Gesù era femmina e l'altra quando
invece di "small dog", io dico "small setter"! Ce n'è
un'altra ma non me la ricordo più nemmeno io … mi sembra nella strofa dei
bambini. Mescalina: Di sicuro Dylan ne sarebbe lusingato! Ma passiamo a personaggi come
Zabulon e Demas: sono come voi dei reietti? Cletus Cobb: Sì! Mescalina: Zabulon viene dalla Bibbia? Cletus Cobb: No. È lo "Uncle Zab" di Lou
Cameron. C'è un passo del libro "Alla conquista del West", in cui lo
Zab fa da mediatore tra l'esercito nordista e i Sioux Dakota. Finisce male.
Mi ha ispirato l'intera canzone. Demas invece è il ladrone buono... Mescalina: In entrambi questi pezzi ti scagli contro un uso della parola servile
alla logica dell'interesse e del favore … Cletus Cobb: Quei due brani sono dedicati a chi ha
usato la parola per costruire cose migliori per tutti pagando con la propria
vita. Come dice il Boss in " Mescalina: È una critica immagino anche ai mass media? Cletus Cobb: Se ti riferisci alla massima delle medie
ho preso "distinto" ... un buon voto ... me lo ricordo a memoria:
"con una situazione di partenza completa ha, complessivamente raggiunto
un buon grado di preparazione che però, date le capacità, con una più attenta
e responsabile partecipazione alle varie attività didattiche, avrebbe potuto
essere migliore. Sa lavorare correttamente con i compagni in un rapporto di
reciproco rispetto". Ero molto giovane ma già si capiva che sarei stato
un anarchico. Mescalina: Infatti da buon compagno non smetti di reclamare anche una memoria
storica ormai scomparsa … Cletus Cobb: Non sono un compagno. Sono un compagnone.
È quasi la stessa cosa ma non del tutto. Comunque la memoria degli altri non
so. Con la mia, a parte le pagelle scolastiche, ho diversi problemi. Lo
studio continuo credo che ci possa salvare. Soprattutto se accompagnato a
buone dosi di riflessione fancazzista. Mescalina: I due concetti vengono ben riassunti dalla voce storica di Marino
…parola e memoria ... con quella frase nel finale di "Figlio" che
riassume tutto ... Cletus Cobb: Il paese dimentica in fretta. Credo lo
faccia per ripetere le cazzate che ha solo abbozzato in precedenza. Il
progresso e lo sviluppo sono la migliore soluzione per prenderti a calci nel
culo. Da questo punto di vista, i Gang sono l'esempio migliore se ad un certo
punto della tua vita decidi che a prendere i calci saranno quelli che finora
li hanno sempre dati. Sono orgoglioso di essere loro "figlio". Il
loro messaggio è difficile da dimenticare. Mescalina: Come è successo che vi hanno adottato al punto da regalarvi un loro
pezzo, "Figlio" appunto? Cletus Cobb: Noi abbiamo lasciato proprio che fossero
loro: gli abbiamo solo mandato il nostro materiale. Mescalina: Ma gli avete chiesto voi una parte recitata? Cletus Cobb: L'idea era quella di fare cantare a Marino
la seconda strofa di "Tombstone" che a me ricorda molto il
paesaggio appenninico, dove loro stanno nelle Marche, quando dice "Ali
che si muovono appena / disegnando geometrie naturali": me l'ero già
immaginata cantata da lui e Sandro avrebbe fatto un solo di chitarra. Marino,
quando l'ha provata, mi ha detto: "Questi so' i tuoi deliri e meglio che
te li fai te da solo! Io ti faccio una roba mia: se non ti piace, la butti
via. Noi si fa così di solito". Dopo qualche mese ci hanno spedito
"Figlio". Quando l'abbiamo sentita, ci ha lasciati svuotati: è
bellissima ed è davvero perfetta in "Jokerjohnny" … Mescalina: Perché l'ultima ballata l'avete intitolata "Leaving Las
Vegas"? Cletus Cobb: È un riferimento al film di Figgs … Mescalina: Io pensavo ad un modo per chiudere e sancire l'addio definitivo a
quel mondo di abbagli e di favori contro cui il disco si batte … Cletus Cobb: No. Nel film c'è questa
colonna sonora jazz scritta da Figgs e cantata da Sting, bellissima ma a me
sembrava centrasse poco con Las Vegas … così nell'unica scena in cui i due
protagonisti vanno "via da Las Vegas", la scena della piscina,
abbiamo pensato con molta presunzione di metterci una ballad country-rock …
era il tassello che mancava a quel capolavoro … Mescalina: Il rock'n'roll è presuntuoso, quindi rientrate nella lista … Cletus Cobb: Ovvio. Pensa addirittura che il progetto
complessivo prevede cinque dischi: uno è quello che è uscito dei My Uncle The
Dog, poi ci sono i due "Jokerjohnny" (con il secondo credo pronto
entro quest'anno), "Dog Tales" e forse un disco solo chitarra
armonica e voce ma non sono sicuro … Mescalina: E poi riunirai tutti questi deliri in un cofanetto?! Cletus Cobb: Certo! Al costo di un Euro altrimenti poi
la gente oggi va avanti tutta la vita a rinfacciarti di avere comprato un tuo
disco! Mescalina: Per ora questa prima parte di "JokerJohnny" come è stata
accolta? Santiago Lobo: Le reazioni al disco sono state superiori
alle aspettative, probabilmente perchè chi ci conosceva per le nostre
performances dal vivo non pensava che uscissimo con una produzione, un suono
e con arrangiamenti di questo tipo. Inoltre il punto di forza dell'album è il
livello e la qualità delle canzoni, cosa che spesso manca alle autoproduzioni
e non solo.... Mescalina: E in studio, cioè nel pieno del delirio, cosa ascoltavate? Cletus Cobb: "Jerusalem" di Steve Earle e
basta. Mescalina: Dove avete registrato? Cletus Cobb: Abbiamo registrato in Val Camonica… Santiago Lobo: … era la prima registrazione che facevano
lì… Mescalina: Non hai o avete in programma di registrare un live? Cletus Cobb: Non è che Cobb sia proprio un buon
investimento … anch'io, se dovessi investire su di me, non so se lo farei …
credo che i Johnnies vorranno pensarci bene. Mescalina: Ma voi credete davvero che sia un investimento difficile da accettare
produrre dischi con Cobb? Santiago Lobo: In generale produrre dischi di roots rock
in Italia è un investimento fallimentare. Il disco lo abbiamo pagato con un
anno di concerti e i nostri conti per ora sono ancora in rosso ... La
presenza di Cobb porta certamente entusiasmo visto che scrive e propone
valanghe di canzoni, il problema principale consiste nell'adattarsi ai suoi
ritmi notturni in fase di arrangiamento e registrazione... In ogni caso se
c'è qualche mecenate appassionato di r&'r che vuole finanziare il
prossimo album è bene accetto! Alessandro Ducoli di Richi Barone - Il Brescia (giugno
2006). Qualcuno ha ancora in mente l’immagine di Brescia come città
tutta industria e finanza, con pochissime concessioni alla cultura e allo
svago. Da allora – sono passati solo pochi anni -, l’economia ha subito il
trauma di una crisi dalla quale ancora non si intravede via di uscita. Per
questo e per molto altro la città è mutata radicalmente. Oggi ci sono gli
extracomunitari che una volta non c’erano ma ci sono anche le “Grandi
mostre”, che attirano migliaia di visitatori nella eccezionale cornice del
museo di Santa Giulia, che l’intera Europa ci invidia. La città è sempre più
bella, e la crescita artistica è sempre più rilevante, soprattutto nel
settore musicale. Francesco Renga è ormai una star riconosciuta, Riccardo
Maffoni ha vinto l’ultimo Festival di Sanremo nella categoria Giovani, Mauro
Pagani è considerato un luminare, Omar Pedrini stupisce ogni volta per la sua
fantasia e la sua determinazione. E ci sono pure Fausto Leali che non molla
un colpo e il “Boss” della provincia, Charlie Cinelli, che fa più concerti
lui che molti presunti talenti nazionali. Ci sono poi i cosiddetti minori,
quelli poco noti, anche se hanno talento ed esperienza da vendere. Tra questi
ci permettiamo di segnalarne uno, un cantastorie vero, che vive lassù tra i monti
ma non per questo non conosce il mondo. Di nome fa Alessandro, di cognome
Ducoli. E’ camuno, nativo di Breno, e da quelle parti lo chiamano “il
Ducoli”, anche se all’inizio era conosciuto come Bacco il matto. Ma
facciamoci raccontare da lui come è andata. Alessandro, senza offesa, come fa
uno che nasce a Breno a diventare musicista? Sempre che di “musicista” si possa
parlare … non credo sia una questione “territoriale”, si crescono infanzia e
preadoloscenaza schiavi di due sorelle maggiori che forti del diritto di veto
sull’unico mangiadischi della casa ti obbligano al reiterato ascolto di
Baglioni, Battisti, Fogli, Collage, Venditti, Pupo, Cocciante, ecc. Diventa
una necessità disintossicativa. Se invece vogliamo puntualizzare la questione
“camunia”, ti dirò che molte cose scritte e prodotte in valle dai miei
“colleghi” a me suonano molto interessanti (certamente hanno molto mordente
…). Noi ti conosciamo da molti anni, da
quando eri il cantante di Bacco il matto: spiegaci un po’ come è nata questa band
che ha inciso alcuni dischi di ottima levatura? L’idea mi è venuta per la
promozione del mio primo disco, Lolita. Nessuno aveva capito che nonostante
le sonorità swing (mi perdonino i puristi dello swing ….) si trattava di un
pugno di canzoni di astrazione folk-rock. Con Nicola Bonetti e Mario Stivala
abbiamo iniziato ad arrangiarli per una band elettrica. Soprattutto Bonetti
era assolutamente convinto che le potenzialità inespresse di quel disco
fossero una questione unicamente di “suono”. Non so se aveva ragione,
comunque è nata la “Bacco il matto band” poi diventata semplicemente “Bacco
il Matto”. In effetti i suoni del Bacco sono arrivati in diversi luoghi e
meglio di quelli della Lolita del Ducoli. Però credo si trattasse solo di
“maggiore maturità artistica”. La personalità aiuta sempre a far capire
meglio quello che hai da dire e, almeno nel mio caso, richiede sempre un po’
di tempo in più per esprimersi. Bacco il matto ha avuto un
eccellente riscontro a livello nazionale: le recensioni positive della stampa
nazionale lasciavano presagire un avvenire radioso: cosa è successo poi che
vi ha impedito di esplodere? Bacco il Matto ha interrotto la sua
attività perché Bonetti, nel frattempo divenuto esatta metà artistica del
progetto, si è trasferito in Veneto per lavoro. Non so se si può parlare di
chiusura del progetto, rimane assodato che adesso le priorità sono altre.
Diciamo che il Bacco si è preso un lustro sabbatico. Chiusa la porta di casa Bacco si è
aperta quella di casa Ducoli: ti sei allontanato di molto o hai solo girato
l’angolo? Ducoli e Bacco il Matto sono la
stessa cosa. Anche oggi. Scusa se insisto: hai fatto dischi
bellissimi come Cercatori d’oro, San Marco, Malaspina, Anche io non
posso entrare: com’è possibile che il tuo nome sia ancora poco
conosciuto? L’Italia ha legato la diffusione
della musica unicamente agli sponsor. Se hai degli sponsor non importa cosa
scrivi e canti, arrivi sempre e comunque. Sia nelle produzioni musicali sia
nella promozione live di un progetto. Ho sempre pensato che questa cosa fosse
un handicap ma dopo oltre 15 anni di canzoni e concerti credo di poter senza
presunzione affermare di non aver bisogno di nessun aiuto. Non perché non mi
piacerebbe averne (… ovviamente se si tratta di aiuto onesto …), sarei un
ipocrita a sostenere il contrario, ma perché l’unica cosa che mi interessa
veramente è continuare a fare canzoni e per farlo lo sponsor non è
necessario. Parlaci dei tuoi ultimi progetti,
di Senza dimenticare che sei tra i
finalisti del concorso musicale Musicultura di Recanati, una fucina dalla
quale sono emersi talenti come Amalia Grè e il nostro Riccardo Maffoni. Credo sia un buon palcoscenico. Ci
sono andato solo recentemente perché ritenevo di non essere ancora maturo per
proporre le mie cose di qualche anno fa. Forse avrei dovuto andarci prima …
già Malaspina avrebbe fatto un figurone. Devo dirti che comunque fino a pochi
anni fa non mi interessavano i concorsi musicali anche se Recanati mi ha
sempre dato l’impressione di essere “meno concorso” degli altri. Forse oggi
non è più così ma non so dirti … non ci penso più. Comunque con E a Settembre il nuovo disco, che
speriamo sia quello della definitiva consacrazione. Non credo sia una necessità avere
una consacrazione. I parametri che servono a descrivere questa cosa oggi sono
talmente deviati e devianti che quasi preferisco non succeda. Spesso la
consacrazione non dipende nemmeno dalle canzoni che scrivi. Per me è gia
un’enorme gioia aver proseguito il mio viaggio artistico con il mio nuovo
disco che si intitolerà Brumantica (penso verrà stampato per ottobre). L’ho
realizzato con Alessandro Galati, Ellade Bandini, Ares Tavolazzi, Fabrizio
Bosso, Tino Tracanna e Sandro Gibellini. Il disco è stato prodotto da Paolo
Filippi del Cavò studio di Bergamo. Con Paolo abbiamo ragionato anche
sull’eventuale promozione del lavoro. Dopo lunghe analisi, che spesso
finiscono con delle incognite troppo grandi, abbiamo deciso che in assenza di
idee concrete produrremo un altro disco. Cesare Casalini, www.vocecamuna.it Anche questa volta ho “intrappolato” il Ducoli in una lunga intervista
che riguarda il suo ultimo lavoro appena uscito, “Taverne, stamberghe,
caverne” in collaborazione con la sua Banda. CESARE: OK, Sandro, siamo qui per parlare del tuo ultimo disco
“Taverne, stamberghe, caverne… ALESSANDRO DUCOLI: Certo, anche se io ti ho già detto che non ho molta voglia
di parlare di questo disco. C.: Come mai? A.D.: Così, non possiamo parlare di qualcos’altro? Tanto i camuni,
se vogliono sapere qualcosa di questo disco, me lo chiedono, con tutte le volte
che mi vedono in giro, non so, parliamo della mia infanzia… C.: Dall’ascolto di questo album sono riuscito a capire che ti
chiami Ducoli Alessandro Armando, non lo sapevo, ho imparato una cosa nuova,
e che, se non ho capito male, sei cattolico non praticante? A.D.: Sono completamente ateo. Ho dovuto dire che ero cattolico
non praticante perché Gesuplina è una persona molto sensibile, insomma, per
non turbarla, ma poi è stata talmente concitata la cosa che non avevo capito
se lei mi stava chiedendo se ero cattolico dal punto di vista anagrafico,
ovvero se avevo ricevuto i sacramenti oppure no. Le avrei risposto che il
sacramento del matrimonio ancora non l’ho preso, è un sacramento il
matrimonio? C.: Tra le note di introduzione del disco c’è un “Arrivederci
Signor G”. A.D.: Nei giorni in cui stavamo chiudendo le riprese, forse
mancava proprio solo la voce, è mancato Giorgio Gaber che è sempre stato uno
dei miei guru, per cui sembrava doveroso riconoscere il fatto che se il
Ducoli si occupa di canzonette è anche perché qualche maestro c’è stato, e
fra questi Giorgio Gaber sicuramente è uno dei maggiori. Questo album è
l’esatta metà. Volevo dire artistica, ma mi sembra un po’ azzardato sostenere
che sia arte quello che faccio, è l’esatta metà di un progetto che vede un
disco intitolato appunto “Taverne, stamberghe, caverne” e il libro di Marco
Quaroni “L’uomo delle taverne”. Il progetto, nel suo insieme, si chiama
“Uomini delle taverne”, ed è, diciamo, dedicato ai piccoli centri urbani
delle Alpi. C.: C’è una canzone che si chiama “Sgangherata”. A.D.: “Sgangherata” scritta ispirandomi alle rane del Caalèr del
Passo di Crocedomini. Mi sembrano degli esseri molto allegri, quando saltano
liberamente nei prati, ma qualche volta finiscono nelle mani sbagliate. C.: Mi sembra di notare che in questo album ci sia una ricerca
di suono di gran lunga superiore rispetto alle prove precedenti, secondo me
sei andato sempre in crescendo, da primi lavori magari un po’ stentati sei
arrivato comunque su livelli più che ottimi sulla qualità del suoni e anche
sulla ricerca degli strumenti e delle sonorità. A.D.: Penso che l’importante sia che una persona nella vita
migliori, per cui, magari non dico che erano stentate le prime cose,
sicuramente soffrivano di ingenuità, per cui inferiori alle prove successive
lo sono sempre state, anche se comunque l’ingenuità in certe cose può essere
un pregio. In questo caso sicuramente si nota il fatto che il disco è una
produzione, che comunque deriva da due anni di lavoro sia dal punto di vista
concertistico perché comunque è stato supportato da cinquanta concerti, e gli
arramgiamenti sono stati fatti dal vivo per una band normale, poi dopo
abbiamo individuato la possibilità di aricchire i suoni chiamando degli
ospiti e questo abbiamo fatto, comunque in questo disco, rispetto ai
preccedenti si nota la produzione, si nota soprattutto a livello ritmico,
infatti i produttori sono il batterista Arcangelo Buelli e il bassista
Massimo Saviola. La ricerca dei suoni è legata ai musicisti che riusciamo a
coinvolgere senza particolari problemi nelle cose che facciamo, quindi ci
sono Beccalossi e Bombardieri rispettivamente ala fisarmonica e al sax, che
comunque comparivano in tutte le mie precedenti prove soliste, purtroppo
manca Beppe Gioacchini alle percussioni, perché il disco dal punto di vista
ritmico non poteva sopportare le percussioni, abbiamo chiamato Oscar el
Barba, questa volta non per il pianoforte perché comunque disponevamo già del
pianista, Renato Saviori, ormai in pianta fissa nella band, l’abbiamo
chiamato per suonare il piano Fender, e poi abbiamo inserito anche un organo
Hammond suonato da Paolo Mazzardi degli Impossiblues. Credo che “Berlicche”
sia abbastanza emblematico di questa, diciamo, maturazione, ma non è forse
del tutto vero, di questa produzione, si tratta di un “New Orleans blues” in
cui il tocco ritmico dei produttori Saviola e Buelli viene fuori in maniera
ergegia, almeno questo è il mio punto di vista, non so quello degli
ascoltatori. C.: Volevo sapere anche qualche particolarità sugli studi di
registrazione che avete usato per questo album. A.D.: Grosse novità rispetto a quello che ho fatto in precedenza
non ce ne sono perché l’album è stato interamente registrato a casa di
Arcangelo Buelli che dispone di tutte le strumentazioni necessarie per fare
un lavoro di qualità, oltre a disporre soprattutto delle capacità tecniche,
cosa abbastanza rarar ai prezzi che propone. Abbiamo, rispetto al passato,
questa volta registrato il pianoforte in un altro studio, abbiamo registrato
un pianoforte vero, avevamo questo capriccio da risolvere, se il pianoforte
vero potesse aumentare la qualità delle canzoni, si tratta di canzonette,
insomma, usare un pianoforte vero rispetto a un pianoforte campionato magari
poteva dare un guadagno… Credo sia stato più un capriccio che altro, comunque
ben voluto e apprezzato sicuramente, il suono di pianoforte è, per me
personalmente che non avevo mai registrato un pianoforte a coda lunga in uno
studio appositamente creato per la registrazione di un painoforte è stato una
meraviglia, è quindi il pianoforte è stato l’unico strumento registrato in
maniera diversa rispetto al passato, poi tutto il resto è stato fatto a casa
di Archi. C.: Una costante che noto nelle tue canzoni è che c’è sempre
qualche riferimento al sabato sera, ai sabati felici, ai fine settimana, alle
avventure di sesso e alcool, insomma picaresche. Può essere il caso di “Un
sabato felice”? A.D.: E’ la canzone più morbida e romantica del disco. E’ una
canzone molto particolare perché racconta la storia di un nostro carissimo
amico che una sera, tornando da un concerto di Rickie Lee Jones lì in
pianura, tra Brescia e Piacenza, in un locale dove suonano, lui dice che
aveva bevuto solo acqua, ma non era vero, si è fermato per un bisognino, si
era fermata una volante dei Carabinieri per chiedergli cosa stava facendo e
lui gli ha chiesto “Ma dovete proprio chiedermelo?”. I Carabinieri lo hanno
denunciato per vilipendio all’Arma dei Carabinieri e lui è stato condannato a
sei mesi con la condizionale, per cui per una cosa del genere una persona
viene condannata, la fedina penale rovinata, per cui la sua vita deve essere
completamente adattata a questa situazione, se vai a cercare un lavoro vedono
che la tua fedina penale è sporca e non ti chiedono il perché. Siccome lui è
uno straordinario cantante di musica brasiliana, ha sempre avuto come fonte
di salvezza da questo disastro emotivo in cui lo hanno cacciato l’ascolto di
Caetano Veloso, abbiamo deciso di dedicargli questa canzone che ha ben poco a
che vedere con le sonorità di Caetano Veloso, però con il suo spirito quando
lui parla della musica, credo che c’entri eccome. C.: E’una canzone che potrebbe anche essere intesa come un
singolo? A.D.: Sì, C.: Adesso entriamo su un terreno minato perché affrontiamo il
discorso Fabrizio De Andrè. A.D.: Parliamo di De Andrade, il pirata che è morto trecento anni
fa, è scritto su “Le nuvole”… C.: …che tra l’altro in una canzone era il cugino di De Andrè,
l’illustre cugino De Andrade… A.D.: …l’illustre cugino De Andrade, pirata del Settecento. C.: “Nina”, mi stavi dicendo che siete stati anche a Genova a
registrare alcuni pezzettini al mercato. A.D.: Va detto che può suonare molto presuntuoso il fatto che il
Ducoli venga qui a pensare di essere un discepolo di De Andrè, spero che
questo orribile gioco non si ritorca contro di me. La canzone “Nina” è stata
scritta semplicemente perché l’album “Anime salve” è l’ultimo disco di musica
italiana che mi ha emozionato, e l’ascolto di “Ho visto Nina volare” mi ha
praticamente devastato perché la bellezza di quella canzone, di quei suoni,
credo che non abbiano eguali, per cui io con l’entusiasmo di avere scoperto
cotanta bellezza, ho cercato di rendere omaggio scrivendo questa canzone che
parla di De Andrè che sta scrivendo la canzone “Nina”, e siccome è piaciuta
moltissimo ai miei musici, abbiamo deciso di ampliare un po’ la presunzione
andando direttamente a Genova a registrare i rumori della città, per cui
siamo stati al mercato di Statuto a registrare la gente che tra l’altro si è
lasciata coinvolgere in maniera meravigliosa a questo gioco, noi gli abbiamo
detto: “Siamo della Valle Camonica, siamo venuti qui a registrare i suoni del
mercato perché vogliamo fare un disco”, è partita una festa del mercato, per
cui io spero che questa cosa suoni veramente come un tentativo di fare un
omaggio e non di emulazione di De Andrè, insomma, cosa che ritengo peraltro
impossibile. Non ci riesce il figlio che, geneticamente mi sembra molto
vicino al padre, figuriamoci se ci riesce qualcun altro, ma anche perché non
avrebbe senso. C.: E sul finale di questa canzone c’è un richiamo a “Creuza de
mà”. A.D.: Chiedo scusa a tutti i fan di de Andrè, perché anche questa
è una cosa che può suonare come una presunzione, io purtroppo ho il terrore
della presunzione, ultimamente, non perché sono abbastanza incline a
tirarmela un po’, ma perché purtroppo la gente è incline a romperti le
scatole su qualsiasi cosa fai. Il fatto che sul finale della canzone ci sia
il richiamo al riff di “Creuza de mà” è semplicemente derivato dal fatto che
la corista, mentre stavamo registrando la sua parte, ha cominciato a fare il
verso al riff di “Creuza de mà”, ci è sembrata una cosa splendida, e anche lì
è stato molto emozionante sentire che la cosa funzionava, per cui abbiamo
deciso di riprenderlo e di inserirlo nella coda della canzone. Ti è piaciuto,
Cesare? Dimmi sinceramente cosa hai pensato. C.: Il fatto del richiamo finale, è un discorso spinoso perché
oltretutto in questi giorni si parla sempre di plagi, non plagi, quando un
richiamo finale è perciso alla canzone, è un omaggio! A.D.: Era quello che poi noi abbiamo sperato che la gente
riuscisse a capire, insomma. C.: Adesso una cosa che mi ha particolarmente colpito, quel discorso
iniziale sul successo, sulle persone che devono avere successo, se no
diventano falliti, come voglianmo metterlo? Fra l’altro mi sembra che sia un
discorso proveniente da uno psicologo americano. A.D.: Dentro il disco c’è una canzone che si intitola “Maledetta
Africa”, che viene ripresa in maniera quasi totale anche all’interno del
libro ed è una canzone, non lo so neanch’io se di protesta o di che cosa
parla, semplicemente sostiene che… Posso evitare di dire che cosa sostiene?
E’ una canzone che parla di tante cose a cui noi abbiamo voluto inserire
questa intro che, in teoria all’inizio doveva essere presa pedissequamente da
una cassetta di una nota compagnia assicurativa tedesca che invitava i
consociati, una specie di P2, di loggia massonica, ad entrare in una logica
di succeso, di superuomo, di superio, con una serie di racconti di uno
speaker con una dizione da coglione, con sotto un jingolino idiota, e alla
fine abbiamo pensato che non era molto semplice prendere le frasi da quel
nastro perché era depositato, avremmo avuto grossi guai legali, abbiamo
deciso di fare il verso alla definizione di successo di questo noto psicologo
americano che lo ha studiato dal punto di vista sociologico, non per farne
l’apologia, e che invece questo speaker riprendeva per inculcare ai suoi
adepti nel mondo che ci sono persone di successo e falliti, sono le due
categorie di cui si parla. Io personalmente preferisco stare dalla parte dei
falliti, se il successo ha quella faccia lì, poi se si parla dal punto di vista
economico, Cesare, devono darci i soldi a noi e tenersi il successo loro. Non
trovi che sia una bella cosa? C.: Già, sarebbe una bella cosa. Ma un’altra bella cosa è anche
ascoltare questo pezzo che ha dei ritmi molto particolari, anche abbastanza allegri,
diciamo. A.D.: I toni non sono molto allegri, anche perché, al di là di una
intro che precedentemente era un 12/8 proprio per richiamare i ritmi
centroafricani e che non siamo riusciti a far funzionare in maniera adeguata
per questo pezzo, è un pezzo abbastanza duro. Diciamo che forse l’armonia,
come dici tu, è più morbida di quello che possa sembrare per una canzone con
un testo così duro nei toni, per il resto è una canzone abbastanza normale. C.: Avete suonato a “Rockin’ Colere”, “Se la montagna non va al
rock, il rock va in montagna”. A.D.: Ma te la sei inventata adesso? C.: No, l’avevo letto su un manifestino che riguardava una
manifestazione di “Rockin’ Colere”, che tra l’altro sono dei ragazzi che si
danno un da fare enorme perchè sono stati capaci di portare a suonare al
Palacolere perfino Joe Ely, se non mi sbaglio, quindi è gente che si dà molto
ma molto da fare, io ci ho visto Massimo Bubola, personalmente, cinque anni
fa, Bacco il Matto più volte… A.D.: …insieme ai Gang… C.: Insieme ai Gang, esatto. A.D.: All’inizio premetto che avevamo concordato con i ragazzi del
gruppo “Rockin’ Colere”, meravigliosi, un’ipotesi di loro cofinanziamento
dell’opera, intendo libro e disco, trattandosi di un’opera che parla di
piccoli centri urbani situati al centro delle Alpi, mi sembrava doveroso far
sentire quelli di Colere al centro della storia, poi per problemi
esclusivamente economici ovuti al loro autosostentamento, la cosa non è
potuta andare avanti, e io ho chiesto loro se ugualmente potevo presentare il
disco e il libro al Palacolere, loro hanno dato la loro piena disponibilità
dimostrando tra l’altro quanto siano comunque affezionati a certe cose. E’
triste, triste, veramente triste che le associazioni e le amministrazioni
della Valle Camonica, che hanno ben altri mezzi, nemmeno si occupino di
queste cose e lo facciano a Colere, dove hanno mezzi molto più contenuti. E’
triste ed è diagnostico di quanti cialtroni ci sono in Valle Camonica. E lo
dico senza nessuna presunzione. C.: Cosa mi puoi dire della canzone “Maligno”? A.D.: “Maligno” è una canzone colombiana. E’ una canzone degli
Aterciopelados che ho scoperto grazie a Carlo Ducoli che ha sposato una
signorina colombiana, che oggi vive a Breno, che mi ha regalato questi dischi
degli Aterciopelados in cui è contenuta questa canzone prodota da Marc Ribot,
che i feticisti waitsiani conoscono bene, e che è una canzone meravigliosa a
cui io ho inserito un testo in italiano, va be’, la versione originale è in
spagnolo, quindi non è che sia tanto difficile, però è un italiano che canta
in spagnolo maccheronico, non è un’idiozia, comunque, è una canzone che ha un
suo significato. Mi era piaciuta in modo particolare, è piaciuta anche alla
Banda, abbiamo deciso di arrangiarla in maniera molto simile all’originale,
però molto più europea, quindi il ritmo si è un poco rallentato e le
atmosfere si sono un po’ più incupite rispetto alla solarità del pezzo
originale. C.: Ti vedo piuttosto spaventato perché adesso dobbiamo parlare
de “L’alluvione”. Come mai? A.D.: Perché è un argomento molto delicato per me che lavoro e
ricevo uno stipendio dal territorio. Chiamarlo stipendio è comunque
abbastanza lesivo dello stipendio normale perché veramente penso ogni volta
di ricevere un’offesa morale, non tanto perché, avendo studiato, possa
pretendere un certo stipendio, ma perché è veramente basso. Comunque
“L’alluvione” sostanzialmente parla di tutto quello che è successo dopo gli
eventi della Valtellina soprattutto a livello economico, in termini di
speculazione edilizia, non vengono fatti dei riferimenti precisi, ma viene
semplicemente raccontata la storia di uno che osserva l’alluvione dall’alto,
la osserva canticchiando ancora le sue cose sapendo che comnque il dolore di
chi si trova nell’alluvione verrà poi dimenticato presto, mentre invece
coloro che restano a ricostruire potranno gioirsela e raccontarsi tante belle
cose anche riguardo all’aluvione. Mi rendo conto che, detto da me che oggi
lavoro per il territorio, è abbastanza difficile, però sono cose che io
sentivo dentro di me in maniera forte, e vi assicuro che il mio contributo
eticamente e deontologicamente, per quanto riguarda il territorio, è sacro. C.: Voglio fare una osservazione a proposito della Valtellina.
Io non vado molto spesso a Livigno, ci sono andato due settimane fa, erano
quattro o cinque anni che non andavo. Le gallerie dopo Sondalo sono diventate
lunghissime, praticamente hanno bypassato tutta la zona, ma mi viene il
sospetto che sia anche per non far vedere alla gente lo scempio. A.D.: Non credo che siano queste le considerazioni, certo,
sostenere che una strada per gente che vive in condizioni altimetricamente
disagiate rispetto ad altri, perché muoversi dalla Valtellina o comunque
dalla Valle Camonica per scendere al piano dove oggi si concentrano le
questioni produttive, il disagio c’è per cui una strada va costruita, non
riesco a capire il perché ogni volta che si deve costruire una strada non
sono queste le motivazioni che fanno muovere i primi passi, ma semplicemente
la possibilità di un rilancio in montagna. Fare una strada per poter fare
scendere la gente più tranquillamente io lo condivido, fare una strada per
far salire dei domenicani vestiti come degli idioti che colonizzano tutte le
nostre montagne, i nostri versanti, per poi riempire le tasche soltanto di
qualche persona, perché questo rilancio dello sci in Alta Valle Camonica, io,
sinceramente, come cittadino di Breno, non lo vedo come un grande beneficio
per me. Lo vedo semplicemente come un disagio, soprattutto in virtù del fatto
che abito esattamente di fronte all’uscita della superstrada, per cui io dico
se devono rilanciare qualcosa in Valle Camonica, io mi ritengo comunque in
dovere di dire: “Anch’io voglio essere rilanciato”. C.: Che particolarità sonore ci sono in questa canzone, “L’alluvione”? A.D.: In questa canzone c’è l’organo Hammond di Paolo Mazzardi
che dimostra l’esistenza di questi musicisti assolutamente sconosciuti che
suonano uno strumento musicale con la grazia e la forza dei più grandi
musicisti che ci sono al mondo. E così devo dire che è più o meno per i
ragazzi con cui ho lavorato, oprattutto per Saviola e per Archi, la cosa è
tristemente vera, perché purtroppo la musica oggi non è considerata una forma
d’arte, primo, secondo, non è più possibile pensare di vivere con la musica.
Quindi tutte le fregnacce che vengono raccontate in giro sulla necessità di
salvare la musica, sul fatto che bisogna crescere, sula qualità, sono tutte
storie perché la qualità non è che abbia bisogno di essere per forza di cose
accresciuta, cresce da sola, basta stimolare la fantasia e l’ingegno delle
persone, le persone alla fine la qualità la tirano fuori se ce l’hanno, se no
è meglio che cambino mestiere. C.: A meno di non essere un Robbie Williams che si intasca non
so quanti miliardi all’anno… A.D.: Senza andare troppo lontano, le letterine di Passaparola che
per cantare dei jingolini idioti prendono nove milioni al mese, adesso io
dico, probabilmente sono lamentele anche retoriche e lasciano il tempo che
trovano, però io la penso così, sono dieci anni che faccio questa cosa per
hobby e mi sono accorto che nessuno ha mai regalato nulla. Nessuno. Se uno
avesse preteso che gli fosse regalato qualcosa, però in questi dieci anni mi
sono accorto che non c’è salvezza in questa direzione che abbiamo preso. La
musica è destinata a distinguersi, rimarranno soltanto questi progetti
patinati che rimarranno soltanto i due mesi di promozione. C.: Abbiamo un esempio sotto gli occhi perché Sanremo è appena
passato. A.D.: Non ho visto niente, sono sei o sette anni che non seguo più
niente di Sanremo. L’ultima volta che l’ho seguito mi sembra che avessero
vinto forse gli Avion Travel, quanto tempo fa? C.: Credo che siano tre anni. A.D.: Appena? Mi sembra un secolo. C.: Cosa mi dici degli ultimi dischi di Tom Waits? A.D.: Sono due dischi meravigliosi, però costavano 50.000 lire
l’uno. Noi non viviamo a New York dove facciamo i consulenti a una Streamcast
(NDR Spero di avere scritto giusto), bisognerebbe anche avere rispetto anche
dal punto di vista economico della gente, poi parlo io che il mio disco lo
vendo a 15 euro, uno potrebbe dirmi, ascolta Ducoli… Vi esorto a non comprare
il disco del Ducoli perché 15 euro sono un furto. C.: Non è un furto se si considera che i dischi di Sanremo
costano 22 euro, quindi… Vogliamo vedere dove è il furto? A.D.: Il furto dei dischi di Sanremo non è solo nella musica, ma
anche solo dalle copertine. Le facce delle copertine di Sanremo già sono un
insulto. E’ fastidioso andare nei negozi di dischi e vedere lì facce che… C.: C’era una canzone su “Malaspina” che era un autentico
delirio, tra l’altro richiamava un po’ Tom Waits, con il carillon… A.D.: “Ubriachezza molesta”, non vi dico cosa ha detto mia sorella
quando ha ascoltato quella canzone lì. C.: E invece in questo album c’è un pezzo che si chiama “Delirio
ordinario”. A.D.: E’ una canzone che parla di uno che gli sono andate male
tutte, cioè voi immaginatevi uno che gli è morto il cane, ha cambiato l’acqua
ai pesci rossi e gli ha messo il cloro, uscendo di casa ha rigato la macchina
sulla fancata, ha trovato dei boxer che non sono suoi nella cmera da letto di
sua moglie, cioè una roba simile. Si accorge di essere un finito, un fallito,
però è una persona che pensa di avere ancora qualcosa da dire e allora manda
letteralmente tutti al diavolo e se ne va a vivere in una città, una
metropoli che comunque offre la possibilità di nascondersi dalla propria
personalità perché ci si tuffa in quella degli altri e mentre passeggia sotto
la pioggia accorgersi che gli cade la pioggia sulla testa, per cui l’unica
cosa che può fare è rendersi conto che non ha più nemmeno il cappello, che io
lo ritengo l’ultimo stadio dell’uomo. Quando ha perso il cappello l’uomo ha
finito. Dopo la speranza, cioè, è un pezzo molto allegrio, molto divertente,
però il messaggio di speranza qualcuno dovrebbe andare a cercarselo, comunque
non è una canzone da sconfitti. E’ una canzone da persone che analizzano la
oro situazione e che si arrabbiano perché la sfortuna gli si accanisce contro.
C.: Certe volte vedo anche io dei personaggi che si possono
accostare a questo tipo di vita e tra l’altro non sono neanche pochi, forse
sono anche la maggioranza. In confronto a tanti fortunati che magari manco se
lo meritano… A.D.: Ma io non dico sconfitta nel senso letterale del termine,
sconfitta dico cronica sfortuna, cioè una persona anche se ha qualcosa da
dire, viene continuamente messo in condizione di dovere rianalizzare il tutto
perché è successo un episodio che lo riporta indietro e questo può anche dare
fastidio certe volte. Dopo abbiamo deciso di fare per forza un pezzo allegro,
perché non è allegro, è un tango questo. Sfortuna comunque da analizzare con
allegria, non da fare i musoni, tra l’altro, insomma, io sono anche
interista, per cui la gente deve sapere che i nerazzurri sono temprati al
dolore e alla sconfitta, vivono con allegria, se tu guardi i tifosi, allora,
gli juventini hanno Alessia Merz, i milanisti hanno Emilio Fede, noi abbiamo
Bertolino, Paolo Rossi, cioè tutti questi personaggi… C.: Noi abbiamo Jannacci e Abatantuono, eh? A.D:: Beh, Abatantuono… Jannacci probabilmente era affezionato al
Milan dei cacciaviti, quello degli anni ’60, non penso che siate così messi
bene neanche voi. Avete anche Piersilvio, però. Sapevi che la figlia di
Berlusconi adesso è direttore della collana Mondadori? C.: Devo notare che hai fatto un notevole miglioramento anche
sul piano vocale. Forse c’è qualcuno che ti ha insegnato, impostato… A.D.: Truffaldino, truffaldino il Cesare, ha saputo che vado a
lezione di canto… Sì, il Boris mi sta insegnaìndo ad emettere dei suoini che
possano risultare gradevoli per qualcuno. Lui dice che prima emettevo dei
suoni che erano sgradevoli per chiunque, me compreso, sono assiduamente
istruito da lui che si è dimostrato essere fra l’altro un maestro di rara
professionalità per quanto riguarda il canto, io lo conoscevo abbastanza
bene, ma non sapevo che lui avesse frequentato questi seminari di jazz con
Matt Murphy e mi sono divertito, non pensavo di divertirmi, poi il risuttato
è stato abbastanza infimo, si nota qualche miglioramento però almeno la
dignità di provare a dare un senso nuovo a quello che stavo facendo. E’ stata
una esperienza molto interessante, che tra l’altro sto proseguendo perché mi
ha aiutato molto a capire alcuni aspetti del canto che io sinceramente non ho
mai neanche preso in considerazione. Soprattutto mi ha fatto notare una cosa.
Tutti sostengono che Tom aits canta male, con la voce roca, sono tutte
storie, perché analizando dal punto di vista tecnico quello che fa Tom Waits
nei cantati viene fuori che c’è una professionalità e uno studio di base
notevolissima, testimoniato peraltro da un cambio radicale di atteggiamento
alla voce tra “The heart of saturday night” e “Small change”, è passato un
anno fra la registrazione di quei due dischi e sono due voci completamente
diverse, quindi o si è fumato davvero tutti i TIR della casa di produzione
della “Lucky Strike” che attraversano l’America in un anno solo oppure c’è
stato uno studio per valorizzare un aspetto che poteva essere particolare
della sua voce, quindi io queste cose qui prima non le avevo mai prese in
considerazione, adesso le ho imparate grazie agli insegnamenti del Boris, per
cui se qualcuno avesse intenzione di approfondire gli aspetti del canto,
ritengo sia una esperienza interessante una lezione dal Boris, fra l’altro
economica. C.: Cosa mi dici di “Lenta”? A.D.: E’ una canzone molto intima, è una canzone dove il
pianoforte è l’elemento portante del pezzo, insomma, è una canzone lenta di
titolo e di fatto. C.: Siamo in un periodo oscuro, buio, per niente felice. C’è da
dire che la guerra è sempre sbagliata, ma soprattutto in questo periodo è la
cosa più assurda che si possa fare e che non porterà assolutamente a nulla,
lo dico io, mi prendo le responsabilità di quello che dico, non so se sei
d’accordo. A.D.: Sì, non mi esprimo, perché comunque si stanno già esprimendo
talmente tante persone oggi che mi sembra di non aggiungere nulla a quello
che di importante bisogna comunque dire, insomma. Io lo vedo soltanto come
uno stupido tentativo di rimettere ordine in una direzione che personalmente
io non condivido. Perché dobiamo impostare l’economia del mondo sui nostri
voleri? Non lo so anche perché se uno non è preparato su questi argomenti
rischia di afre la figura del cialtrone e di trattarli con sufficienza. Sono
eticamente contro la guerra, ovviamente, le ragioni di questa guerra le
conosco, non le condivido per niente, però mi sembra anche che tutta questa
mancanza di potere dell’Europa nei confronti dell’America sia un dazio che
dobbiamo pagare per colpa di una certa sudditanza che ci siamo trascinati
negli anni precedenti perché non vedo perché l’Europa debba dipendere in
maniera così sconsiderata dall’economia americana, dal momento che possiamo
cavarcela benissimo da soli. Il fatto che l’America ne faccia poi un ricatto
morale, dà fastidio che i più imbecilli d’Europa siano proprio gli italiani e
gli inglesi, che in maniera smisurata vanno a dare ragione alle questioni
americane. C.: Non servirà a nulla, anche perché nel frattempo si stanno
già esprimendo altri, come abbiamo già detto, comunque sappiate che io, Cesare
Casalini, e Alessandro Ducoli diciamo no alla guerra. Non serve a niente,
però lo diciamo lo stesso. A proposito di questi giorni… A.D.: Ufficialmente è la canzone che chiude il disco.
Ufficialmente perché alla fine è stata messa ancora la canzone di apertura in
un arangiamento diverso e con un testo leggermente diverso. Questa canzone,
“A proposito di questi giorni” è una canzone molto semplice, una canzone
gioiosa che può essere letta, diciamo, come un classico episodio di
cantautorato ducoliano, ammesso che io possa fregiarmi di avere uno stile,
che uno può dire “copia già se stesso” oppure può dire “caratterizza il suo
suono”, però è un pezzo a cui io tengo molto, mi sembrava doveroso metterlo
alla fine di questo disco con un messaggio molto semplice che sta nel
desiderio di amore. Può sembrare banale dalla voce di un orso come il Ducoli,
ma è così, amore che poi può essere per una squardra di calcio, per un
animale, per una donna, insomma amore in senso universale del termine. Nel
senso marleyano del termine. All’ultimo Sanremo vi sono state canzoni che
hanno dimostrato quanto povera sia la situazione della musica italiana, a
maggior ragione la gente deve comprare i dischi del Ducoli, soprattutto in
Valle Camonica dove veramente nessuno mi ha mai dato una mano, perché prima
di uscire neanche le birre ti pagano i camuni. Ci sono in giro i Brabarossa
che vanno in giro da vent’anni a fare ciofeghe, date una mano al Ducoli che
ha fatto un disco straordinario… Mi sono fatto un po’ di pubblicità? Cesare Casalini, www.vocecamuna.it CESARE: Sono con Sandro Ducoli alla voce e alla chitarra
acustica, Nicola Bonetti e Mario Stivala alle chitarre elettriche, Sandrino
Bontempi al basso e Sergio Viola alla batteria, che però questa sera non può
essere con noi. Allora, Sandro, da dove viene questo strano nome, Bacco Il
Matto?: SANDRO: A parte il fatto che proviamo in una cantina, abbiamo
pensato al doppio senso che sta nella parola “Bacco”, che in Valle Camonica è
un verbo che sta per “faccio”, quindi siamo andati dietro a quello. L’abbiamo
pensato all’ultimo momento, serviva un nome per “Rock Targato Italia” e
l’abbiamo messo lì. NICOLA: Avevamo in mano una bottiglia di Barbera, era Bacco! CESARE: Nicola, ma mi sembra che il gruppo sia nato nel giro
di poco tempo. NICOLA: Diciamo in un mese e mezzo. CESARE: Ma come è nato tutto, una sera… NICOLA: Una sera in una birreria di Edolo da poco aperta, dove
c’era Sandro Ducoli che era stato ammesso a “Rock Targato Italia”, e non
voleva andare a suonarci acustico proprio perché l’anno scorso non era stato
proprio apprezzato, di conseguenza mi ha lanciato la proposta di fare una
cosa abbastanza improvvisata, per fare quattro pezzi al Public House alla
Sacca di Esine, e da lì è nata poi l’iniziativa di fare questo gruppo con
Mario Stivala e Sandro Bontempi che conosceva Sandro Ducoli. Nel giro di poco
tempo abbiamo messo insieme quattro canzoni, siamo andati giù e adesso stiamo
continuando. CESARE: Mi sembra che Sandrino Bontempi sia un veterano del
rock locale. In che formazioni hai suonato? SANDRINO: Non me le ricordo tutte, comunque, Pà e Ansia,
penso… ma veterano sta per vecchio? CESARE:Va beh, di lunga data, dai. SANDRINO: No, comunque ho suonato un po’ dappertutto, adesso sono
qui, sono contento comunque. CESARE: Mario Stivala, invece, hai suonato da qualche parte
prima di Bacco Il Matto? MARIO: Ho suonato in un gruppo di Edolo, gli Sleepers, poi
adesso in un gruppo che si chiama Random Coil, e poi suono con Sandro per
queste occasioni di Rock Targato Italia. CESARE: Sandro, le tue influenze musicali quali sono, mi
parlavi di un gruppo che fra l’altro è uscito recentemente con un CD che si
chiama “Crash”, SANDRO: E’ uno dei dischi più belli che ho comprato
nell’ultimo mese, sinceramente non ho nessun tipo di preferenza anche perché
ascolto una valanga di dischi dal funky al blues al jazz al rock al pop. Non
mi faccio una fissa, si, ho quelle tre o quattro fisse che sono sem: pre
quelle, però ultimamente mi è piaciuto moltissimo questo disco perché mi
piace molto come ritmo e questo modo di intendere gli strumenti più diversi,
è un amalgama che mi piace molto. CESARE: Nicola, quali sono le vostre aspirazioni principali? NICOLA: E’ una domanda grande, vedo Ducoli che sta scenerando
dentro la sua chitarra acustica. Tu mi domandi di aspirazioni, l’aspirazione
è quella di uscire dall’ambito della Valle Camonica, è quello di riuscire a
far capire alla gente che anche qui esiste un cuore musicale e mettere in
evidenza questo, insomma. CESARE: Già il fatto di avere partecipato alle selezioni di
Rock Targato Italia è stato un buon colpo, direi, no? NICOLA: Sì, è stato un buon colpo, anche se sinceramente non
apprezzo personalmente tutto il sistema, non Rock Targato Italia, ma il
sistema musicale italiano, proprio per il fatto che, secondo me, è puntato
verso il commercio e non tanto verso la musica, è più mercato che musica. CESARE: Il braccio e la mente, il braccio siete tutti voi, ma
la mente chi è? Chi scrive le canzoni? SANDRO: La mentecatta sarei io. No, sono tutti pezzi che io ho
scritto, alcuni molto giovani, con una settimana di vita. CESARE: Sandrino, come mai questa passione per i Deep Purple? SANDRINO: Perché ho macinato talmente tanti dischi dei Deep
Purple quando ero giovano, o quando ero meno vetusto, diciamo, che mi sono
rimasti nel sangue, e adesso non riesco ad ascoltare altro. CESARE: Mi sembra che tra la nascita del gruppo e il primo
concerto sia passato pochissimo tempo, se non mi sbaglio. SANDRO: Una settimana. Sì, avevo questa urgenza, insomma,
l’anno scorso non ero stato molto soddisfatto. CESARE: Dal fatto di avere suonato da solo. SANDRO: Sì, dal fatto di avere suonato da solo.
Sostanzialmente abbiamo riproposto due pezzi che avevo suonato quella sera,
però da solo, si, va beh, sono questioni che riguardano esclusivamente le
capacità tecniche. CESARE: Sì, poi chi vede un concerto sa benissimo quale è la
differenza tra uno da solo che suona con le basi e un gruppo di ragazzi che
suonano insieme. SANDRO: Sì, sapevo che mi serviva un suono, a parte che io e
Bonetti abbiamo in testa un suono già da un bel po’, perché abbiamo più o
meno gli stessi gusti musicali, ascoltiamo gli stessi dischi e così io gli ho
detto che avevo queste canzoni, volevo un po’ arrangiarle, ci siamo trovati
praticamente quasi da soli. CESARE: Nicola, questa passione per Calvin Russell… NICOLA: Mah non è solo Calvin Russell, è tutto il rock al
margine la passione mia, cioè, dal punto di vista musicale mi piacciono
quelli che magari sono meno considerati sul mercato e sono musicalmente dei
grandi lo stesso, Calvin Russell l’ho preso come esempio, ha fatto un passato
da ex-galeotto, da tassista ed è un grande musicista nonostante tutto, io con
il mio ex-gruppo, i Blesk, ne proponevo un brano, “One meat ball”, un brano
che secondo me ha un grande suono. CESARE:Ho scoperto che io e Sandro Ducoli abbiamo una
passioncella in comune, Tom Waits. SANDRO: Sì, va beh, passioncella, io sono innamorato di questo
personaggio, mi piace moltissimo il modo che ha di raccontare le storie che
gli succedono, ho ascoltato tantissimo i suoi dischi, è una delle mie fisse,
poi c’è questo disco che è la colonna sonora di una rappresentazione
teatrale, “Frank’s wild years”, con alcune canzoni stupende fra cui “Cold
cold ground”. CESARE: Anche musica italiana, però, nelle passioni di Bacco
Il Matto, qualcuno mi ha parlato di Angelo Branduardi. MARIO: Sì, sono io. CESARE: Motivazione di questa passione, nata in vecchi tempi,
credo? MARIO: Sì, nel senso che quando ho iniziato a suonare mi sono
accostato principalmente alla chitarra acustica e alle canzoni da cantautore,
e quindi mi è nata questa passione per Angelo Branduardi, che ho visto anche
in concerto qui a Breno, soprattutto per quanto riguarda il matrimonio tra la
poesia e la musicalità dell’artista. Mi piace questo aspetto che reputo
fondamentale. Mi piace molto la canzone “Fou de love”, per la sperimentazione
sull’uso delle lingue, mi pare che si utilizzino molte lingue moderne e anche
quelle “morte”, compreso il fiorentino, il napoletano e altre lingue, mi pace
molto questa contaminazione e questa sperimentazione linguistica. CESARE: Il batterista si chiama Sergio Viola, però stasera è
imossibilitato a essere qui causa malattia, sto dicendo bene? BACCO IL MATTO: CIAO SERGIO, COME STAI??? SAKA WAKA SAKA
WAKA!!!! CESARE: Anche perché sarebbe un po’ difficile essere qui con
39 di febbre, vero? SANDRO: Infatti adesso facciamo il suo pezzo preferito che è
un sambù di due ore, per la gioia di chi ascolta… CESARE: Va beh, due ore forse non riusciamo a contenerle,
però… SANDRO: Non erano questi i patti! CESARE: Voi che siete dell’ambiente, conoscete personalmente
Charlie and the Cats? SANDRO: Charlie lo conosco perché è iscritto ad una
associazione a cui sono iscritto anch’io, che ha un inno che Charlie ha
cantato all’ultimo concerto che ha fatto a Sabbio Chiese, ed è l’inno
dell’associazione, quindi… Di Charlie io conosco il fatto che lui ha rifiutato qualsiasi
tipo di promozione per autoprodursi e questo mi basta e mi avanza. CESARE: Da quanto ne so ha rifiutato questo anche perché loro
vogliono ritenersi assolutamente liberi nelle loro scelte, soprattutto per i
testi, cosa che invece con una major o con la produzione di qualcun altro non
sarebbero stati così liberi. SANDRO: Secondo me i boss delle major sono dei bravi ragazzi
che hanno le loro questioni, ma chi suona ha le proprie, quindi condivido le
questioni di Charlie e non condivido assolutamente le questioni dei
produttori delle major. CESARE: Grazie a tutti e ciao. BACCO IL MATTO: Grazie a te, ciao. Bacco il Matto – La pecora nera Bacco il Matto ha posto le condizioni: l’intervista si farà
nel posto X all’ora X. Le Pecore Nere si sono recate all’appuntamento. Io ero
un po’ scettico; l’unico concerto del Bacco che avevo visto non mi era
piaciuto (troppo distante dai miei gusti musicali) e la lettera arrivata al
nostro giornale da parte di un membro del gruppo mi trovava in disaccordo con
lui su alcune questioni. Ma il Bacco ci ha fregato, attirandoci nella sua
tana e stordendoci con dell’ottimo whisky. Ecco il resoconto (incompleto per
ragioni di spazio e di lucidità mentale) della chiacchierata con Bonetti
(chitarra) e Ducoli (voce + chitarra). PAOLO: Ho notato che la vostra forma canzone è legata comunque
ad una sorta di clichè: strofa-ritornello-assolo. E’ possibile un’evoluzione
di questa struttura della vostra musica? ALESSANDRO DUCOLI: Per adesso quello che voglio fare è proprio
di scrivere strofa-strofina-ritornello. Magari un giorno mi stancherò di
farlo a allora farò qualcos’altro… Io considero la canzone con molto
rispetto. E’ uno strumento per raccontare qualcosa, per comunicare. E poi io
conosco soltanto cinque accordi e da lì non posso togliermi. RICKY: Mi sembra che il vostro punto di riferimento musicale
sia il rock texano. A.D.: Non è assolutamente vero. Siccome in questo momento la
chitarra di Bonetti è il fattore trainante e lui ha in testa questo tipo di
sonorità, il risultato è quello da te indicato. Io ho ascoltato moltissimo i
cantautori anni ’70 tipo Buscaglione e Ciampi e dunque provengo da
quest’area. Chiaramente siamo riusciti a trovare una miscela giusta che
adesso come adesso ci soddisfa: chitarra texana + messaggio europeo. Quello
che ci interessa è adattare il modo di scrivere “americano” al nostro
contesto. R.: Qual è l’importanza che date alla tecnica nella vostra
musica? NICOLA BONETTI: La tecnica ha importanza zero o è importante un
milione. Non necessariamente serve la tecnica per esprimersi ma è un dato di
fatto che la tecnica serve ad esprimersi meglio. Io uso la tecnica per
esprimermi meglio; cerco una tecnica mirata, finalizzata ad ampliare certe
sensazioni. L’ideale è riuscire a trovare il giusto equilibrio tra la tecnica
ed il sentimentalismo con il quale ciascuno esprime la propria musica. P.: Avete degli obiettivi particolari come gruppo? A.D.: Per quanto mi riguarda mi piacerebbe fare dei dischi e
un concerto ogni week-end. Più in là è difficile arrivare in Italia, oggi
come oggi. N.B.: Precisando meglio gli obiettivi, devo dire che
l’obiettivo della band è quello di vivere con la musica. P.: L’obiettivo principale di quello che state facendo è mero
autocompiacimento, vale a dire, pura soddisfazione personale senza badare
troppo a chi vi ascolta oppure volontà di dare al pubblico un messaggio? N.B.: Trasmettere sensazioni o fare musica per
autocompiacimento è la stessa cosa. Nel momento in cui riusciamo a
trasmettere sensazioni, quello è autocompiacimento per noi. E’ quello che
vogliamo fare. R.: Riuscite a rendervi conto del seguito che può avere la
vostra musica? A.D.: La gente si ferma dopo il concerto e penso non perché
siamo belli (e poi siamo anche sudaticci). Non è attrazione fisica perché noi
siamo belli dentro. (risate n.d.r.). Questo è il nostro maggio riscontro. R.: Cos’è per te la musica con N.B.: Quella dettata dal sentimento, solo quella. Mi trovo a
volte ad ascoltare gruppi che basano l’intero concerto su pezzi scritti da
altri. Sicuramente gli autori che li hanno scritti li fanno meglio. Queste
band spendono energie finalizzate alla non comunicazione. Potrebbe essere un
riconoscimento rispetto a questo o quell’artista ma secondo me un concerto
intero di cover è impresentabile. Vedo band che organizzano un concerto di
cover per avere un introito aggiuntivo allo stipendio mensile. Questa non è
musica. Non c’è nessuna volontà di comunicare. Io paragono la musica ad un
linguaggio, come può essere l’inglese, il cinese o il tedesco. Bisogna però
avere gli strumenti per comprenderla a fondo. R.: Non sono d’accordo su questo parallelismo tra linguaggio e
musica. Nella maggio parte dei casi la musica è sensazione, emozione, mentre
il linguaggio è sempre qualcosa di piuttosto definito e razionale. N.B.: Effettivamente la musica non ha la stessa funzionalità
di una lingua ma comunque la musica ha determinate regole che devono essere
conosciute. Chi non le conosce non può capire a fondo la musica. A.D.: Il problema della comunicazione è dovuto al fatto che
oggi si ascolta poca musica italiana. Ascoltando musica inglese si perde il
50% del significato della musica, quello cioè legato al testo. Il limite più
grosso per la comprensione completa di una canzone è ascoltare la musica
senza fare attenzione alle parole. R.: E’ vero però che c’è musica che si indirizza più verso il
versante dell’intrattenimento o in cui il significato delle parole non è poi
così importante rispetto a canzoni che pongono tutta la propria attenzione
sul testo e sul suo significato. A.D.: Ti faccio un esempio, dopo la valanga Litfiba, qualsiasi
gruppo aveva iniziato a scrivere i testi “alla Pelù”. Soltanto che Pelù li
aveva scritti in momenti particolari e quindi avevano una valenza, mentre
tutti gli altri cercavano di imitarlo facendo solo figure orrende, e nella
musica tutto è lecito tranne fare figure orrende. Oggi si prende la musica o
come gotha o come schifo. E così si rischia di travisare il significato di
una canzone. Poi vorrei aggiungere una cosa: se fai musica triste sei
destinato a finire. La felicità è una componente troppo importante della
vita. La tristezza ora non la vuole nessuno. P.: Qual è il punto di rottura tra la ricerca della
trasgressione e la semplice volontà di riuscire ad andare fuori dalle righe? N.B.: Il vero trasgressivo lo riconosci dal suono e dalla
faccia che uno fa mentre suona. Guardami in faccia e giudica tu stesso se
sono artificioso… e poi non mi sento trasgressivo perché faccio esattamente
quello che mi sento naturale, ma mi rendo conto che faccio e penso cose che
non sono nella norma. Se qualcuno vuole catalogare il tutto come trasgressivo
a me va bene, ma io non mi sento così. L’unico rammarico che ho è che non
riesco a padroneggiare la mia 335 come vorrei. E forse la trasgressione è
soltanto un’etichetta. R.: Ritornando alle regole della musica, tu dici che è
necessario padroneggiarle. Ci spieghi meglio cosa vuoi dire? N.B.: La musica per eccellenza non ha regole. Le regole sono confacenti
al tipo di musica che fai, all’ambiente in cui è stata creata ed al contesto
sociale. Se uno è in un locale blues, non può suonare musica pop elettronica.
La regola non è specifica ad una situazione sistematica di tecnica; non
intendo per regola l’abbinamento di accordi che gira giusto. La regola
musicale è avere delle leggi che governano il proprio sound nel proporre la
musica nel contesto in cui la suoni. Non posso proporre musica “finta” dove
ho richiesta di musica “vera”. E poi ci sono delle regole fisse: ho sentito
band, purtroppo anche edolesi, non in grado di abbinare un basso ad una
batteria, incapaci di fornire un’accordatura decente. Con queste cose devono
fare i conti tutti coloro che suonano, anche Kurt Cobain che regole musicali
non ne ha mai avute. Sono regole banali che ti danno la possibilità di
scrivere una canzone ascoltabile. La mia lettera parlava di musica affine
alla persona che la suona e mai di tecnica musicale. Anche se la tecnica ti
permette di comunicare 1000 e non 5. Inoltre il messaggio deve essere
biunivoco: quello che suona deve sapere comunicare, ma quello che scolta deve
sapere apprendere quello che sente. La capacità tecnica è sempre rapportata
alla capacità dell’ascoltatore. Io sto suonando anche perché sento che qualcuno
recepisce quello che ho intenzione di trasmettere. Assolutamente questo non
può essere un messaggio per tutti ma è anche vero che chi ha mostrato di
gradire è da noi molto stimato dal punto di vista musicale, e questo ci
gratifica molto. In Italia vedo quasi esclusivamente un riscontro di musica
commerciale e devo fare i conti con questa prospettiva purtroppo. All’estero
è possibile che chi fa musica non commerciale riesca ad ottenere ottimi
risultati di vendita. In Italia questa possibilità non c’è. P.: L’ultima domanda è sul significato di Bacco Il Matto Band… N.B.: C’è una lite fra me e Ducoli sulla paternità del nome.
La band si è formata in poco più di quattro giorni in occasione d “Rock
Targato Italia”. Il problema era che ci serviva un nome per il gruppo. Le
intuizioni erano due: La devozione per il Dio Bacco perché ci coinvolgeva
sensualmente e sessualmente nell’ambito della vita. E poi si è passati a
Bacco Il Matto per una sorta di sinonimia con la terminologia dialettale.
All’epoca l’idea era questa anche se adesso le cose sono cambiate. A.D.: L’origine del nome è legata esclusivamente a motivi
commerciali: l’iscrizione alla S.I.A.E. permette l’utilizzo di uno pseudonimo
ed io avevo scelto proprio quello di Bacco Il Matto. Ora siamo diventati
schiavi dei nostri personaggi. Adesso noi non siamo più Bonetti e Ducoli.
Siamo obbligati ad essere ubriachi e se magari un giorno vogliamo mettere le
pantofole dobbiamo farlo di nascosto. E poi questo nome ha una musicalità
straordinaria. E’ un nome che va bene per un contesto globale, una scelta di
vita. Abbiamo deciso di rinunciare alla morosa. Non puoi essere Bacco Il
Matto e regalarle pelouches a San Valentino. E’ un contesto che ci sta
fregando. Il nome rispecchia quello che noi pensiamo della vita. N.B. & A.D.: Avete altre domande? R. & P.: No, non ce la facciamo più!!! Paolo Topa & Richi Moresci BACCO IL MATTO Cercatori d'oro
(Bacco il Matto) - Emiliano Coraretti (Musica! n°239; Maggio 2000) Una storia, quella
di Bacco il Matto alla ricerca del suo oro, scritta per esplorare le diverse
zone dell'esperienza umana. Una musica, il
rock imparato sugli spartiti di Calvin Russell e John Mellencamp, suonata per
spiegare che l'esperienza umana non si cambia, sia che si attraversi le
immense praterie americane, sia che si percorra i sentieri della provincia
italiana. Con il loro secondo lavoro i quattro
musicisti camuni cantano personaggi inventati, regalandoci una vita da
raccontare (Vito Malavita, Il tuo gentiluomo), e vanno a caccia
di personaggi veri (Piero Ciampi in Ho trovato l'oro), cercando di
investigarne l'anima. E se a volte la musica non decolla oltre i cliché
efficaci più su un palco che dentro un lettore, nei suoi episodi migliori (su
tutti Mani nude) Bacco il Matto dispensa emozioni degne di un whisky
ben stagionato. L'importante è ritorvarsi dalla parte di chi prova a stare in
piedi con nelle tasche una manciata di sogni da realizzare. Cercatori d'oro
(Bacco il Matto) - Marco Grompi
(L'Ultimo Buscadero n°281; Marzo 2000) Attivi quasi da un
lustro sui palchi non solo lombardi, Bacco il Matto è un quartetto
proveniente dalla Val Camonica innamorato del Rock più verace e sanguigno
(immaginate se il coguaro Mellencamp fosse nato tra le valli bresciane) e portatore
sano di un soud chitarristico dirompente e sincero. Con "Cercatori
d'oro" sono giunti alla loro seconda prova discografica orgogliosamente
autoprodotta, ad un anno da quel San Marco che è andato rapidamente a ruba
tra coloro che hanno avuto la fortuna di assistere a uno dei loro torridi
show. Un album che
denota una grande maturità sia per il livello di tutte le canzoni (otto brani
originali più uno avuto in regalo da un tale Chip Taylor), sia per la storia
che si dipana al suo interno: in definitiva è una sorta di
"concept" sulla ricerca di quell"oro" che rappresenta la
chimera di tutti i sognatori del Rock'n'Roll. Bacco il Matto ha
le proprie fondamenta nella voce alcolica e guascona di Alessandro Ducoli
(artefice di una cospicua produzione discografica anche come solista) e nelle
chitarre nervose di Nicola Bonetti, vero e proprio rocker purosangue con
un'innata inclinazione al riff micidiale: se Devi stare dalla parte giusta
è una specie di prologo che invita a schierarsi, la vera natura della band
viene fuori prepotentemente già dalle successive Gesù mi ha chiesto di
restare e Vito Malavita, possenti cavalcate rock dall'andamento
epico e maestoso eppure dal sound sporco e straccione come da molto tempo non
si sentiva. È chiarissimo che qui non si cerca la soluzione ad effetto o la
posa che faccia "tendenza" perché siamo nella patria del rock più
polveroso, inumidito semmai solo dal whisky o dalle brumose notti comuni. E,
musica dal passo spedito, scandita dal battere degli stivali di cuoio e pervasa
dal "palpabile" senso di verità. Sì, perché Bacco il Matto non ha
strategie discografiche alle spalle, non è trendy, è una band per nulla
"alla moda" che va dritta per la sua strada vivendo la propria
estetica rock con un'onestà scevra da compromessi; alla fine rimangono quindi
solo canzoni che si fanno apprezzare per la loro semplicità, per
l'immediatezza e l'innegabile marchio stilistico che si portano appresso
dichiarando un amore incondizionato per tutto ciò che sta tra Springsteen e
Calvin Russell, tra Joe Ely e Steve Earle. Succede quindi che nel mucchio
(tutte andrebbero menzionate) spuntano anche un paio di ballate
dall'innegabile "appeal radiofonico" (Linea di confine e Mani
nude) anche se a colpire maggiormente sono un ruvido omaggio a Piero Ciampi
amaro come il sapore che resta in bocca dopo una sbornia dettata dalla rabbia
("Piero devi dirmi che è vero che hai trovato l'oro") o il rotolare
impetuoso di Vita galera. Con la rarefatta Raffaella (unico
brano in inglese) scorrono i titoli di coda, è notte fonda (i bicchieri sono
ovviamente vuoti) e la malinconia riaffiora dalla note e dalle parole scritte
appositamente per loro niente meno da quel Chip Taylor che in altri tempi e
altri spazi regalò alla Storia del Rock Wild thing (Troggs, Jimi Hendrix) e
Try - just a little big harder (Janis Joplin). Bacco il Matto è
una band che non rivoluzionerà la scena rock italiana, ma avrebbe dalla sua
tutte le carte in regola (non ultime credibilità e integrità) per far piazza
pulita di tutti gli "zombie" attualmente in circolazione (tanto per
non far nomi, Litfiba, Negrita e affini). Teneteli d'occhio. Cercatori d'oro
(Bacco il Matto) - Mauro Eufrosini (Jam, n°58; Marzo 2000) Cominciamo dalla
fine, da quella traccia numero 9 che chiude il secondo disco di Bacco il
Matto. Il titolo di quella traccia è Raffaella ed è l'unica che non
appartiene al Bacco, ma ad un autore, Chip Taylor, che davvero non ti aspetti
di ritrovare dentro un dischetto autoprodotto, nato e cresciuto nelle
"whiskerie" della Val Camonica. Chip Taylor tanto per essere
chiari, è uno che ha scritto una manciata di hits mozzafiato, canzoni come
Angel of the morning (Merille Rush), Wild thing (Troggs, Jimi Hendrix) e Try
- just a little big harder (Janis Joplin), e che in questi ultimi anni è riapparso
sulla scena musicale attiva, con alcuni album di purissimo cantautorato (The
London sessions bootleg è la sua ultima, pregevole fatica). Onore al merito
allora al Bacco, che ha saputo accattivarsi le simpatie di un vecchio
songster e onore a Taylor, capace ancora di emozionarsi per una giovane band
affamata di palchi e riflettori. Raffaella è una rarefatta
ballad sospesa e notturna, perfetta chiusura di un album che alterna furore e
tenerezza con ugual candore e sincerità. Ha fatto parecchia strada il Bacco,
soprattutto se misurata dalla precedente prova, quel “San Marco” che solo lo
scorso anno aveva davvero ben impressionato per la selvaggia e improrogabile
necessità di Rock'n'Roll a chitarre spiegate. La necessità c'è ancora, ma
oggi il Bacco pare artisticamente più adulto, capace di tradurre l'impazienza
attraverso uno svolgimento strumentale più curato e corale. Tante chitarre,
un Hammond, tastiere e diavolerie campionate varie, condividono strategie
sonore che scivolano con elegante naturalezza fra rock, canzone d'autore e
pop. La voce di
Alessandro Ducoli, sempre sporca di tabacco e whisky pregiato, è misurata e
insinuante, le chitarre di Nicola Bonetti imprevedibili e ben calibrate, la
sezione ritmica, che saluta l'esordio di un nuovo bassista, Dario Filippi,
accanto ai tamburi di Mauro Ferretti, tosta e flessibile. Nelle otto tracce
di totale paternità del Bacco troviamo alcuni episodi che caratterizzano le
loro performance dal vivo, brani di potente italico rock come Gesù mi ha
chiesto di restare, Vito Malavita, Ho trovato l'oro, ma
anche una piccola, perfetta, canzone di malizioso melodico pop d'autore, Mani
nude, dall'appeal radiofonico irresistibile. Una prova di maturità per
una band che si ritaglia una precisa identità nel panorama rock italiano. San
Marco (Bacco il Matto) - Gualtiero Spotti (Il Giornale di Bergamo;
27/08/1999) Bacco il Matto è
un quartetto bresciano che ben conosceranno anche gli appassionati
frequentatori bergamaschi di locali con musica dal vivo.Ormai da un paio d’anni
a questa parte cioè da quando i Bacco il Matto sono in circolazione, il
gruppo si propone infatti come uno dei migliori esponenti di quel rock
d’autore dalle molte influenze oltreoceano, che anima la scena bresciana e
bergamasca. Il repertorio
gioca soprattutto la carta delle ballate (si coglie l’attitudine a
frequentare un genere caro ad artisti quali Massimo Bubola e Gang, con i
quali bacco il Matto hanno condiviso il palco), ma non dimentica di concedere
il giusto spazio a pulsazioni ritmiche di tutto rispetto con l’apporto del
batterista Mauro Ferretti e il bassista Luca Pedrazzi. A completare il
quartetto ci pensano Alessandro Ducoli (cantante e armonicista, nonché autore
dei testi e di parte delle musiche) e Nicola Bonetti, chitarrista elettrico che
conferisce compattezza e corpo alle composizioni, che sono in buona parte
realizzate, per quanto riguarda le musiche, a quattro mani in compagnia di
Alessandro Ducoli. Bacco il Matto qualche mese fa ha realizzato il suo CD
d’esordio. Si tratta di "San Marco", un lavoro da non sottovalutare
che mantiene l’inevitabile caratteristica di opera immediata cara a buona
parte delle produzioni provinciali, ma che allo stesso tempo lascia
intravedere qualità compositive non comuni ed un approccio musicale estremamente
godibile, da rock band sincera quale è. San Marco (Bacco
il Matto) - Mauro Eufrosini (JAM n° 49; Maggio 1999) Chi si ricorda di
Rino Gaetano o Piero Ciampi? Alessandro Ducoli, la parte gentile di Bacco il Matto,
pare ricordarsi di entrambi; del primo pare derivare il gusto per certe
ballate sbilenche, del secondo l’attitudine, di testarda innocenza, verso
l’amore e la vita, sia pure riflessa nei cristalli di un portacenere o di un
bicchiere. Bacco il Matto non
è però un cantautore con dietro una band, e la metà prepotente della band,
Nicola Bonetti (chitarre), Mauro Ferretti (tamburi) e Dario Filippi (basso),
lo fanno sentire in tutti i modi.Se ancora si può dire, Bacco il Matto sono
una giovane e affamata band di rock italiano, dove rock sta per chitarre
valvolari e taglienti, ritmica serrata e potente, e italiano sta nella scelta
di cantare in italiano (evviva) e di provare a mescolare la melodia con il
furore. San Marco è il
frutto di due anni di attività live, e anche il grido, rauco e spavaldo, di
una band che sogna e mangia rock’n’roll senza mai saziarsene. San Marco (Bacco
il Matto) - Paolo Morgandi (Nessun Dorma n° 0; Maggio 1999) Di valle in valle
il Bacco apre davanti a se lunghe tavolate imbandite di grassi maiali bagnate
dal miglio rosso delle ultime annate.Il Matto ride della sua musica con tutti
(e sono tanti) gli amici che lo seguono ovunque, e a chi, per la prima volta,
timidamente gli si avvicina. "San Marco", il loro primo disco è
sinceramente composto di belle canzoni, belle e coraggiose. Una manciata di
pezzi che raccontano di lune ubriache, di amori consumati dentro ai campani e
(ovviamente) di matti. Li ascolti e
capisci che per il gruppo sono qualcosa di veramente importante, ti danno una
pacca sulla spalla e ti chiedono solo di entrare, per restarci almeno un po’,
nell’animo. Rock stradaiolo ubriaco. Il rock stradaiolo penso vi sia di
facile intuizione, l’ubriaco è da intendersi come la cosa più benefica che
porta con se tale stato, la sincerità. Bacco il Matto non vi raggira, arriva
dritto dove decidete di mandarlo, e con una sincerità di intenti che, nella
musica che oggi ci circonda, è difficilmente riscontrabile. E’ la sincerità
del Rock, quello con la "R" maiuscola, appunto. Una serie di
ballate costruite su storie folkeggianti e folleggianti, canzoni che in
quattro minuti fanno un giro, ballando intorno a voi. Degna di nota è la
coraggiosa decisione, presumo di Alessandro Ducoli (voce e armonica, nonchè
autore di testi e parte delle musiche), di cantare in italiano. I testi
dovranno forse crescere ancora un pò, ma la strada è quella giusta, e rende
il tutto un pò più vicino a noi. Nella musica di
Bacco il Matto tutto è pesato e le note si incastrano a perfezione tra le
intenzioni che sembra portare con sè; le chitarre di quel diavolo di un
Nicola Bonetti (peraltro coautore con Ducoli di Molte delle musiche), sono
graffianti, che urlino o che sussurrino, lasciano un solco profondo al loro
passaggio dando al tutto un "tiro incredibile"; il ponte mancante
tra Springsteen e Young. La sezione
ritmica, composta da Mauro Ferretti alla batteria e da Dario Filippi al
basso, macina battute uniformandosi con qualità ai brani. Questo è quanto, su
di un disco che è un buon riflesso di ciò che il gruppo esprime durante i
suoi concerti. E’ infatti su di un palco che tutta l’espressività dei quattro
assume il massimo della credibilità, una presenza scenica essenziale ma
imponente, fatta soprattutto di musica. Regalatevi un loro concerto e capirete
che in fondo, non tutto è perduto! Così finì la storia di Bacco, lungo e
disteso ma conscio d’un fatto.........sincero e di strada, è vita da Matto. San Marco (Bacco
il Matto) - Patachou Clavel (KDR, kids
don’t follow n° 6; Aprile 1999) Chi non conosce il
Bacco? Credo che ormai se ne contino pochi di questi nelle nostre lande, o
almeno fra quelli con un minimo di interesse musicale visto che almeno da due
anni questa band (gang?) infiamma le serate camune con concerti ad alto tasso
adrenalinico, all’insegna di un rock a cavallo tra fascinazioni american
oriented e un certo cantautorato italiano. Comunque, per quei
pochi che restano informo che, gli adepti alla divinità etilista sono in
quattro, e cioè: Alessandro Ducoli (voce e chitarra), Nicola Bonetti
(chitarre), Dario Filippi (Basso), Mauro Ferretti (batteria), e che adesso è
possibile ascoltarli anche su CD, anche se , è bene precisarlo, non è proprio
la stessa cosa.Questo non perché la registrazione non sia buona, ma proprio
perché l’impatto "live" è notevole e in quest’ ambito la presenza
scenica di Ducoli è portentosa e distacca notevolmente qualsiasi seppur buona
realtà locale.Ma prendiamo il toro per le corna: San Marco è stato
autoprodotto nel novembre scorso (il titolo credo sia legato ad un aneddoto
boccaccesco ambientato in laguna) e, oltre ai quattro membri vede la
partecipazione di amici più o meno illustri fra i quali brilla Roberto
Ortolan, fedele chitarrista di Massimo Bubbola, e per quanto ne so gran bel
personaggio. Il brano d’apertura
è Luna Ubriaca, come del resto generalmente avviene anche nei concerti
e che può essere considerato il loro classico "cavallo di
battaglia" in cui, vengono dichiarate subito le coordinate musicali
all’interno delle quali i nostri si muovono. Per la verità queste non sono
inderogabili come dimostrano alcuni dei nove brani seguenti, dove l’andatura
a volte sfiora ambiti del reggae (Oggi) che del Jazz (Serena)
riuscendo però a mantenere una chiara identità. I pezzi migliori sono a mio
avviso: San Marco che apre con un gustoso intro del citato Ortolan e
che da il via ad un appassionante duello con Bonetti pronto a ribattere colpo
su colpo, per niente intimorito dalla caratura dell’avversario. Il risultato
è una poderosa cavalcata rock,il tipico suono "Gibson" rende molto
calda la situazione. Babilonia in cui il
protagonista è il cantato, o meglio i cantati, visto che a Ducoli si alterna
l’amico Marco Grompi e il suo delicato timbro vocale molto sixty. Il primo
poi mette mano (bocca) al suo strumento prediletto e cioè l’armonica,
traendone come sempre ottimi risultati. Il Matto è un “ballatone” di
chiaro stampo americano costruito attorno ad un riff di chitarra accattivante
e che si sviluppa con un suono elettroacustico raramente raggiunto alle
nostre longitudini, complimenti! Dalle mie scelte si capisce
abbastanza chiaramente che li preferisco nella loro versione più rock, più
grezza se vogliamo. Ammiro anche il loro coraggio di inoltrarsi in ambiti
diversi, come prima accennato, ma continuo a ritenerli essenzialmente una
"live band" che deve giocare le sue carte nell’entusiasmo e nel
divertimento che le sono connaturati, senza deviazioni onanistiche di sorta.
Dopo averli celebrati mi permetto di rilevare una "pagliuzza" e
cioè la resa della batteria: non supporta in maniera adeguata il resto, in
altre parole non da il "tiro" necessario a certi pezzi. Per l’altra metà
della sezione ritmica, Pedrazzi (ex bassista) non posso dirne che bene,
infatti oltre alle sue doti strumentali (ascoltarlo in serena per credere) si
sposa bene al resto della truppa anche se per il suo aspetto da "finto
tranquillo" che bilancia le performance sceniche della coppia
Ducoli-Bonetti. Non credo che il
CD sia venduto nei canonici punti vendita ma penso sia distribuito
direttamente ai concerti, basta presentarsi con ventitre carte da mille,
approfittatene! San Marco (Bacco
il Matto) – Cico Casartelli (Il Mucchio Selvaggio n° 341; Marzo 1999) Bacco il Matto. In
altre parole, una band che in tutto e per tutto propone del buon rock, come
testimoniano gli affollati concerti tenuti finora nelle loro zone (Brescia e
Bergamo) e appunto questo San Marco, primo passo discografico del quartetto. Il cantante e
armonicista Alessandro Ducoli a comunque già all’attivo due pubblicazioni in
proprio ("Sopra i Muri di questa città", 1995, e
"Lolita", 1997), giusto per stabilire che la sua personalità
caratterizza non poco la proposta del gruppo, a fronte soprattutto di liriche
fortemente narrative. La dilagante
presenza testuale (con il dovuto, marcato distinguo, si è per intenti dalle
parti del primo Bruce Springsteen) balza appunto subito all’orecchio, anche
se poi è l’insieme Bacco il Matto - Nicola Bonetti, chitarre, Dario Filippi,
basso, Mauro Ferretti, batteria, - a venir fuori, come dimostrano più brani: Primi fra tutti, Luna
ubriaca, San Marco e Se mi porti un fiore (queste ultime
due forti dell’apporto di Marco Grompi, tempo addietro metà artistica di
Cristina Donà e ora membro dei "Feel Hippie & Grumpy", prossimi
al debutto discografico), anche se non da meno sono Nuda e Cruda e
l’ottima Oggi, variazione del tema reggae che nel riff ha più di una
semplice somiglianza con un vecchio anthem dei Grateful Dead, "Uncle
John’s Band". Cercatori d'oro
(2000) Recensione di
Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk
MY UNCLE THE DOG My uncle the dog -
Tonight’s the day - Christian Verzeletti. www.mescalina.it
6 aprile 2004 Se un disco così
lo avessero fatto quei semidei degli White Stripes, tutti avrebbero offerto
libagioni all’Olimpo del rock tra lampi e saette. Oppure se lo avesse fatto
un profeta come Iggy Pop, tutti gli avrebbero auspicato l’eternità degli
immortali, nonostante anche lui si sia mescolato con infedeli del calibro di
Green Day e Sum 41. Invece “Tonight’s
the day” è opera dei My Uncle The Dog, alias Alessandro Ducoli e i Bogartz.
E, al massimo, si scomoderà qualche recensione importante, che poi non si sa
bene che effetti porti, se ne porti. Questo è un disco
esagerato, che potrebbe suonare come un sacrilegio per coloro che sono
cresciuti con il rock annacquato di oggi e per coloro che si ritengono
portatori di una fede dogmatica dalla notte dei tempi: tutta gente che merita
di essere profanata. E il rock’n’roll è ancora qui per questo, per liberare
quell’”istinto animale”, che uno come Alessandro Ducoli conosce bene, dai
tempi di Bacco il Matto. “Tonight’s the
day” è un discaccio, vero come ormai siamo poco abituati. È uno di quei
(rari) dischi in cui anche i difetti giovano alla causa, servono a far
buttare fuori l’anima nel caso qualcuno non se ne accorgesse: le chitarre che
sembrano essere fuori controllo, il Rhodes incantato, la voce che urla di
rabbia, quasi sbavando. Comincia così con la cover di “Tonight’s the night”
di Neil Young e finisce con una scheggia ancora più infuriata, quasi
psichedelica, dello stesso pezzo. In mezzo Ducoli e
i Bogartz ci mettono tutto il loro essere randagi: la vicinanza che li lega
non è solo quella geografica delle valli bresciane, ma quella ideale,
concreta, fisica, di un territorio rock, che ognuno segna a suo modo. Ducoli con un
cantautorato istintivo, bagnato nel blues e nel rock più viscerale. I Bogartz
con un impatto che oggi chiamano stoner, ma che non è affatto giovanile. È una sorta di
iniziazione in cui le due voci danno sfogo alla propria parte più profonda,
senza alcun timore: “Jennifer” è una botta da far male, molto più brutal di
quanto dica il genere, mentre “Perfect” è un pezzo recuperato da “Anche io
non posso entrare” in cui lo spirito di Bacco il Matto torna a gozzovigliare
dietro a un’armonica. In mezzo a tanto
furore, i My Uncle The Dog sanno sempre dove andare, come quei cani randagi,
che, dopo tanto cacciare notturno, trovano sempre la via del ritorno, a una
tana che solo loro sanno. Così gli urletti di “Il dio dei cani” hanno
l’intensità di “Simpathy for the devil”, mentre “Zachary Taylor” affonda le
sue radici nel voodoo blues. Così il disco ha un corpo notturno e bastardo,
che non si può definire narrativo solo per la sua irruenza. Questo è infatti
più uno scontro che un incontro, con gli anni di gavetta di Ducoli che si
oppongono all’irriverenza dei Bogartz. Non si sa se e come questa
collaborazione potrebbe continuare, proprio per l’impatto con cui si è
verificata, ma “quella del poi” è questione futile: “Tonight’s the day” di
risposta ne dà una sola. A tutti coloro che
si chiedono ancora che cosa può essere il rock oggi. My uncle the dog -
Tonight’s the day - Furio Sollazzi. www.miapavia.it
7 aprile 2004 My Uncle The Dog è
il risultato della fusione estemporanea dei Bogartz con Alessandro Ducoli,
cantatuore "a tutto tondo", rocker nello stile e beatnick nell'anima. Quando gli ho
chiesto "lumi" su questo disco (Privo di note di copertina e con i
musicisti sottolineati da pseudomini: Cletus Knob Creek Cobb, Elijan Dizzy
Craig, Aaron The Dutchman Van Doren, Ivan Ramiro Gares III) il Ducoli mi ha
risposto con queste righe: "Abbiamo deciso di costruire questo disco
quasi per caso (un suggerimento di Davide Sapienza ci ha confermato
intenzioni che già aleggiavano tra me e il cantante dei Bogartz Andre
Bellicini ). Il disco doveva essere un tributo a Tonight's the ninght di Neil
Young e poi ha trovato una fisionomia più concreta e indipendente dal
capolavoro di Young. I riferimenti a quel disco ovviamente sono tutti
confermati (oltre alla Cover di Tonight's the night). Il disco, comunque,
riamrrà un episodio estemporaneo nell'attività di ognuno di noi (c'è
l'intenzione di registrare un secondo capitolo il prossimo anno ma
limitamente a soldi, tempi e impegni vari; il secondo capitolo si dovrebbe
intitolare "I still aven't found what YOU looking for" e contenere
ovviamente la cover U2 nella versione che proponiamo dal vivo oltre alle
canzoni in lavorazione e per il moemnto sospese per questioni
logistiche)". My Uncle the Dog
nasce sul finire dell'anno 2003 dalla collaborazione tra Alessandro Ducoli e i
Bogartz. Entrambe progetti attivi da diversi anni nell'ambito della musica
rock italiana indipendente. Il lavoro, registrato in soli tre giorni all'Arky
studio di Paratico (BG), unisce l'approccio underground dei Bogartz alla
poetica e narrativa del songwriting di Ducoli. Fra le canzoni
presenti nel cd si contano tre rivisitazioni di brani appartenenti al
repertorio dei Bogartz, uno stravolgimento di "Perfetta" (uno tra i
brani più apprezzati fra quelli proposti da Ducoli negli ultimi anni) e due
nuovi pezzi originali scritti da Alessandro Ducoli ed arrangiati dai Bogarz,
oltre alla cover di Tonight's the Night uno dei brani più oscuri mai apparsi
nella discografia di Neil Young che sembra adattarsi perfettamente alle
atmosfere di " My Uncle the Dog ". Tra incontri voodoo che hanno
come scenario i boschi della Louisiana, divinità canine, guerre civili per la
conquista dell'acqua, fidanzate sudice, scenari gotici e noir ladies nasce l'
Ugly Rock . In buona sostanza,
un incredibile disco di rock ruvido, graffiante, pieno di suggestioni
"roots" e di nuove irruenze in cui anche le ballate mantengono un
carattere di provvisorietà umorale, come se l'urgenza di "rokkare"
covasse sotto la sabbia, pronta ad erompere piena di nuova energia. Atmosfere
cupe ed elettriche, prive di elettronica e rugginose negli accompagnamenti.
Dischi così ti ricordano che (per fortuna) il rock non muore mai. My uncle the dog -
Tonight’s the day (Gian Paolo Laffranchi – Brescdiaoggi) Cosa succede se i
Pearl Jam incontrano Tom Waits? Se gli Afterhours si ritrovano sullo stesso
palco con Capossela? E’ questo l’effetto, straniante e bellissimo, di
"My uncle the dog", progetto (mai termine fu più appropriato) dai
fini immediatamente, squisitamente artistici. Un matrimonio non-di-interesse
fra Alessandro Ducoli, chansonnier valligiano dalle attitudini ruvide,
spirito prezioso e originale, e i Bogartz, realtà urticante della nuova scena
"alternative" bresciana. La copertina del
disco evoca malinconici paesaggi americani, titoli di coda di un film
metafisico. Il retro rivela i protagonisti ribaltando il concetto di 16/9,
come nelle locandine delle multisale. "Tonight’s the night"
chiarisce subito e al meglio il concetto. Brano sonico all’insegna dell’Ugly
Rock, genere nuovo che gli "Uncle" definiscono così: musica
"tra incontri voodoo che hanno come scenario i boschi della Louisiana,
divinità canine, guerre civili per la conquista dell’acqua, noir ladies e
ambienti gotici". Il cantautore si
fa rocker in "Lacqua", che pare uscito dagli album meglio riusciti
dei Litfiba. Un basso malato pulsa in "Jennifer", assalto grunge
perfetto nella profonda sporcizia del suono. "Tonight’s the day
(worry?)" è un omaggio alcolico, circolare e ipnotico, ai maestri della
canzone fumosa (stile Tom Waits, appunto). Ducoli si lascia
coinvolgere e stravolgere dai Bogartz in "Hey perfect", cover
volutamente irriguardosa di un suo cavallo di battaglia. Mantra e fuoco ne
"Il dio dei cani", quasi uno standard di rock americano, inno
garage da grande stadio. Il finale è un altro omaggio, "Zachary
Taylor": un Neil Young notturno ma non per questo meno trascinante.
Chiusura degna di un disco da consumare lentamente, da ascoltare e
riascoltare. Registrato in soli
tre giorni all’Arki Studio di Paratico, "Tonight’s the day" è il
frutto di un incontro che segna un passo avanti nel territorio underground.
Un appello che non deve cadere nel vuoto. Per informazioni: www.bogartz.it e
www.labandadelducoli.it. Gian Paolo
Laffranchi gianpaolo.laffranchi@bresciaoggi.i
t My Uncle The Dog - Tonight’s the day (Cesare
Casalini; Radiovocecamuna) Generalmente le
unioni tra grandi rischiano di portare a prodotti non all'altezza. Non è
assolutamente il caso di questa esplosiva miscela nata dal connubio tra il
miglior gruppo ora in circolazione in valle (e, se permettete, uno dei
migliori e più promettenti in Italia), i Bogartz, e quell'Alessandro Ducoli
che noi di Radio Voce Camuna ben conosciamo per averlo più volte intervistato
e trasmesso. Il mini-CD (solo
sette pezzi, ma ciò è forse un bene, significa una maggior selezione e una
migliore qualità). si apre con una delle migliori cover younghiane che abbia
mai sentito, "Tonight's the night" resa in modo adrenalinico, che
quindi si distanzia dalla catartica vesrione originale, poi procede con una
canzone che io proporrei per il Premio Tenco, "Lacqua". Anche qui
rock elettrico con bellissimi riff chitarristici con la alcolica voce del
Ducoli che si inserisce alla perfezione nel contesto. "Jennifer",
in inglese, ancora adrenalina allo stato puro, poi una ballata rock,
"Tonight's the day (Worry?)". Si torna alle
schitarrate potenti in in un pezzo che a me ricorda, almeno in partenza e nel
riff "Submission" dei Sex Pistols, "Hey perfect", che non
è cantato dal Ducoli, poi un brano dalle tematiche care al nostro Ducoli
"Il dio dei cani", sempre musicalmente rock potente, poi si chiude
con un brano dall'andamento quasi country, ma mooolto eletrico, "Zachary
Taylor". Ho il sospetto
che, una volta inserito il CD nel lettore della mia scassatissima automobile,
toglierlo sarà una questione moooolto complicata... My Uncle The Dog - Tonight’s the day (Federica
Gozio; Rockit, 14/07/04)
My uncle the dog –
Live (Christian Verzeletti; Mescalina 04/06/04) PUBLIC HOUSE -
ESINE (BS). I My Uncle The Dog non sono una delle tante band locali che si
esibisce in un pub tra birre e amici: lo si intuisce dalla voglia di sentirli
che si crea prima del concerto, un'esigenza di rock'n'roll su cui Alessandro
Ducoli e i Bogartz hanno costruito questa collaborazione, ma anche le loro
rispettive avventure. Cominciano i Bogartz
e il giovane quartetto bresciano dimostra di non essere sul palco per
scaldare l'atmosfera. "Lizard" e "Jennifer" sono in
precario equilibrio tra Steve Wynn e i Morphine: dal vivo i pezzi acquistano
una forza e una tensione in cui tutto può succedere, in cui le canzoni si
possono fare o disfare con la stessa intensità, come succedeva per esempio ai
Thin White Rope. La prima sorpresa
arriva infatti subito dopo con "Suzanne" di Leonard Cohen, in una
versione aspra e coerente con lo spirito noir della band: condotto dal basso
di Andrea Bellicini, il suono è mirato, centrato, anche quando il rock si fa
ulcerante con "Kimberly" o più garage con "Dolly's
party". L'occasione è
buona per presentare qualche pezzo inedito: la predilezione per tonalità
oscure e per frequenze basse emerge sia che si attinga ad un roots di
frontiera stile Sixteen Horsepower sia che si penda dalle parti dei Dream
Syndicate, degli Husker Du o dei Doors. Sono tutti riferimenti che dimostrano
la ricchezza e la compattezza del background della band: nonostante la
giovane età i Bogartz vi attingono con personalità per creare qualcosa di
loro, senza l'ambizione di suonare "nuovi". Bellicini e
compagni infatti raccolgono consensi anche tra i meno giovani presenti al
Public House: suonano senza troppe menate, sanno cosa fanno e come lo fanno.
Logica e dovuta quindi la chiusura con "Here she comes now" dei
Velvet Underground, altro punto di riferimento per una band a cui non manca
l'orientamento in prospettiva di un cammino destinato a proseguire. Il passaggio dai
Bogartz ai My Uncle The Dog dura lo spazio di una birra e di una breve
vestizione, da una maglietta dei Kiss ad una canotta bianca con tanto di
bretelle e una camicia a quadrettoni: il cambio è minimo ma significativo, ad
indicare una ricerca di immediatezza, di impatto e di rock'n'roll che si fa
più rurale e selvatica. Bellicini appare trasformato in un personaggio di
Steinbeck, mentre la presenza del Ducoli aumenta il peso sul palco, per
questioni di fisico e d'età. Apre il set una versione
sboccata di "Tonight's the night", urlata in un megafono, ad
invocare lo spirito del rock: il suono è esagerato e i Bogartz sono
"costretti" a picchiare più di quanto già facciano di per sè. Ironia e rabbia
passano in una "I still haven't found" degli U2 spaccata a metà da
una forza devastante, la stessa che rende "Il dio dei cani"
furiosa, con la bava alla bocca. Con "Adam raised a Cain" è chiaro
che i My Uncle The Dog non stanno suonando una cover, ma un pezzo di sé
stessi, tirando fuori tutto quello che hanno fin dal profondo del loro
istinto più oscuro. La massa fisica e spirituale di Alessandro Ducoli poi
rende istrionici i pezzi, senza distinzione tra interventi alla voce o
all'armonica. Il finale è una sballata "It's the end of the world"
dei R.E.M., ma soprattutto una "All along the watchtower", tirata
su dall'armonica, dal sax e dagli sbotti della band: la batteria va ovunque,
il basso improvvisa e, quando il Ducoli scende dal palco, i Bogartz si
sentono autorizzati ad impossessarsi ancora dello spirito rock che aleggia
nell'aria con un'inedita "Sunset strip". L'unico consiglio
al termine di un concerto del genere è di stare alla larga da un gruppo come
i My Uncle The Dog. A meno che siate come loro e abbiate bisogno di
rispondere a quel "richiamo della foresta" generato dal rock: non
vi ritroverete a far parte di un branco, ma di sicuro il vostro instinto
animale ne sarà morbosamente soddisfatto. My uncle the dog – (Marco Grompi; Recensione mai
pubblicata da Buscadero, ripresa da www.rockinfreeworld.tk) Ecco un
bell'esempio degli effetti imprevedibili che si ottengono quando un onesto e
instancabile cantautore camuno, Cletus "Knob Creek" Cobb alias Alessandro
Ducoli, al cui vero nome fa capo una nutrita discografia
"indipendente" alle spalle, ovvero più o meno 7 album autoprodotti,
tra progetti solisti, Bacco il Matto e Banda del Ducoli) si chiude per
qualche ora in un garage con una giovane band di "vicini di casa",
i Bogartz (basso, chitarra, batteria e
sax), apparentemente lontanissima per background musicale e inclinazione (al
loro attivo una manciata di demotapes e l'ottimo CD Honeymoon In The Desert,
con un sound spigoloso a metà strada tra Thin White Ropes e Morphine).
Tonight's The Day è un dischetto breve (31 minuti), conciso (sette canzoni),
nero come la notte, che colpisce come una fucilata nel buio. Rock viscerale e
dannato quanto basta, senza troppi fronzoli, sudato, nervoso, credibile, godibile,
vero. Una chitarra che fa faville nel limare le spigolosità di un sound
cosparso di pece, una scelta di repertorio che mescola le composizioni (e le
voci soliste) delle due realtà coinvolte e, in apertura, una versione
mozzafiato della Tonight's The Night di Neil Young (davvero strepitosa!)
basterebbero a renderlo un piccolo capolavoro. Tra "divinità canine,
fidanzate sudice, scenari gotici e noir ladies" qui si inneggia alla
nascita di un improbabile "ugly rock", mentre di "ugly"
c'è solo uno scenario discografico "ufficiale" che si ostina ad
ignorare realtà stimolanti come queste (infatti il disco lo trovate qui: www.bogartz.it
oppure baccoilmatto@libero.it).
Un progetto che suona come un'imprecazione liberatoria. "My Uncle The
Dog!", appunto.
Ho iniziato ad ascoltare
Neil Young per caso. Per fuggire. A differenza di molti miei amici non ho
avuto fratelli maggiori a cui rubare i dischi o qualche cugino che prima di
partire per lunghi viaggi riflessivi mi ha lasciato i suoi scaffali in
consegna. Niente Led Zeppelin, niente Pink Floyd, niente Stones, niente
Hendrix, niente Macartney. Ho avuto due sorelle maggiori e una sola radio in
casa fino a quindici anni. Una condanna. Conosco, ancora oggi, quasi
esattamente la discografia di Claudio Baglioni fino a "La vita è
adesso", Sandro Giacobbe, Enzo "Pupo" Ghinazzi, Riccardo
Fogli, Giampiero Artegiani e i Collage. Un calvario, anche Fiordaliso.
All'inizio è stato ovviamente un inconsapevole subire (ero troppo giovane)
fino a quando la maggiore delle mie sorelle, che ha frequentato l'Università
Cattolica a Milano, ha assistito, ovviamente per questioni di mera
rappresentanza, al concerto del "vecchio" a Milano. Quello dei
lacrimogeni. Mi sembra l'87. Il suo resoconto è stato perentorio. Oltre a
sottolineare che certa gente dovrebbe starsene fuori dalla musica disse che
Neil Young era vomitevole. Ho cominciato a chiedermi chi fosse Neil Young.
Invece di assecondare la mia curiosità ho comprato "Like a virgin"
di Madonna. Tutto sommato un buon disco. Non ero ancora pronto. La vera
svolta è però arrivata quasi contemporaneamente, forse qualche mese prima,
non mi ricordo. La truffa è che è stata proprio per merito delle mie sorelle.
La minore delle mie sorelle si è innamorata persa del suo maestro di Judo.
Per la cronaca è stata anche campionessa italiana juniores. Questo Ivan, a
cui probabilmente devo la vita senza nemmeno sapere chi sia, ascoltava
Springsteen. Segue quindi un lungo periodo in cui a casa mia arrivano le note
del Boss. In continuazione. Cadillac ranch. Il resto è venuto da solo.
Basioli, Cere e Panteghini, compagni della scuola per geometri, hanno già
approfondito oltre il Boss, molti altri grandi. Tra questi c'è ovviamente
Neil. Riaffiora il curioso aneddoto del Palatrussardi. Richiesta di
duplicazione immediata subito accettata da Panteghini. "Harvest",
"Zuma", "After the gold rush", "American
stars'n'bars" e "Rust neever sleep". Seguono, con calma, anche
perché la radio in casa era sempre una, tutti gli altri. Tutto qui. Di tutto
questo periodo, a parte ovviamente i ritornelli di Baglioni e le tette di
Madonna, mi ricordo ben poco. Mi ricordo che ero un povero pirla che faticava
a tenere il passo dei miei coetanei emancipati che partecipavano a concerti
(il Boss a Milano, cazzo, David Bowe, Pink Floyd a Venezia, io non c'ero),
happening serali di ascolto dei dischi lasciati dal cugino che adesso vive in
India. Gli anni '80, che oggi in parte ho rivalutato, sono stati un vero
calvario …. e non abbiamo accennato all'arrivo del pop più bieco che però era
l'unica arma per limonare. Save a prayer. Pazienza. Per la mia presenza
scenica, ero più magro di adesso, e avevo una certa dimestichezza con
l'armonica, mi hanno messo a cantare nel gruppetto. Gli Springs. Con
Panteghini. De Andrè, De Gregori, U2, Springsteen e anche "Like a
hurricane". Una banda di bassissimo livello. Grande passione però. Non
credo serva altro per amare il Rock'n'Roll. Il resto è ordinaria follia da
rockettaro di provincia. Compreso il periodo Grunge e il classico ritorno
alle origini per il ripasso dell'accademia Beatlesiana, di Elvis, Stones e
contaminazioni Motown. Abbastanza normale. Molto simile alla faccenda di
tanti altri con cui la sera mi trovo a parlare dell'ultimo disco di Mark
Lanegan, della perdita di identità del Rock italiano o di come la presenza di
Yoko Ono sia stata il triste presagio della nefasta influenza che certe
signore hanno avuto sui migliori rocker della storia. Ecc. ecc. ecc. TONIGHT'S THE DAY
- My Uncle the dog Recensione di
Salvatore Esposito www.rockinfreeworld.tk Elijaj "Dizzy" Craig, Cletus
"Knob Creek" Cobb, Aaron "The Dutchman" Van Doren, Ivan
Ramiro Gares e con la partecipazione del Rev. Martin Johan "Donkie"
McManus…A vedere i credits sembra di essere di fronte ad una di quelle rock
n' roll band misconosciute provenienti da chi sa dove che fanno figo solo a
saperle citare in una conversazione. E invece…questi sono i soprannomi scelti
dai Bogartz e Alessandro Ducoli per il progetto My Uncle The Dog. Entrambi
attivi da diversi anni nella scena alternative italiana hanno deciso, sul
finire del 2003, di unire le forze e ritrovarsi negli studi Arky di Paratico
(BG) per incidere un disco insieme. Tonight's The Day, è nato così in soli
tre giorni di incisioni, creando un connubio perfetto tra l'approccio
energetico dei Bogartz e quello da songwriter, con il vizio della poesia, di
Ducoli. Il titolo scelto per questo disco, Tonight's The Day, è senza dubbio
un omaggio a Neil Young, considerando anche il fatto che il brano che apre il
disco è proprio quella Tonight's The Night che tanto piace a noi fan del
Loner canadese. Tuttavia l'ascolto rivela una band più vicina ai Bed Seeds di
Nick Cave che ai Crazy Horse, sarà per i testi crudi, sarà per l'uso
grattugiato delle chitarre ma l'alchimia tra Bogarz e Ducoli ci mostra le
potenzialità enormi di questo progetto. "Tonight's the day" è così
un disco prezioso da cui solchi sgorga un magma sonoro che infuoca la notte
come un alba alcolica, in cui emergono i ricordi oscuri di qualche ora prima.
Scenari gotici, incontri voodoo, divinità canine, donne misteriose emergono
tra chitarre impazzite, come schegge incontrollate vanno a conficcarsi nei
pensieri in uno scenario post-psichedelico. Il repertorio scelto per
l'occasione in parte è proviene dal disco di esordio dei Bogartz,
"Honeymoons in the desert" e in parte dal repertorio di Alessandro
Ducoli. Tonight's The Night di Neil Young, apre le danze con il suo andamento
oscuro a cui i My Uncle The Dog aggiungono molto del loro trasformandola in
un brano post-rock con chitarre potenti che fendono la melodia e le voci
incontrollate che sembrano venir fuori dalle porte dell'inferno. E' una
scelta quasi obbligata, una scelta programmatica perchè il secondo brano
Lacqua, proveniente dal repertorio di Alessandro Ducoli, ed è una oscura rock
ballad tutta giocata sull'alternarsi di nevrotica quiete e slanci elettrici
incontrollati che sfociano nello splendido ritornello. Dal repertorio dei Bogartz
arriva poi la brutale Jennifer, in cui l'animale costretto de Lacqua cerca di
liberarsi dalle catene della repressione, ottimo in questo caso il cantato
quasi trattenuto che vivifica il testo. Dopo tre brani potentissimi arriva la
splendida ballata notturna Tonight's the day (worry?), sempre dal repertorio
dei Bogartz, in cui le chitarre acustiche introducono un crescendo
accompagnato dal sax e dalla voce che con l'ingresso della batteria sfocia si
trasforma in un canto ipnotico guidato dalla chitarra elettrica. Il brano
migliore del disco è però ad appannaggio di Alessandro Ducoli, ovvero Hey
perfect, che rispetto all'originale presente su Anch'io Non Posso Entrare è
stravolta in un brano dai toni southern rock e cantata in parte in inglese e
infarcita di un armonica ficcante che si sposa a perfezione con i riff delle
chitarre. Sul finale arrivano poi la tormentata Dio dei Cani e Zachary Taylor
che confermano sostanzialmente tutta la bontà di questo disco che si chiude
con la speranza di vedere ancora insieme Ducoli e i Bogartz, chissà sulla
lunga distanza cosa sarebbero capaci di fare. SPANISH JOHNNY Jokerjohnny II -
Late for the sky (settembre 2007; Paolo “Crazy” Carnevale) Non temete per la fine del rock’n’roll, non è oggi”. Questa
frase che apre il sito web di questa band bresciana la dice lunga sugli
intenti (e sui risultati) che questi ragazzi lombardi si sono prefissati. Lo
scorso anno era giunto a ciel sereno il debutto degli Spanish Johnny, un
disco essenziale e bellissimo carico di suoni e poesia come pochi. Era un
disco breve con una manciata di grandi idee originali ed una cover targata
Dylan di grande impatto. A fine gennaio il gruppo capitanato da Cletus “Jokerdog” Cobb
(uno dei tanti pseudonimi del poliedrico Alessandro Ducoli) è tornato con un
nuovo disco che sembra voler proseguire in tutto e per tutto i buoni
propositi del suo predecessore. Va innanzitutto considerato che, pur essendo
il materiale incluso nel disco firmato per la stragrande maggioranza dal
suddetto Ducoli, si tratta di un lavoro di gruppo in cui tutti i componenti
mettono qualcosa di loro, dai fratelli Dakota al batterista James Gelfi, già
alfiere del progressive lombardo in anni lontani. Anche in questo secondo disco Ducoli & Co giocano la carta
della cover d’autore, una versione tagliente di Born In The USA, se mi è
concesso azzardare il giudizio di gran lunga superiore a qualunque altra,
comprese quelle dell’autore: non mi dispiacerebbe se un giorno questa
versione giungesse fino alle orecchie del Boss e che questi ne fosse onorato
a tal punto da riconoscere pubblicamente il genio di questi ragazzi,
contribuendo a farli conoscere più di quanto in realtà siano. JokerjohnnyII, sta perfettamente in equilibrio tra la poetica
del Ducoli (responsabile pochi mesi fa anche di un disco dalle atmosfere
jazzate realizzato con calibri del tipo Ellade Bandini e Ares Tavolazzi) e i
suoni intensi dei suoi compagni d’armi. Chitarre taglienti, organo
insinuante, acustiche cristalline: questo è il segreto degli Spanish Johnny: ascoltate
il voodoo di Morrison’s Ladies o il blues di Wrong Idea, costruita su un giro
di Hammond spettacolare. E che dire poi di La mia rivoluzione? Il disco sta
anche in equilibrio tra testi in inglese e testi in italiano, come a dire: ci
piace la musica americana ma non dimentichiamo le radici da cui proveniamo.
Non è forse un caso se le ultime parole della canzone finale sono
“rock’n’roll can never die”, come a dire un ulteriore tributo ai modelli di
partenza. A tutto ciò aggiungete che potrebbe esserci in vista un libro
intitolato “Dogtales” collegato a doppio filo con l’universo degli Spanish
Johnny. Si può chiedere di più a questi indefessi devoti lavoranti del rock? Jokerjohnny II – Mario Panzeri (www.rockit.it; 11
luglio 2007) Arrivano dalla lombarda Valle Camonica in groppa ai loro
cavalli. Wild Turkey nelle vene, lo sguardo accecato dal sole morente
che incendia l'orizzonte. Ripartiranno alla volta di quella città fantasma,
quel saloon esisterà ancora? Dai suoni oscuri ma generatrici di "Paris,
Texas" alla tranquilla epica-pastorale degli ultimi Lambchop, con sempre indosso quelle
camicie a quadrettoni (che prima erano di Neil e poi di Bruce), quelle barbe
e quei consumati cappellini da baseball. Jokerjohnny II – Richi Barone (La voce del popolo;
giugno 2007) Ci avevano provato lo scorso anno, con il primo album “Joker
Johnny.I”. E se già allora gli Spanish si erano fatti notare per la loro
indole lenta e stralunata, rockeggiante e polverosa, oggi si ripresentano con
un vestito ancora più stiracchiato ma decisamente accattivante. La strada degli Spanish è quella del rock, un rock umido e
sudaticcio, al quale si attacca la polvere che gli zoccoli dei cavalli
sollevano, quando si avventurano per strade sterrate. Un viaggio serio e allo
stesso tempo ironico, guidati dalla voce spesso filtrata di Cletus “Jokerdog”
Cobb, alias il vagabondo Alessandro Ducoli, camuno di montagna, che odora di
anarchia e selvaggina. Un poeta, dice qualcuno, e su questo siamo d’accordo.
Un cavallo pazzo, che va a briglie sciolte e si cavalca a bisdosso. Gi
Spanish sono tutti con lui, e affondano i colpi attraverso un rock ‘n’ roll
sporco ma simpatico, che apre le danze con una irriconoscibile versione di
Born in the U.S.A. di springsteeniana memoria (ottimo l’hammond di Paolo
Mazzardi). Simpatico perché afferma il valore immortale del r ‘n’ r,
riuscendo però a sdrammatizzarne,
grazie soprattutto ai già citati filtri, forse non solo vocali, il peso
specifico molte volte volutamente enfatizzato. I Johnnies alternano l’inglese
all’italiano, il megafono alla viva voce, il rock molle e ciondolante di Just
Keeping alla poesia montana di Natale 1890 (chi possiede “Note di Natale, gli
artisti bresciani cantano il Natale” già la conosce), buttando così nel
disco, grazie a questa alternanza intelligente e affascinante, le loro
molteplici anime. E infatti non c’è solo America in “Joker Johnny .II”, anche
se il volto dell’album è prevalentemente a stelle e strisce, nella traccia
numero 7, Rino, è evidente la dedica a Rino Gaetano e al suo amore “sempre
blu”. Probabilmente autobiografica è la ducoliana Wrong idea (grande il piano
di Beppuccio Donadio), con tanto di conclusione riservata a “la mia
insopportabile follia, la mia inarrivabile follia, la mia inaccettabile
follia…”, una follia evidentemente molto più sana di tanta presunta normalità
contemporanea. Un album dal color seppiato, da intuire e non da comprendere,
che profuma di certe taverne, stamberghe che ancora si scoprono in qualche
sperduto anfratto tra le montagne della Camunia. E quando la coperta grezza
del rock si solleva, dal disco escono profumi di poesia, di lirismo cosmico
che ci aiuta a risvegliarci dal torpore dei troppi ipermercati che circondano
i nostri centri sempre meno abitati e sempre più commerciali. “Joker Johnny
.II” si svela pienamente, magnificamente, nel finale, con tre canzoni da applausi: La tua
rivoluzione, piano, armonica e voce del Ducoli (“alzare la testa e gridare
con tutta la voce la tua rivoluzione”), e le due conclusive, Assenza di tempo
e r’n’r funeral, cantate dal Ducoli e dall’angelica vox di Veronica Sbergia. Un disco da macinare a lungo, per combattere l’assenza di
tempo, per fare respirare il tempo, per alzare lo sguardo, per camminare
instancabili verso la terra promessa
dal rock ‘n’ roll. Jokerjohnny II – www.rootshighway.it (2 maggio 2007;
Luca Vitali) Gli Spanish Johnny (nome "trovato" in una canzone di
Springsteen e titolo di una poesia di Willa Sibert Cather dei primi del '900)
invece di stare inutilmente a discutere se il rock ha senso solo se cantato
in inglese oppure no, a distanza di pochi mesi dal primo capitolo ci offrono
Jokerjohnny.II, anche questo "rigorosamente" metà in italiano e
metà in english. "Non penso che si possa rinunciare a sostenere cose
nelle quali ognuno di noi crede", canta ad un certo punto (in Io
personalmente) Alessandro Ducoli (alias Cletus "Jokerdog" Cobb),
come non essere d'accordo? Il disco inizia con Born in the U.S.A. di Bruce Springsteen:
gli Spanish Johnny (Paolo Panteghini - Santiago "Ugly Boots" Lobo e
Tommaso Vezzoli - Blue Dakota alle chitarre, James Gelfi - James
"Suspicius Mind" O'Presley alla batteria, Tommy Fusco - Geremiah
"God Save The Queens" Smith al basso ed Enrico Vezzoli - Henry
Dakota a fisarmonica e tastiere) ne fanno una cover irriverente, dura,
sporca, quasi punk. La mia cellula di guardia ci riporta alle atmosfere polverose
del primo disco: la strada da affrontare, sempre irta di pericoli, di
"santi dell'asfalto" che ci lasciano in balìa di traditori e
demoni; Ducoli canta con voce filtrata, mentre la splendida voce di Veronica
Sbergia (o meglio Bonnie "Bon bon" Baker) ci ricorda la
pinkfloydiana The Great Gig In The Sky. Just keeping è esattamente a metà
strada tra Tom Waits e Chuck E. Weiss; Morrison's ladies è un rock'n'roll
notturno che mischia serpenti, autostrade, stanze di motel con donne
compiacenti; Wrong idea si mantiene su atmosfere alla Chuck E. Weiss; Rino è
una dedica speciale a Rino Gaetano in chiave dapprima folk-acustica che si fa
via via più rockeggiante. La guerra fa capolino nella ballata Natale 1890. La
tua rivoluzione è introdotta dall'armonica: un'altra canzone sul fatto che
non si può mai abbassare la guardia, perché "…i ladri li trovi nascosti
ma escono sempre per dare risposte più giuste…". L'amara Assenza di
tempo e la pianistica R'n'r funeral (ancora Veronica Sbergia in evidenza)
chiudono il disco. Fanno parte della partita anche Beppe Donadio - Buddy Allen al
piano, Paolo Mazzardi - Erman Lebowsky all'hammond, Alessandra Cecala -
Alejandra Cicalito al contrabbasso, Zeno De Rossi - Zevulon Bercovitz alla
batteria e Mauro Ottolini - Ibrahim Hotolinko, tuba. Se siete in grado di
tradurre la frasi poste in fondo alla confezione ("only r'n'r' can save
our life") o in chiusura di disco ("r'n'r' can never die")
sappiate che, prendendo atto della vericidità di quelle affermazioni, vi
saranno sempre sufficienti canzoni con due chitarre, un basso e una batteria
(con la saltuaria aggiunta di una fisarmonica e di un'armonica a bocca,
giusto per ricordarci delle nostre origini) per sentirvi vivi e con la voglia
di comunicare emozioni a chi vi sta vicino. Altro che isolarsi con un ipod
qualsiasi. Hoka Hey!. Jokerjohnny II - Bresciaoggi (19 aprile 2007;
Gianpaolo Laffranchi) Un anno dopo, l’omaggio continua. Il tributo che nasce dal
cuore. Il patto di sangue fra rock n’ roll e blues, suono aspro e ruvido, duro
e sincero. Niente è più moderno della tradizione per gli Spanish Johnny, che
onorano padri e padrini statunitensi con il secondo capitolo di JokerJohnny,
progetto inaugurato un anno fa con sette tracce mozzafiato sposate e
benedette dai Gang, gli indiscussi Clash italiani. Chitarre e armonica a
bocca sono la colonna sonora ideale di un percorso iniziato nel 2000,
ispirato dal patrimonio di suoni «rockyroad», dalla lezione immortale degli
anni ’70 e degli ’80. In particolare, stavolta, i Johnnies lucidano l’altra faccia
della medaglia di un «American Dream» che ha il suo inno nella traccia
apripista. E’ «Born in the Usa». E’ Bruce Springsteen suonato da Neil Young
con tanto di Crazy Horse al seguito. Impatto squassante. La prima di undici
tappe che non deludono le attese. «La mia cellula di guardia» è un momento di
incantevole quiete che «Keeping on this road» innervosisce soltanto un po’.
Si va su un terreno blueseggiante più che mai, sole e asfalto, Chicago e
Johnny Cash. «Morrison’s Ladies» non concede tregua, «Io personalmente»
abbassa il ritmo, eppure riesce ad essere, al pari di «Wrong Idea» e «Rino»,
una trasfusione di energia e soul nella canzone d’autore italiana. «Natale
1890» e «La tua rivoluzione» sono ballate sporche che probabilmente sarebbero
piaciute a De André. Il finale è dolente. La gaberiana «Assenza di tempo»
lascia il posto a «R’n’R Funeral». Un’emozione lenta e sottile che scorre
nelle vene. I Johnnies sono una squadra affiatata dalla rosa ampia. La
formula «roots» è farina del sacco dei chitarristi fondatori, Paolo
Panteghini e Tommaso Vezzoli, che possono contare sull’esperienza di un’icona
del progressive italiano quale James Gelfi, sulle tastiere e sulla
fisarmonica di Enrico Vezzosi, sul basso di Tommaso Fusco. La voce, cruda e
tagliente, è di Alessandro Ducoli (già Bacco il Matto). Collaborano come
ospiti del disco Beppe Donadio (pianoforte), Paolo Mazzardi (hammond),
Veronica Sbergia (vocalist), Alessandra Cecala (contrabbasso), Mauro Ottolini
(basso tuba), Zeno De Rossi (batteria). Jokerjohnny II - Gianni Dalla Cioppa (Mucchio
Selvaggio; marzo 2007) Con leggero ritardo, qualche mese fa ci eravamo occupati
dell’ottimo esordio di questi bresciani Spanish Johnny, ed ecco, non senza un
briciolo di sorpresa, che li ritroviamo alle prese con questa seconda prova.
Va detto: non una band di primo pelo, vista l’esperienza dei protagonisti,
che affondano radici disparate, dal rock progressivo dei settanta al rock
stradaiolo, ma il tutto è rivisitato con intelligenza e la giusta attitudine.
Il punto di riferimento rimane comunque quel Bruce Springsteen, che ha
ispirato il nome della band e di cui rileggono con fare ruvido e polveroso il
classico “Born In The U.S.A.”, qui proposto come se uscisse dal megafono di
una prigione. Ed è proprio questo suonare disilluso e senza meta che è il
comune denominatore dell’album: se nel debutto la via da seguire era una
lingua di asfalto, piena di seduzioni, qui si esce dalla strada madre e si
entra in sentieri di polvere, privi di indicazioni se non il sole e qualche
raro viandante. L’America degli sconfitti, tema sfruttato verrebbe da dire,
che qui rappresenta una metafora di tutte le disuguaglianze del mondo. Non
sempre convince il cantato in inglese mentre i pezzi in italiano, alcune
volte, paiono davvero di alto livello. La dimostrazione sta in “Io
personalmente”, l’inno “La tua rivoluzione” e la stupenda “Assenza di tempo”
impreziosita da una voce femminile. In chiusura, vagamente alla Tom Waits,
una splendida e tenue “R’n’R Funeral”. Un presagio? Jokerjohnny II - Cesare Casalini (Radio Voce Camusa;
febbraio 2007) Per tutti coloro che ritengono il rock’n’roll non solo uno dei
tanti generi musicali, ma un’urgenza, una assoluta e disperata necessità di
comunicare pensieri, esperienze, emozioni. Se qualcuno è rimasto spiazzato
dal modo in cui Bruce Springsteen tratta, negli ultimi anni, la sua “Born in
the U.S.A” rendendola in versione totalmente acustica, rimarrà probabilmente
ancora più basito dalla versione totalmente elettrica che ne fanno gli Spanish
Johnny in apertura del loro secondo episodio. E’ una versione al vetriolo,
tutta chitarre elettriche e armoniche urlanti, messa all’inizio tanto per
chiarire subito le cose. Loro si “nascondono” ancora dietro a nomi fittizi, comunque
sono Paolo “Santiago Lobo” Panteghini e Tommaso “Blu Dakota” Vezzoli alle
chitarre elettriche, Enrico “Henry Dakota” alle tastiere e all’accordion,
Tommy “Geremiah Smith” Fusco al basso elettrico, Alessandro “Cletus Cobb”
Ducoli che canta, suona armonica e chitarra acustica e scrive quasi tutte le
canzoni, e James “O’Presley” Gelfi che suona la batteria. Il disco si avvale
poi di vari ospiti, tra cui Beppe Donadio al piano, Paolo Mazzardi
(Impossiblues) all’hammond, Veronica Sbergia ( Il disco, dopo la partenza al fulmicotone, si fa poi leggermente più introspettivo con
“La mia cellula di guardia”, dove Cletus Cobb, con voce filtrata, reclama
l’urgenza di cercarsi un posto sicuro “in questa galassia di facili e mitici
eroi”. “Just keeping” è una ballata con qualcosa di waitsiano, “Morrison’s
ladies” è invece un rock’n’roll che parla di serpenti, di autostrade, di
macchine sfasciate sulla Vine, e di “donne della mezzanotte le cui stanze
sono sempre aperte”. Si torna sull’introspezione con “Io personalmente”, con
una specie di confessione personale in cui Cobb sostiene (e qui riporto
fedelmente) di “non pensare che si possa rinunciare a sostenere cose nelle quali
ognuno di noi crede”. Poi ci sono i due
pezzo a mio dire, più belli del disco, cioè “Wrong idea”, che, non me
ne voglia Cobb, mi sembra un incrocio tra certo Dylan di “Modern times” (e
non solo per il timbro vocale) e qualche vecchio sporco blues polveroso, e
“Rino”, che è una vera, appassionata
dedica a Rino Gaetano, un pezzo che
inizia acustico e tranquillo per poi esplodere in un rock chitarristico dagli
accenti “Green On Red”. Anche “Natale Jokerjohnny I -
Late for the sky (settembre 2006; Paolo “Crazy” Carnevale) Dietro il nome “SJ”, che indurrebbe a pensare ad una
formazione d’oltreoceano, si nasconde in realtà un gruppo italiano che nutre
una forte passione per la musica americana, tanto che i suoi componenti si
celano dietro pseudonimi come Cletus Cobb, Henry Dakota, Santiago Lobo, Blu
Dakota, Geremiah Smith e James O’Presley. Si tratta invece di un combo
alpino, riunitosi nel 2000 intorno al batterista James Gelfi, autentica icona
del progressive bresciano. Ma non di progressive si tratta la musica degli
SJ, soprattutto alla luce del fatto che il cantante è in realtà Alessandro
Ducoli, eclettico e poliedrico uomo dei boschi della Valcamonica, uno dei più
grandi, se non il più grande, talento inespresso della musica italiana, sia
nel caso si tratti di canzoni d’autore (una manciata di dischi incisa con
quella che è nota come “Jokerjohnny I” è negli intenti una specie di omaggio ad un
suono americano che sta nel cuore di molti, ma è anche un omaggio alla
cultura americana in senso lato: fin dal nome della band infatti è evidente
la citazione dello Springsteen primordiale, ma dalla copertina molto vintage
del disco apprendiamo che Spanish Johnny era già un personaggio prima che il
Boss ne facesse il protagonista di “Incident on 57ht street”, nella
fattispecie è il titolo di una poesia di Willa Sibert Cather datata 1915! Ma
se le radici della musica del gruppo sono così profondamente americane, gli
Spanish Johnny sono un gruppo italianissimo, naturale quindi che le canzoni
di questo disco siano cantate in italiano, con l’eccezione dell’unica cover
qui inclusa. Il sound robusto, ben sostenuto dalle chitarre arroventate e
da un organo hammond davvero imponente. È un disco robusto anche quando i
brani sono sorretti dalla chitarra col tremolo o dall’armonica di Cletus
Ducoli. Il cd si apre con un brano che riprende il nome della band e prosegue
con la violenta “Zabulon” che naviga quasi in territori Paisley Underground.
“Tombstone” è una sofferta ballata ed è anche una delle perle del disco.
L’unica cover del disco è una personalissima rivisitazione di “Jokerman” di
Bob Dylan, molto bella ed eseguita con un andamento del tutto
differentedall’originale, quasi da osteria, ma molto curata nell’esecuzione.
“Demas” è un altro pezzo alla Green on Red, con l’organo che apre alla
grande. Prima della conclusione c’è anche spazio per una poesia recitata dal
padrino dell’operazione, nientemeno che Marino Severini dei Gang. Il gran
finale è nelle mani di “Leaving Las Vegas”, quasi un brano di Neil Young
nelle resa sonora, il Neil più oscuro che da sempre è una delle ossessioni
del Ducoli. Un disco breve, purtroppo, ma molto bello. Il titolo
“Jokerjohnny I” fa ben sperare in un seguito, perché sarebbe un peccato se
rimanesse un caso isolato. A ciò si aggiunga che il motto del gruppo è “don’t
worry about the death of r’n’r … it’s not today” Jokerjohnny I – (Michele Murino; www.maggiesfarm.it) Jokerjohnny.I" è il primo CD degli Spanish Johnny ed è un
lavoro breve (cinque brani originali) ma decisamente interessante, con una
sorta di viaggio western che prende le mosse dalla sequenza cantata da Bruce
Springsteen nella sua "Incident on 57th street"...
Jokerjohnny I -
Christian Verzelletti (www.mescalina.it) Gli Spanish Johnny sono un branco di disperati, di “hopeless romantics”,
come li chiamava Steve Earle. Si tratta di musicisti che hanno venduto
l’anima al rock’n’roll e che, per tener fede a questo patto, si nascondono
dietro a nomi di battaglia che richiamano in vita eroi di un’America perduta:
Blu Dakota, Henry Dakota, James O’Presley, Geremiah Smith, Santiago Lobo e
Cletus Cobb.
Jokerjohnny I - Gianni Dalla Cioppa
(Mucchio Selvaggio; aprile 2006) Gli elementi per incuriosire ci sono tutti in questo cd di
esordio degli Spanish Johnny – che rubano, per loro sessa ammissione, il nome
da un personaggio delle liriche del primo Bruce Springsteen – ma c’è il
rischio concreto che pochi ne vengano a conoscenza. speriamo quindi di
rendere buon servizio, con questa recensione.
La band si forma nel 2000 intorno a un nucleo di ottimi
musicisti su iniziativa di James Gelfi – batterista dai trascorsi storici,
attivo sin dagli anni ’70, nei circuiti del rock progressivo. Cinque brani
inediti che suonano sporchi e ruvidi, con tratteggi di chitarre aspre, con
suoni valvolari che accendono duelli con armoniche a bocca e cantati che si
impastano tra note e melodie, alcune
volte inquietanti, dove appare un hammond dorato di hard rock (ascoltare
“Zabulon” e “DEmas” per capire). Ma non mancano neppure spunti da impavido
cantautore, come dimostrano “Tombstone” e “Leaving Las Vegas”. Appare poi un
omaggio a Bob Dylan con il rifacimento di “Jokerman”, e verso la fine della
mezz’ora scarsa che addobba questo rock rurale e moderno ascoltiamo una sorta
di poesia musicata dai The Gang, l’inedito “Figlio”, recitato con la consueta
passione vocale di Marino Severini. Storie di indiani e di guerre a noi vicini, forse per dire che
il dolore resta identico. Nonostante la brevità, l’impressione è che gli
Spanish Johnny abbiano tante frecce al loro arco. Jokerjohnny I - Luciano Marcolin (DIRADIO, www.diradio.it;
marzo 2006). È un r’n’r contagioso quello che sprigiona dalla musica che
ascoltiamo in questo mini-album. Fuorimoda, beneficamente, quando rievocano il
Paisley degli ottanta, con il suo romanticismo grezzo ed innamorato del Neil
Young più elettrico e strapazza cuori;
quando ci portano sui sentieri polverosi e crepuscolari del Peckimpah
western. Un po’ meno quando si fanno prendere un po’ la mano dal roots di
maniera. Ma non si può avere tutto. Quel pugno di canzoni di questo mini d’esordio dei bresciani
Spanish Johnny, con la sua nostalgia malinconica, vale mille tomi prolissi di
pseudo eroi indies. Si aggiungono i Gang con un brano (Figlio). Il resto è
farina del gruppo, eccetto la cover dylaniana di Jokerman. Jokerjohnny I - Bresciaoggi (marzo 2006; Gianpaolo
Laffranchi) Il progetto è tanto ambizioso quanto affascinante: un tributo
ai padri del rock americano, “springsteeniano” fin dal nome, profumato di
suggestioni tipicamente anni ’70. Spanish Johnny, band made in Brescia
dall’apertura mentale e musicale ammirevole, ha confezionato quest’anno il
primo album: “JokerJohnny I”, primo capitolo della discografia composto di 7
tracce, è il naturale approdo di un percorso avviato agli inizi del 2000. Il gruppo, capitanato dal batterista James Gelfi (alfiere del
progressive-rock di esperienza trentennale), può far leva sulla sensibilità
dei chitarristi Paolo Panteghini e Tommaso Vezzoli, del tastierista e
fisarmonicista Enrico Vezzoli, del bassista Tommaso Fusco, del cantante
Alessandro Ducoli (già voce e autore de Bacco Il Matto). Di notevole impatto
l’apporto esterno dei Gang, per qualità, impegno e coerenza i Clash italiani.
Hanno collaborato al disco anche il pianista Beppe Donadio, l’hammondista
Paolo Mazzardi, la cantante Veronica Sbergia e il mandolinista Andrea
Bellicini. La title-track, “Spanish Johnny”, è un incipit fragoroso e orecchiabile.
La lezione di Bruce Springsteen, Tom Petty e soci affini affiora nitida.
Un’ispirazione inequivocabile e sentita che anima anche “Zabulon”, forte e
ruvida, e “Tombstone”, folk d’impronta “knopfleriana”. Colori pieni di una
bandiera sola. Non è un caso la scelta della cover: “Jokerman”, poesia in
musica di Bob Dylan, è il manifesto ideale di un gruppo di appassionati
specializzati, passatisti all’avanguardia felice di ripescare perle da un
repertorio senza tempo. Una rilettura scarna, minimale, emozionante, prova
felice di umiltà e senso della misura, alla maniera di un Beck a inizio
carriera. I Johnnies non esitano a osare un rock aggressivo, acuto e
acuminato come piace a Neil Young o ai Pearl Jam, e sposano volentieri la
causa dei più famosi “loser” della musica italiana, i fratelli Severini. Le
insegne dei Gang marchiano indelebilmente il disco con il sesto brano del
lotto, “Figlio”, reading che tradisce una coscienza civile che ancora
palpita, nonostante tutto. “Figlio dal volto appassito/è così che impari
quello che il tuo paese ora dimentica”, canta Marino Severini. “Dove comincia
la discesa” scatta “Leaving Las Vegas”, ultimo omaggio a una tradizione
sempre viva e sanguigna. Sarebbe un peccato, a questo punto, che
“JokerJohnny I” restasse un episodio fine a se stesso. Si attendono novità
per il “live”. Jokerjohnny I - Cesare Casalini (Radio Voce Camuna;
marzo 2006). Mettiamo che sei musici più o meno famosi della zona decidano
di incontrarsi e di unire le loro forze perché ritengono (a ragione, secondo
me) che il rock’n’roll che c’è in giro sia sempre troppo poco rispetto alle
esigenze di noi ascoltatori che vogliamo qualcosa di più delle “solite cose”.
Ecco che allora si possono materializzare CD come questo, e spettacoli
infuocati come sono i concerti degli Spanish Johnny, che è una sorta di
supergruppo delle nostre lande. Visto che prendono il nome da un personaggio
partorito dalla mente di Bruce Springsteen (lo “Spanish Johnny” di “Incident
on 57th Street”), si può capire come l’orientamento musicale sia verso quel
rock americano pieno di chitarre e armoniche a bocca che tanto andava nei ’70
e nella prima metà degli ’80. Per non farsi troppo riconoscere hanno deciso di “nascondersi”
dietro nomi fittizi, ma noi li smascheriamo subito. Alla voce, alla chitarra
acustica e all’armonica a bocca c’è Alessandro “Cletus Cobb”Ducoli che
innaffia le canzoni di whisky con quella sua caratteristica voce ruvida che
ben conosciamo. Il tastierista e fisarmonicista è Enrico “Henry Dakota”
Vezzoli, alle chitarre elettriche ci sono Paolo “Santiago “Ugly Boots” Lobo”
Panteghini e Tommaso “Blu Dakota” Vezzoli, al basso elettrico c’è Tommaso
“Geremiah “God Save The Queen” Smith” Fusco e il batterista è anche il
capitano del gruppo, cioè James “Suspicious Mind O’Presley” Gelfi. Ci sono in
questo disco alcune importanti collaborazioni come Veronica “Bonnie Baker”
Sbergia (ricordate Garage Toys?), Andrea “Aaron Van Cleef” Bellicini
(ricordate Bogartz?) al mandolino e ai cori, Paolo “Erman Lebowski” Mazzardi all’organo
Hammond (ricordate Impossiblues?), oltre al pianista Beppe “Buddy Allen”
Donadio. E’ un rock’n’roll contagioso quello che sprigiona dalla musica
che ascoltiamo in questo mini-album (poco meno di mezz’ora, ma che importa?
Meglio questi piccoli brevi gioielli che tanti tediosi e lunghi CD anonimi e
inutili). Quelle che Spanish Johnny raccontano sono storie ambientate su
strade polverose , posti di avvoltoi, come la prima canzone che si chiama
proprio “Spanish Johnny”, riflessioni sulla condizione umana di persone che
dalla storia non imparano nulla (esempi ne abbiamo davanti tutti i giorni),
una splendida e nervosa ballata elettrica (“Zabulon”), poi c’è “Tombstone”
una grande ballata che ricorda qualcosa dei momenti più lenti di “The river”
di Springsteen. Con l’unica cover dell’album gli Spanish Johnny portano
“Jokerman” e il vecchio Bob Dylan a farsi un giro dalle parti del New Jersey.
“Demas” è un atto d’accusa a chi pretende di insegnarci il Verbo a modo suo
cercando di farlo passare come verità sacrosanta. C’è poi un clamoroso regalo
che i Gang fanno agli Spanish Johnny, cioè un pezzo scritto e recitato dai
fratelli Sandro e Marino Severini in persona che occorre trascrivere per
capire quanto è bello. Immagino l’emozione di Sandro Ducoli e
compagni nel vedersi fare questo regalo dai Severini. L’ultimo pezzo è, a mio
giudizio, il più bello di un mini-album di qualità musico-letteraria
veramente alta. Il pezzo si chiama “Leaving Las Vegas”, con splendide
chitarre acustiche ad aprire il pezzo e una grande atmosfera da sogno
rock’n’roll che nell’ascoltare ci si augura che non debba finire mai. Ma non
preoccupiamoci per la morte del rock’n’roll, non è oggi. BROTHER
K Brother
K: Degeneration beat (Cesare Casalini;
RadioVOcecamuna; 01/09/2006) Quattro bresciani
e un russo per una operazione chirurgica sulla musica. Per un disco che
viene definito come un tributo italiano a Jack Kerouac. Premetto che della
beat generation conosco ben poco, purtroppo, anche se quel pochissimo che conosco
mi affascina assai, ma questo disco è su una buonissima strada per diventare
il mio album preferito del 2006. Le cinque teste
pensanti cui ho accennato sono quanto di più godurioso si possa trovare nell’
ambito di certa musica italiana fuori dai soliti schemi, e sono Boris
Savoldelli alla voce, un personaggio influenzato da gente come Mark Murphy,
Demetrio Stratos, Bobby McFerrin, Sting, Paul Rodgers, Ian Gillan, e Paul
Carrack, che ha studiato per anni canto lirico e che ora si occupa anche delle
sperimentazioni vocali di Demetrio Stratos approfondendo tutte le sue
tecniche vocali come diplofonia, triplofonia, ecc., poi abbiamo Alessandro
Ducoli impegnato nella scrittura dei testi e in diversi “camei” vocali
recitati. Il tastierista è
Andrej Kutov, nato in Russia oltre il Circolo Polare Artico, diplomato alla
scuola di Rostov e che ha suonato, fra gli altri, con Pat Metheny. Alle
chitarre c’è Andrea Bellicini (ultimamente noto anche come Van Cleef
Continental), e il “compositore sperimentale” è Federico Troncatti (e qui per
la sua biografia è meglio visitare il sito http://brotherk.cusipusi.com, è
troppo lunga. Tra l’altro potrete anche ascoltare e scaricare l’intero
album), e con la partecipazione straordinaria di Matt Murphy, che recita un
brano tratto da “Subterrans” di Kerouac, e quella di Fernanda Pivano che
recita un testo di Ducoli. Un’operazione
chirurgica, si diceva, dove ognuno mette qualcosa di suo, una parte di se
stesso, e che si fonde in un fantastico incrocio tra jazz, blues, soul e rock.
La voce di Boris è sempre quanto mai espressiva, con un timbro allo stesso
tempo avvolgente e “destabilizzante”, non so se mi spiego, forse ascoltando
capirete. A mio parere tutto
il disco è su grandissimi livelli, ma ci sono almeno cinque pezzi che vanno
ben oltre la media, soprattutto il brano con cui hanno partecipato alle
finali del Premio Musicultura 2006 di Recanati, “Disarmonia”, definito dagli
stessi critici della manifestazione come “una prova fortemente innovativa”
per “l’influenza esibita del jazz” e per la “tecnica poetica”. Sono
totalmente d’accordo, per me è una canzone splendida, rara da poter ascoltare
in Italia, personalmente forse mi ricorda un pochino Donald Fagen. Anche “Sotterranea
Infine, ancora
jazz con le tastiere di Andrei Kutov in una incantevole canzone finale che
s’intitola “Gennaio "Osservo la
mia tasca, C'è una macchina che mischia la bevanda e la benzina. Gli da fuoco
quando supera la linea. Ricomincia a stantuffare, lo stantuffo cerebrale. Una
chiave colorata per la porta della porta. La mia chiave difettosa per la
porta del cervello. Un biglietto della terra dove cresce granturco, E un
biglietto per il rancio, per sapere dove andare. Per riuscire a ritornare,
qui bisogna camminare. C'è una stoffa ricoperta di schifezza e di penuria Che
si stacca dal mio naso. Che cammina e si dirige verso il centro della sala,
senza ruote Si dirige nel sistema che mi occorre ragionare. Per sapere se si
muove la pressione. Se decide della mia colorazione, quando sale, sale male.
C'è una piccola manciata di monete, le più basse conosciute. Quelle subito
contate e disprezzate dalle masse. C'è una penna per segnare cosa faccio se
mi muovo. Le mie mosse controllate i movimenti abituati. Dai vangeli
costruiti per tenere più aggiornata la memoria. C'è una piuma per volare,
camminare. Con le penne consumate che ho bisogno di asciugare." E’ già uno dei
miei dischi favoriti del 2006. Potrebbe diventare anche il vostro. Brother
K - Degeneration Beat (Furio Sollazzi; MiaPavia 15/12/2004) Attenzione! Sto
per fare una dichiarazione con cui 'mi gioco la faccia: questo disco, se mai
verrà pubblicato ufficialmente, rappresenta una tappa importante nella storia
della musica rock (e non soltanto) italiana. Degeneration Beat è il giusto
punto di fusione dei vari generi musicali, e non solo: è la giusta sintesi
tra letteratura, musica, filosofia e storia sociale e del costume. Forse
neanche chi è arrivato a tanto si rende conto di quello che ha fatto. Però,
detto così, non si capisce niente. Cominciamo
dall'inizio (che risale a più di due anni fa): Boris Savoldelli e Alessandro
Ducoli, l'uno nella parte di quello che sa, che conosce, e l'altro in quello
del truce cantautore ruspante, vergine dell'argomento, si
incontrano-scontrano sul movimento Beat americano (non il Beat inglese e la
sua musica, ma il movimento americano di Kerouak e Ginsberg, Corso,
Ferlinghetti, Burroughs) per decidere se è esistito veramente e se esiste
ancora un tale movimento e in cosa consiste; e se esiste?c'è una 'via
italiana al movimento beat? Il gruppo si allarga a Federico Troncatti, Andrea
Bellicini e Andrei Kutov e si formano i Brother K. Nasce una sorta di
Story-Book che contiene studi, riflessioni, conclusioni. La questione si
espande e nascono le canzoni, le musiche, colonne sonore della storia scritta
che, a sua volta, diviene didascalica per le musiche stesse. Ne parlano a
Fernanda Pivano che con loro si incontra più volte, sorpresa e compiaciuta di
questo riaccendersi di interesse per un periodo e un movimento che lei ha
studiato, seguito e vissuto a lungo. Vengo coinvolto
anch'io come 'lettore esterno' imparziale, per dare primi giudizi e consigli.
Alla fine arriva il disco: incredibile. O meglio, tanto credibile da essere
impreparati ad accoglierlo. Evanescente e concreto, così come il movimento
Beat, il disco incarna l'essenza stessa del movimento nella sua
impossibillità di 'ingabbio' in qualsiasi schema conosciuto. In un ipotetico
viaggio spazio-temporale le strade vengono percorse tutte, grandi e piccole,
e tutte portano in nessun luogo perché è giusto così: non ci deve essere un
punto di partenza e uno di arrivo, le strade vanno solo percorse perché
l'essenza è il viaggio stesso. E così i generi musicali si intrecciano, si
incrociano, vengono 'percorsi' ma mai assunti o definiti. Quello che conta è
l'esperienza e l'emozione; la parola stessa è un veicolo e può portare da una
parte o dall'altra. L'esempio perfetto è il brano 'Io' (che vi offro in
versione MP3): multivocalità sul nulla, fatta di frasi spezzate che si
rincorrono come in una gigantesca partita di Scarabeo, per formare ora una
frase e, poco dopo, un'altra. Il disco e lo Story-Book sono stati stampati in
una serie limitatissima per critici ed amici, in attesa di trovare una
pubblicazione degna. Alla realizzazione della parte musicale hanno
collaborato anche Teo Marchese, Morris Peretti, Mario Stivala, Giuliano
Muratori. Il grande Mark Murphy (crooner statunitense), venuto a conoscenza
del progetto, ha voluto parteciparvi donando la sua voce ad un intenso
'reading' di Subterraneans. Io vengo citato come il 'colpevole' della nascita
del brano 'Io'. COLLABORAZIONI Boris Savoldelli, “Insanology” (GB - www.rock-impressions.com) Insanology è
l’album di debutto come solista del singer Boris Savoldelli (attualmente
cantante dei SADO, Società Anonima Decostruzionismi Organici), che nel suo
curriculum ha già all’attivo varie collaborazioni, a partire dalla fine degli
anni ’80. Ma quello che ha maggiormente caratterizzato Boris è stato lo
studio del canto, che lo ha portato a fare esperienze molto importanti e il
peso di tutto questo emerge con forza da questo disco. Insanology è un
disco sperimentale di dodici brani dove Boris con la sua voce fa tutto e solo
in due tracce è accompagnato dalla chitarra di Marc Ribot (Tom Waits, John
Zorn e molti altri), quindi il nostro usa la voce come uno strumento e il
canto diventa l’occasione per mostrare tutta la gamma delle possibilità
offerte dalla voce umana. Boris usa la voce come un mosaico, la incastra, la
decompone e la ricompone, la fa diventare ritmo e melodia, prova e riprova e
alla fine nascono dei brani altamente suggestivi. Detto così la cosa potrebbe
“spaventare” un po’ il lettore, in realtà Boris ricerca soluzioni molto
armoniche e piacevoli da ascoltare, non si tratta di vocalizzi esasperati e
anche se i testi sono funzionali alle soluzioni armoniche adottate nei vari
brani, l’ascoltabilità del disco è sempre molto buona. Il nostro è in
possesso davvero di una grande abilità vocale e riesce a creare delle
atmosfere di grande suggestione con le sue polifonie, le sovraincisioni e le
ritmiche. Il jazz si mescola con i canti spiritual, con le musiche
sudamericane, con quelle etniche africane, un disco dove modernità e
tradizione si incontrano e si creano atmosfere altamente suggestive. La
chitarra di Ribot è superlativa e i due brani in cui compare sono davvero
notevoli, ma anche da solo Boris fa un gran lavoro, ascoltate la cover di
“Crosstown Traffic” di Hendrix per credere. Inutile aggiungere
altro, Savoldelli è un artista impegnativo e appagante al tempo stesso, che
mostra come l’arte possa e debba essere ricercata con soluzioni coraggiose e
controcorrente. Boris Savoldelli, “Insanology” (GB - www.rock-impressions.com) La nobiltà musicale
della voce umana, pari a qualsiasi strumento, è stata già dimostrata da
grandi vocalist, da Demetrio Stratos a Bobby McFerrin. Boris Savoldelli si
inserisce a pieno in questa tradizione di spregiudicati sperimentatori vocali,
realizzando un disco a cappella con la sola sua voce a far da leader e da
coro. E mentre Alessandro Ducoli scrive i versi dal tono semiserio
intrecciando italiano ed inglese con metrica che esalta il carattere ritmico
dell'album, la presenza di Marc Ribot in due brani impreziosisce il lavoro. Colpisce
subito il carattere assolutamente personale del lavoro, cosa affatto scontata
per il primo album solista. A qualsiasi genere musicale si voglia ascrivere
(se proprio non se ne può fare a meno), il disco del cantante bresciano è
pura espressione di sé stesso. E questo è certo un ottimo inizio. La
sincerità di scrittura, infatti, si percepisce dalla qualità emotiva dei
brani, nonostante tra composizione ed esecuzione ci sia un gran lavoro
d'arrangiamento. La lunga e formativa esperienza di Savoldelli permea le
dodici tracce, plasmandole di volta in volta ed aiutandolo a gestire la messe
di ascendenze stilistiche. Il Rock irrompe suggerendo un'illustre cover di
Hendrixiana memoria (Crosstown Traffic) e, temperandosi ad un moderno feeling
blues, genera Insanology che, grazie anche alla straniante chitarra di Ribot,
risulta probabilmente il miglior momento dell'intero album. Ma la palma d'oro
è contesa da Bluechild, che esplode tutta la potenza corale tipica del
Gospel, e da Moonchurch, sorprendentemente simile alla forma del mottetto,
non solo per l'aria da musica sacra, ma anche per l'utilizzo di testi
differenti cantati contemporaneamente dalle diverse voci. Impressione
altrettanto suggestiva fornisce In The Seventh Year, composta da Mark Murphy,
con la sua armonia sospesa, e a testimonianza della mutabilità di look
risponde la scanzonata Mindjoke (ancora con Ribot), dal respiro hawaiano, che
delinea il tono ironico presente in gran parte del disco. Andywalker ha,
invece, i tratti propri della composizione pop corale: linee vocali
stratificate in basso, parti armoniche e voce principale, in un groove
scandito enfatizzando i tempi pari della battuta. Nella successiva
Circlecircus Boris si diverte a fare il verso, attraverso il suo apparato
fonatorio, alle sonorità elettroniche (riprese poi in Crosstown Traffic), ma intreccia
anche con abilità linee melodiche di moto contrario (ascendenti e
discendenti). C'è anche modo di apprezzare il suo falsetto in
De-toxichatefull e in Io?, che chiude il cd con un magistrale gioco di
sovraincisioni e pan-pot, in cui il testo si compone pian piano nel sommarsi
delle voci. Un esordio, dunque, che conquista chiunque trovi nella musica il
suo naturale habitat, e chi voglia trovar nel suo habitat. Buona musica... Boris Savoldelli, “Insanology” - Riccardo Storti (www.mentelocale.it) - 12-02-2008 Il disco del
vocalist bresciano spazia dal jazz al rock. Melodie orecchiabili e
sovraincisioni per una voce che ricorda Demetrio Stratos. Suonare la voce,
cantava qualcuno anni fa. Non vogliamo in questa sede scomodare paragoni che
potrebbero mettere in imbarazzo, sia l’artista, sia il paziente ascoltatore.
Allora, sciogliamo per un attimo le riserve: dalle parti di Brescia c’è un
vocalist capace di usare il proprio talento ugolare con maestria e
creatività, Boris Savoldelli. Carneade, chi era costui? Succede sempre così,
ma, prima o poi, vale la pena parlarne. E non solo perché è uscito il CD
(Insanology – Mousemen 2007, distribuito da BTF).
Boris Savoldelli,
“Insanology” - Steve Cummings di
ABC Radio Networks I’ve been hearing voices lately, but it’s nothing a
therapist can handle. Strange thing is, it’s the voice of one man, Boris
Savoldelli, an Italian singer steeped in jazz but unafraid to incorporate
other forms into his music; African, Caribbean and church music, to name a
few.
Boris Savoldelli, “Insanology” - Massimo Marchini di www.ondarock.it E' un disco
veramente folle, "Insanology", a cura di Boris, musicista
bresciano, interamente a cappella, cioè con la sola voce, eccetto per un paio
di interventi del grande Marc Ribot alla chitarra in altrettanti brani. Dopo
diverse e sparse collaborazioni, con questo cd Boris Savoldelli giunge alla
sua opera prima come solista.
Boris Savoldelli,
“InsanolBRUCE LEE GALLANTER ( A truly strange solo offering featuring Boris
Savoldelli on all voices with Marc Ribot guest guitarist on two tracks. Boris Savoldelli,
“Insanology” - Loris Furlan, www.ilmucchio.it
(sezione FDM) Che la voce
potesse assumere la valenza espressiva di uno strumento, e non di
convenzionale asservimento alla parola, lo sapevamo da tempo, grazie alla
sperimentazione di importanti vocalist del passato e del presente.
Eppure ci sorprende ancora un lavoro discografico come quello di Boris
Savoldelli, in cui lo strumento-voce sa coniugare, con estrosa
efficacia, un lungo e importante bagaglio di studi e ricerca ad una
godibilissima dimensione canzone. Capiamoci: “Insanalogy”, primo disco
solista del cantante bresciano dopo svariate collaborazioni, si discosta
decisamente dalle radicali esplorazioni e sfide vocali di un Demetrio
Stratos, tuttavia condividendone il fervore di ricerca, sintonizzandosi
piuttosto su calde interpretazioni più affini a Bobby McFerrin o al suo
maestro dichiarato (ed effettivo in occasione di un stage austriaco) Mark Murphy.
Dodici brani di sola voce, mirabilmente assemblata, sovrapposta col
supporto di un looper, salvo l’ottimale presenza in “Mindjoke” e “Insanology”
del rinomato chitarrista Marc Ribot, a reggere uno stupefacente filo
creativo, ricco di suggestioni, cromatismi, tra delizie swing, soul,
rielaborazioni reggae e spiritual, sensuali divagazioni calypso. C’è
posto anche per una meravigliosa versione della hendrixiana “Crosstown
traffic”, sempre affine allo stile consolidato nell’intero album. Poi,
infine, ci si accorge che da qualche parte ci sono pure delle parole:
inglesi, italiane, non banali né casuali, ma pare un dettaglio quasi
insignificante al cospetto della magia di tanta caleidoscopica vocalità e
musicalità, e questo è forse il complimento migliore.. Boris Savoldelli, “Insanology” - Maurizio Matteotti, Ottopiù Spettacoli, 5
gennai 2008 Tutto con la voce.
Quando un talento ti nasce a pochi chilometri da casa…Boris Savoldelli è un
cantante che ha orbitato nell’area camuno-sebina, ma ch’è anche riuscito a
far arrivare la propria voce a New York. E Mark Murphy (il jazz singer che
può vantare 6 nomination ai Grammy) lo ha definito uno dei grandi, non ancora
scoperti interpreti di un superbo modo di cantare; ammirazione testimoniata
dal regalo di un inedito, “In the seventh year”. Ed anche Marc Ribot (già con
Tom Waits e Elvis Costello) si è messo a disposizione, per impreziosire con
la sua chitarra due brani di un album – l’esordio di Savoldelli – per il
resto tutto costruito proprio con la voce (grazie alle sovraincisioni e
all’ausilio di un looper).
Boris Savoldelli, “Insanology” - Enrico Ramunni, Rockerilla 15 dicembre 2007 Con tecnica
solidissima ed immaginazione da vendere, questo allievo del grande Mark
Murphy mette in scena un'operazione che non è di tutti i giorni: realizzare
un album con la nuda voce sovraincisa su più piste, con l'ausilio di un
looper per le parti ritmiche, aggiungendovi solamente l'idiosincratica
chitarra di Marc Ribot in due pezzi. Se a questo punto avete in mente le
ricerche di Demetrio Stratos siete fuori strada, perché Insanology swinga di
bestia, passando dal jazz di Lambert, Hendricks & Ross al calypso e
piazzando come ciliegina sulla torta una versione di "Crosstown
Traffic" da far suonare a festa le campane di tutta Ladyland.
Sperimentale nel procedimento e godibilissimo negli esiti, questo CD metterà
d'accordo tutti i vostri conoscenti. Boris Savoldelli, “Insanology” - www.movimentiPROG.net L'esordio solista
di questo giovane "maestro della voce". State cercando un nuovo
grande talento della musica italiana? Eccolo qui: Boris Savoldelli, classe
1970, origini bresciane, curriculum di lusso ma soprattutto una voce grande così.
Eccellente il suo nuovo album solista "Insanology": c'è solo Boris,
con la sua voce, e una loop machine che gli consente di sviluppare nel
migliore dei modi la sua idea "mantrica". Riagganciandosi un po'
allo studio iterativo della minimal musica americana (Riley, Young, Reich),
Boris concentra la sua attenzione su alcune cellule vocali, che con l'ausilio
del looper vengono sviluppate come cerchi concentrici, creando un vero e
proprio "sistema organico" al centro del quale la voce funge da
motore propulsivo. Un progetto del genere non passa inosservato
e piace molto a due grandi: il jazz vocalist Mark Murphy si accorge di questo
grande talento e gli regala un ottimo inedito dal titolo "In the seventh
year", il grande Marc Ribot (Lounge Lizard, Tom Waits, John Zorn etc.)
non resiste e infila la sua chitarra in "Mindjoke" e nella focosa
title-track... Partendo dagli studi stratosiani e dall'attività di Bobby
McFerrin, senza dimenticare la lezione di leggendari rock vocalists come Ian
Gillan e Paul Rodgers, Boris tira fuori dalle sue corde vocali un lavoro
eccitante, un esperimento che ha nell'esigenza comunicativa, nella
relazionalità con l'ascoltatore, il suo punto di forza (particolari i testi
di Alessandro Ducoli). Ci sono verve e
ironia in "Andywalker" e "De-toxic-hatefull", un festival
di colori e profumi caraibici e latinoamericani che rimanda alla ricchezza e
al groove di vocal bands come i Manhattan Transfer ma anche a formazioni come
Weather Report e Living Colour. Tanto per indicare alcuni punti chiave del
disco, basta ascoltare le ritmiche di "Circlecircus" oppure l'idea
"gregoriana" di "Moonchurch" e la passionalità di
"Bluechild", e la cover dell'hendrixiana "Crosstown
traffic" per capire l'anima funk di Boris. Come un solo uomo può
diventare una piccola, gioiosa e trascinante orchestra. Un formidabile
debutto solista. Boris Savoldelli, “Insanology” - Marco Del Corno - www.arlequins.it -
04-12-2007 Ho conosciuto Boris grazie a Sandro
Marinoni (già sax negli Arcansiel e oggi mente dei S.A.D.O. insieme a Paolo
Baltaro) durante una serata fredda dello scorso giugno. La prima impressione
fu quella di una persona di grande profondità sia umana che musicale, con una
predisposizione naturale per la sperimentazione. Boris oltre a produrre
lavori solisti, proprio a seguito della collaborazione con Sandro si è unito
al folle progetto S.A.D.O. diventandone l’elemento vocale. E’ proprio la
ricerca e la sperimentazione sullo strumento musicale più naturale -la voce-
che rende il progetto di Boris molto interessante. “Insanology” infatti va
sicuramente in questa direzione musicale, e pur essendo abbastanza fruibile,
risulta sufficientemente complicato e sperimentale da incuriosire
l’ascoltatore di prog. Partendo dall’esperienza musicale di Bobby McFerrin, attraverso
certo jazz, ma anche inconsapevolmente influenzato dagli intrecci vocali di
Yes e soprattutto Gentle Giant (che Boris dovrebbe assolutamente ascoltare!),
il nostro ci propone 11 squisiti brani, in cui l’unico strumento musicale è
la voce (tranne in due brani che vedono ospite alla chitarra Marc Ribot –
Lounge Lizards, John Zorn, Tom Waits, e Jazz Passengers -). La tecnica
utilizzata è quella di creare intrecci canori, con ritmiche vocali in loop
(che viste dal vivo fanno letteralmente venire i brividi), per generare
tappeti sonori circolari, mentre la voce solista produce liriche alternate in
inglese e italiano (scritte a due mani con Alessandro Ducoli). Il tutto dà
vita ad atmosfere di grande impatto emotivo muovendosi liberamente in diversi
stati, dall’intimistico a letterali esplosioni di gioia. In questo senso
l’opener “Andywalker” è un buon esempio, con il suo loop quasi ossessivo e
una linea vocale molto accattivante, tuttavia sono i successivi brani
“Circlecircus” e “Mindjoke” (con una stupenda chitarra acustica del citato
Marc Ribot) che catturano maggiormente l’attenzione e fungono da ponte verso
la parte forse più sperimentale del cd. “Moonchurch” (che dal vivo è davvero
splendida - e me ne rendo conto solo adesso) è una traccia, nella sua
relativa brevità, davvero affascinante e, oserei dire, commovente. Poi ci si
tuffa nel ritmo ossessivo di “Crosstown traffic” (cover dell’omonimo brano di
Jimi Hendrix) e nella gioia esplosiva di “De-toxic-hatefull” che ricorda
fortemente certi Yes. La successiva “In the seventh year” (di Mark Murphy e
Uli Rennert) è, con le sue linee blues, il brano più jazz del lotto, mentre
“Insanology” è di nuovo un breve momento molto ritmato, impreziosito dalla
chitarra elettrica di Marc Ribot. Bluechild” è un blues struggente e molto
evocativo che secondo le note di copertina dovrebbe chiudere il cd; in realtà
tre brani aggiuntivi seguono. Le versioni di “Mindjoke” e “Insanology” senza
chitarra, mettono in grande luce il lavoro di Boris sulla voce che, con la
tecnica di salto di ottava, sembra creare contrappunti infiniti tra i cori di
sostegno, la ritmica e la parte solista. Questo, a mio avviso, diventa
lampante nella traccia che preferisco “Io?”, in puro stile Gentle Giant. In
conclusione, “Insanology” è un cd particolare, che probabilmente interesserà
una ristretta cerchia di persone, ma – e qui andrebbe aperta una discussione
che non possiamo affrontare esaurientemente in poche parole – che dimostra
come la scena musicale italiana, anche quella per così dire più sanremesca (e
scusate la parolaccia) dovrebbe prestare attenzione ad artisti di estremo
valore come Boris Savoldelli. Io vi consiglio di visitare il sito di Boris
(http://www.borisinger.eu) e di provare ad ascoltare qualcosa… Boris Savoldelli, “Insanology” - Furio Sollazzi - www.miapavia.it -
03-12-2007 La pazzia di Boris
è quella di Orlando innamorato, è la passione che prende il sopravvento sulla
ragione, è l’afflato compositivo, la ricerca continua ed ossessiva,
l’impossibile reso possibile; per amore si fa questo ed altro. Ed è l’amore
estremo per la musica, per il canto, che l’ha spinto a sperimentare, ad
osare, a spingersi oltre. Insanologyè tutto questo…ed anche di più! E’
un’antologia di insanità mentali applicate alla musica: solo un pazzo si
metterebbe a fare tutto un disco con l’unico aiuto della propria voce. Ma non
è stato il primo, e neanche l’ultimo. Da Roy Wood (degli ELO) ad Harry
Nilsson, a Demetrio Stratos, per arrivare sino a Bobby McFerrin, una lunga
teoria di “pazzi” si è cimentata in questo esercizio insano.
Il lavoro si basa,
per la composizione delle canzoni, su un’idea mantrica” dei brani, dove la
ripetizione continua di brevi porzioni armoniche e ritmiche, sovrapposte le
une alle altre creano il brano. Per la parte lirica del progetto si è avvalso
della collaborazione di Alessandro Ducoli che firma tutti i testi dell’album.
Dopo avere sentito alcuni provini del progetto, Mark Murphy (grande coroner
statunitense e mentore di Boris) ha deciso di regalare un suo brano inedito
dal titolo "In the seventh year" che è stato riarrangiato per sole
voci dal compositore Federico Troncatti. Inoltre il chitarrista Newyorkese
Marc Ribot ha partecipato alla registrazione di due brani: Mindjoke e
Insanology. Questa però va raccontata. Boris (e qui si dimostra che è un
pazzo) da sempre ammiratore di Ribot, gli scrive dicendogli che il suo sogno
sarebbe averlo ospite nel suo disco. Il manager del chitarrista risponde che
“ mr.Ribot non incide dischi a pagamento, ma sarà lieto di ascoltare i
brani.”. Dopo poco tempo arriva una seconda lettera, questa volta di Ribot
che dice di aver ascoltato l’album e che gli è piaciuto e vorrebbe fare degli
interventi in due brani in particolare; e così, oltre alla voce di Boris,
l’unico altro strumento che compare nell’intero album e la chitarra di Marc.
E meno male, visti
i risultati. Un album splendido. Boris Savoldelli, “Insanology” - Il Panes - www.debaser.it- 30-11-2007 Quando si dice che
in Italia non c'è sperimentazione in musica, che non esiste un sottosuolo
musicale all'altezza dei paesi stranieri, in realtà si sta dicendo una gran
baggianata... Chi parla in questo modo guarda evidentemente alla sola Italia
musicale che viene promossa nel circuito mainstream, all'Italia di Sanremo,
della Pausini e di Nek. Altrettanto evidentemente queste persone sono
convinte che l'underground italiano sia composto solamente da band di
studenti che suonano cover metal alle feste della birra. L'Italia invece è
piena di arte musicale, di sperimentazioni e percorsi personali davvero
interessanti (per rendersene conto è sufficiente farsi un giro su MySpace).
Boris Savoldelli si inserisce perfettamente in quella cerchia di artisti che,
con la famosa gavetta, si sono creati un linguaggio originale lontano dagli
standard della canzonetta italica. Boris Savoldelli, “Insanology” - Cesare Casalini - www.vocecamuna.it -
25-11-2007 Non un disco da usare come sottofondo. Non
un disco da autostrada. Non un disco facile. E’ un album da sorseggiarsi con
calma, da ascolto intenso ed appassionato. Dopo l’esperienza con i Brother K,
il Boris Savoldelli ha sentito l’esigenza di sviluppare ancora di più quella
ricerca sui suoni della voce che da anni lo sta impegnando. Il risultato è “Insanology”, un album con
12 pezzi ognuno dei quali ha la sua brava particolarità (e già questo è un
punto a favore dell’artista che se la gioca sull’acappella). L’unico strumento
presente nel disco è la chitarra di Marc Ribot (!) in due pezzi, due versioni
di “Mindjoke” (dal ritmo calypso), dove ci si può immaginare in una spiaggia
cubana, e di “Insanology”, la title-track. Ma diversi sono i pezzi degni di
nota dell’album. In “Moonchurch” la mia prima impressione è stata quella di
trovarmi davanti ad un coro alpino, mentre in “De-Toxic-Hatefull” Boris
sembra incontrare Bobby McFerrin. Il disco è stato
registrato, arrangiato ed editato al Cavò Studio di Azano San Paolo dal
mitico Paolo Filippi, invece le tracce di chitarra di Marc Ribot vengono dal
Greenpoint Sound Studio di New York e da Francois Lardeau. Da notare anche
che i testi in italiano sono stati scritti dal sempiterno Alessandro Ducoli.
Disco assolutamente da “provare”. MANE', "Cromo inverso" (Gmd)- Fabio Zamboni
(Alto Adige) A volte ritornano.
L'arte del rock, la sua capacità di riciclarsi, sa rilanciare sé
stessa anche quando attinge a un'era non proprio memorabile come quella degli
anni Ottanta. Come nel caso di Manè, nome d'arte del cantautore
bresciano Pierangelo Manenti, che nel suo "Cromo inverso" attinge
ai suoni con cui è cresciuto capace però di rinnovarli con un progetto
elettropop piuttosto raffinato e per nulla in sospetto di puro revival. La
musica dance di quegli anni mantiene appunto la sua forza di far muovere
i piedi ma - affidata com'è a testi originali e a un
lavoro in studio che privilegia chitarre affilate, voci
acute, tappeti di tastiere mai scontati, percussioni
elettroniche come colpi di frusta - offre un prodotto molto
attuale. Suoni e una voglia di anni Ottanta che troviamo ad esempio
anche in band più giovani e modaiole come i Delta V e il loro ultimo
album, senza voler arrivare a punte di creatività chiamate Subsonica. Fra gli
otto brani di "Cromo inverso" segnaleremmo soprattutto
"Nereide" e il suo ritornello vincente, e poi i lenti
"Onirica" e "Maria Bambina", brani con cui Anna Oxa
avrebbe vinto il Festival di Sanremo anziché rimediare una figuraccia come
quest'anno. Per restare nel campo delle citazioni, la voce ci ricorda quella
estetizzante di Mango e il suo pop raffinato. Merito della musica ma anche
dei testi, che in gran parte portano la firma di Alessandro Ducoli, lo
Springsteen della Val Camonica. Il filo rosso è la voglia d'amore, coniugata
però sempre in modo non banale. Un disco facile solo in apparenza, un lavoro
che richiede e merita ripetuti ascolti per cogliere tutte le raffinatezze che
racchiude. MANE', "Cromo inverso" (Gmd)- Salvatore
Esposito (Black Wave Records) Cromo Inverso è un
progetto musicale che nasce dall'incontro di Mané e Valerio Gaffurini con il
cantautore camuno Alessandro Ducoli, ovvero tre persone diverse, tre
personalità diverse ma con un unico fine da conseguire, un grande disco. Mané,
questo il titolo del disco, è la realizzazione del cammino fatto insieme dai
tre musicisti che hanno tentato di far confluire sonorità progressive e new
wave in un rock dai tratti colti in cui lo spleen dei Fiori Del Male va a
braccetto con i testi introspettivi tipici dello stile di Ducoli. Il disco
composto da otto brani più una bonus track, si caratterizza come un viaggio
onirico in cui poesia, rock e suggestioni prog avvolgono l'ascoltatore fin
dalle prime note. Si parte con Immagine, il brano cardine di tutto il
progetto in cui batterie elettroniche e le chitarre di Gaffurini fanno da
sfondo ad un testo magnificamente interpretato dal falsetto di Mané che
arriva a toccare vertici di grande intensità lirica. Meno interessante è il
successivo brano Numero Uno, tesa e per certi versi fuori fuoco tanto che
subito dopo ad affondarla arriva Le Fleur Et Le Mal, un brano di rara
intensità in cui sprazzi elettrici e beat elettronici incorniciano un testo
magnifico. Seguono la toccante Nereide e la sognante poesia di Per te, due
brani dal grande impatto emotivo in cui protagonista è ancora il falsetto di
Mané abilmente supportato da cori che compaiono e scompaiono creando alchimie
vocali e sonore elegantissime. Si passa poi ad atmosfere più sincopate con Onirica,
la cui linea melodica riconduce alle ultime produzioni in studio della PFM
con tanto di archi e di ritornello ad uncino che rapisce l'ascoltatore con
tutto il suo trascinante mood radiofonico per nulla banale per altro.
Chiudono il disco Maria Bambina e la title track, entrambe completano alla
perfezione un disco dal fascino innegabile a cui toglie qualche margine di
eccellenza solo la presenza di qualche piccola caduta. Un disco che piacerà
sicuramente agli appassionati di musica prog e non solo, speriamo solo non
sia un episodio unico ma che Cromo Inverso cresca e diventi davvero un
progetto a lungo termine. |
e. |
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