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Prodotto da Alessandro Ducoli e Agostino
Bettinelli. Mastering a cura di Valerio gaffurini e Claudio Lancini presso
XTR Studio (ottobre 2008). Grafica di Armando Bolivar. Non ho ancora conosciuto una persona
come il Ducoli. Forse perché assomiglia più a un cane che a un uomo. Rimane
il fatto che ogni volta che finisce un disco si presenta a casa mia perché
vuole una recensione sul mio giornale. È vero che oggi sono le notizie che
vanno dai giornalisti; è vero anche che oggi occorre insistere per avere
spazio sui giornali ma è anche vero che io appartengo ancora alla “vecchia
guardia” e le notizie di solito preferisco andare a cercarmele da solo. Tra
l’altro sono quasi dieci anni che parlo delle sue uscite discografiche senza
che nessuno si sia particolarmente interessato alle sue canzoni. Vi dico solo
che trattandosi di “ristampa” di questi tre dischi ne ho già parlato e
confesso di essermi lasciato andare a sincere ma forse distratte lodi; non
credo comunque che sia necessario fare una recensione a questa ristampa se
non citando che con le moderne strumentazioni a disposizione degli studi di
produzione musicale si possono ottenere suoni migliorati e certamente più
gradevoli all’ascolto. Per quanto attiene il resto, si tratta di buone cose
ma occorre ammettere che rientrano appieno nell’ordinaria autoproduzione
odierna. Dispiace deludere personaggi come lui che ci mettono sempre molta
passione in quello che fanno ma non credo sia sufficiente per sollevare la
curiosità di qualche ascoltatore. Inoltre, citando lo stesso Ducoli, direi
che nel suo caso vale ancora più che in altri casi il concetto “faccio sempre
qualche cosa di troppo” perché in questo box ci sono ridondanze evidenti e un
poco di “sintesi” avrebbe giocato a suo favore. Non sò cos’altro aggiungere
se non suggerirvi di prendere questo disco solo se avete qualche amico che
odiate a cui regalarlo. Potrebbe funzionare come “colpo di grazia” e potreste
liberarvi di un grosso peso con una piccola spesa. Quantomeno avrete dato un
senso compiuto alle “fatiche” del Ducoli. Io ad esempio ne ho già ordinate
cinque copie: una per mia suocera, una per la migliore amica di mia moglie,
una per il mio commercialista, una per la signora del piano di sopra e una,
che terrò in tasca, da usare all’occorrenza. So che più avanti me ne
serviranno altre ma so anche dove trovarle. Fate come me e vi assicuro che
non ve ne pentirete. Succederà poi che “prima o poi” qualcuno regali allo
stesso Ducoli una copia del suo disco e il “cerchio” allora sarà
definitivamente chiuso. (Maximillian Dutchman.
Lisbona, 31 ottobre 2008) |
Ducoli, Quando si tagliava la coda ai cani (2008) CD 1. Malaspina CD 2. Anche io non
posso entrare CD 3. Taverne, stamberghe, caverne Cd
1. Malaspina L'amore
arriva come un temporale
(21 gennaio 1997) Tutti
al bar (9 dicembre
1996) Disperatamente
tuo (19 gennaio 1997) Omicidio
consentito (21
dicembre 1996) Se
tu mi vuoi (5 gennaio
1997) Il
soldato dell'amore
(16 dicembre 1997) Francesca
(5 giugno 1998) Primo
treno per Roma (31
dicembre 1996) Sogni
e visioni (14 aprile
1998) Petra
(10 luglio 1997) Io
convivo bene con la mia pazzia (8 maggio 1997) Rosa (30 maggio 1998) Non
resta più niente da dire
(5 marzo 1996) Ubriachezza
molesta (28 settembre
1997) Ridendo
e baciando (16 luglio
1998) Cd
2. Anche io non posso entrare Perfetta
(27 ottobre 1999) Io
ti sparerò per primo
(8 febbraio 1999) Il
primo ballo (28
febbraio 2000) Prevért (12 maggio 1999) Giovanna
(23 aprile 1998) Arrivederci
ancora (31 marzo
2000) Lulù
(23 novembre1998) Tre
linee confuse (25
aprile 1997) Dieci
metri sotto la città
(21 dicembre1996) Anche
io non posso entrare
(11 giugno1999) Alcune
cose inutili (4
agosto 1999) Cd
3. Taverne stamberghe caverne La
fiera (1 settembre
2000) Sgangherata (7 agosto 2000) Berlicche (7 aprile 2000) Un
sabato felice (13
aprile 2001) Nina (7 giugno 2000) Maledetta
Africa (30 dicembre
2001) Maligno (19 marzo 2001) L’alluvione (2 ottobre 2000) Delirio
ordinario (24
novembre 2000) Lenta (9 gennaio 2001) A
proposito di questi giorni (26 ottobre 2000) Uomini
delle taverne (...) L'amore
arriva come un temporale Anche sulle Alpi i temporali vanno e vengono
con la stessa frequenza degli stati d'animo. Proprio come lì da te. Anzi
direi quasi di più che in qualsiasi altro posto d'Italia. Temporali che fanno
paura. Come gli stati d'animo quando sembrano temporali. Soprattutto
d'estate. Devi credermi. Comunque, detto questo, mi chiedo davvero perché mi
hai scritto una lettera così presuntuosamente balneare. Oltre al profumo di
sodio ci sono anche i granelli di sabbia incastrati tra le pieghe della
busta. Una lettera davvero balneare. Non trovi sia fuori luogo parlare delle
stranezze del mare a chi si trova nella mia posizione geografica? Perché una
lettera così latitudinalmente scorretta? Lo fai per dirmi che hai una bufera
di mare nel cuore? Lo fai per sentirti libera di incolpare l'estate di
reiterato disordine stagionale? Oppure lo fai per ricordarmi che avrei dovuto
cercare di venirti a cercare ma ho avuto troppo cose da fare? Non importa.
Proverò a fare il punto della situazione ugualmente. Serve anche a me. Ti dico soltanto che mentre tu eri
tanto occupata a cantare “Summertime”, nella peggiore versione di sempre come
sempre succede in tutti i discomare d'Italia da quando l'hanno scritta in
poi, un temporale ha distrutto il mio tetto. Sono scappate tutte le mie
galline e anche i conigli. Ho trovato solo qualche animale superstite che
vagava tra i campi e l'autostrada. Non mi hanno nemmeno riconosciuto. Nemmeno
Otto, il gallo bavarese che ho vinto l'anno scorso alla fiera di Linz. Ti
ricordi? Ingrato gallo austriaco. Ma cosa cambia tutto questo? Niente. Credo
che il temporale non cambi assolutamente niente. Inoltre oggi ci sono nuove
nuvole che salgono dalla pianura. Sono diverse da quelle ieri. Non ho mai
visto due nuvole uguali ma queste sembrano davvero diverse. Hanno la stessa
sostanza ma una forma che sembra diversa. Tuttavia può essere che avranno
l’identica impulsività di quelle di ieri. Magari anche peggio. Quindi mi devo
attrezzare un po' meglio e non avrò tempo di scendere al mare per sentirti
cantare. Per ora ti bacio. Sei sempre nei miei pensieri. Post scriptum. Se mi rispondi, ti chiedo la cortesia di non
parlarmi più del mare. Ciao, baci. Tutti
al bar Odio il natale. Lui odia me. Mi odia a
tal punto da regalarmi ogni anno lo stesso identico regalo: una sindrome
traumatica da ebetismo depressivo. Non ho ben capito di che malattia si
tratti ma vi assicuro che è così. Non ho via di scampo. Per fortuna mi rimane
il buon senso e sapendo che potrebbe trattarsi di una malattia contagiosa
evito di uscire di casa ed incontrare altra gente. Decido sempre di restare a
casa. La mia casa è rotonda. Sembra quadrata
ma è rotonda. Anche il soffitto è rotondo. Anche il pavimento. La mia casa è
una sfera. Sembra un cubo ma invece è una sfera. Una biosfera. Un microcosmo
dove io posso vivere in completa ed autosufficiente autonomia vitale. È il
posto ideale per la convalescenza. La mia settimana da malato si riempie
immediatamente di meravigliose amene attività curative: maratone
cinematografiche di film più o meno d'essay (film gia visti ma da rivedere in
lingua originale con versioni aggiornate e corrette dagli autori); lettura di
libri accumulati (comunque pochi e per giunta accumulati); riascolto
approfondito di Bob Dylan, compresa l'analisi accurata delle traduzioni dei
testi; generoso tentativo di riuscire a leggere I fratelli Karamazov, Tutto prosegue accompagnato da una
progressiva e crescente autoconvinzione del “trionfo”. Arricchendosi con
l’utilizzo dei tempi morti a favore della costruzione di nuovi spazi. Così,
dopo un iniziale e subito abortito tentativo di carteggiatura manuale degli
infissi che danno a sud (quelli a nord sono ancora buoni), inizia la
riorganizzazione architettonica dello spazio disponibile. Trapano, tasselli,
legno, metro, sega, chiodi. Tutto ben predisposto. Costruire una nuova “ala” per la mia biosfera! Sì
un'ala. Come se la mia casa fosse un fosse un nibbio, un pettirosso, un
pipistrello. Insomma un qualsiasi essere vivente dotato di ali. Anche un insetto.
Una grossa vespa a quattro ali. Ali in grado di rendere più credibile la
necessità di sfuggire al natale. La migliore via di fuga. Un nuovo angolo
“finto letterario” da pensiero e da bevuta. Sempre a portata di mano. Con
mensoline storte, bottiglie senza marca che aspettano di colorarsi con la
polvere, sottobicchieri delle birre danesi, foto degli indiani, cavatappi,
targhe rubate dalle macchine straniere, ecc. In genere la malattia del natale
non scompare e mentre cerco di farmi perdonare per essere stato un po’
ingrato e presuntuoso mi accorgo che siamo a gennaio e che comunque occorrerà
riparlarne al prossimo dicembre ... nel
frattempo il ritorno al lavoro completerà la mia guarigione. Disperatamente
tuo Il sistema migliore per capire se
uno/a è rincoglionito/a (ovviamente ragionate in riferimento al sesso opposto
al vostro) è invitarlo/a a casa vostra ad agosto per condividere con voi una
meravigliosa e fresca anguria. Bella, rotonda, estiva, succulenta,
accompagnata con il maraschino. Vi spiego cosa intendo. Preparate il terreno di gioco come
farebbe un arredatore Ikea (anche se non vi piace l'idea fatelo lo stesso
altrimenti tenetevi i rompicoglioni). Essenziale ma non troppo, economico ma
non troppo, a misura d'uomo ma non troppo, per chi vuole usare il cervello ma
non troppo (da intendersi come utilizzo della risorsa cerebrale a servizio
della “qualità della vita”). Una giusta miscela di naturale e tecnologico, di
nuovo e di vecchio, di minimal chic
e radical shock, di prezzo e
qualità. Una giusta miscela insomma. Mettete una sedia ben disegnata vicino
alla finestra più ventilata, meglio ancora se disponete di una veranda (in
questo caso la sedia dell'esaminato/a mettetela nel lato che non dà sul
cavalcavia dell'autostrada). Inserite nel lettore del vostro
dvdcdvhsdolbytapewaccywarysystem un disco di Enya, non masterizzato (la
migliore cosa sarebbe comunque metterne in vista la discografia completa
avendo cura di dosare dischi originali, quelli che direte “sono i più
interessanti”, con dischi masterizzati, che direte “li ho lì per completezza … magari Orinoco me lo prendo originale ma
sai … con quello che costano”). Abbiate molta cura con le luci. Usate una
giusta dose di gradazioni e soprattutto calcolate anche il cambio di luce
naturale che interviene nella fascia oraria tra le otto e le nove di sera. Ad
esempio una leggera luce blu aiuta a rendere meno radicale questo passaggio.
Come per la sedia, anche per le luci occorre calcolare l'autostrada,
soprattutto se è illuminata a giorno. Attenzione alle luci con colori accesi
a gradazione carminiosimile perché non sempre sortiscono l'effetto voluto.
Spesso riducono la stanza ad una sorta di sala d'attesa di bordello asiatico.
Inoltre se abitate vicino a una gassosa industria siderurgica con fumi
gialli, viola e arancioni, si creerebbe “un’atmosfera Blade Runner” che non tutti saprebbero apprezzare. Molta
attenzione ai poster e ai quadri. Un buon mangiatore di anguria non vuole
essere aggredito da messaggi subliminali. Evitate dunque riproduzioni di
Mirò, Picasso, Gauguin, Magritte e disegni di Leonardo (soprattutto quelli
anatomici o il “banalissimo” Uomo di
Vitruvio). Evitate anche foto di Che Guevara e di altri miti della
sinistra estrema. Così come foto di Adolfo, Benito o Erode. Il mangiatore di
anguria vuole sentirsi culturalmente anarchico. Non vuole essere subissato di
messaggi politici e soprattutto non vuole impegnarsi a cercare di capire a
quale corrente artistica apparteneva Picasso. Evitate le foto dei parenti
(soprattutto se sono morti), i pesciolini di vetro e le lampade vinte alle
fiere (quelle elettriche in plastica che raffigurano le giostre o la statua
della libertà). Dovrebbe bastare. Altri accorgimenti sono preziosi e possono
aiutare ma si tratta di argomentazioni di così maniacale dettaglio che forse
possono risultare ridondanti a questa semplice breve lezione di vita
domestica. In breve posso semplicemente elencarvi alcuni dettagli che
richiedono solo una minima cura: il cesto della frutta, i fiori secchi e i
piatti comprati in Toscana, i portagiornali con riviste di architettura e di
moda (evitate le riviste sportive a meno che non trattino sport sconosciuti),
il calendario e la bacheca dei post-it vicino al telefono, l'eventualità
dell'acquario (forse da valutare con attenzione perché potrebbe produrre
“l’effetto pizzeria” o ristorante cinese); il cassettone della nonna e i
diversi pizzi che ci dovreste appoggiare sopra, la porta della camera aperta
in cui intravedere un certo disordine ma non troppo, i portasapone marmorei,
la libreria e la disposizione dei libri. Eccetera. Tutti elementi preziosi
che dovrete aver semplicemente cura di armonizzare con il telaio di
arredamento che avete creato. A questo punto la prova del nove.
Portate in tavola l'anguria, metà già tagliata a fette e metà intera. La metà
già tagliata con alcune fette più piccole e una piccola ciotola con dei
cubetti di anguria mischiati nel ghiaccio e corretti a maraschino
(accorgimenti geometrico-sensoriali da non sottovalutare mai). Lasciate che
Enya entri dentro nelle vene dell'ospite e attendete la “frase tornasole”. Il
vero rincoglionito/a è colui/ei che, aggredito/a dalla vostra enfasi
arredatrice invece di incendiarvi la casa urlando “sei un/a finito/a
depresso/a, represso/a, cesso/a, devastante pericolo sociale”; oppure
“maniaco/a, depravato/a, pervertito/a, mi hai preso per un/a bagascio/a,
vaffanculo” … dicevo il vero rincoglionito/a è colui/ei che invece apprezza
in maniera fintamente distratta il vostro gusto per l'arredamento e che
soprattutto, dopo grandi boccate di anguria, finisce la sua dissertazione con
la frase tornasole: “hanno inventato di tutto e non sono ancora riusciti a
inventare l'anguria senza i semi”. Omicidio
consentito Mi trovavo allo Zanzibar. Il bar delle
zanzare. Le finestre erano aperte. Gli insetti nemici sfruttavano i vortici
del ventilatore per calarsi sulle vittime del caldo. Come elicotteri Apache. La questione comunque era
fondamentalmente una sola: perché le donne hanno le caviglie? Intendo, le
caviglie così caviglie. Alte, slanciate. Protese verso il futuro. Verso
l'universo. Una domanda che non avrà mai la risposta. Soprattutto per chi
come me non pensa di essere proteso verso nessun tipo di futuro.
Intendiamoci, non sono pessimista. È solo che odio gli ottimisti. Comunque
avere una caviglia protesa non vuol dire per forza di cose essere futuristi,
nel senso di appassionati del futuro. Vuol dire semplicemente avere una
caviglia slanciata e basta. Quindi non vedo perché ostinarsi a cercare
risposte che non servono. Stavo assaggiando un distillato di
grano canadese e fumavo Partagas.
Lussi che non capitano spesso. Soprattutto ai liricanti da balera come me.
Pensavo con insistenza alle caviglie e anche al fatto che non aveva nessun
senso pensare al futuro. Soprattutto se una caviglia, un po' di sudore di
mais e del tabacco erano il mio presente. La macchina del ghiaccio faceva un
rumore di trattore e il trattore non faceva più rumore. Si erano scambiate
“il turno” del rumore. Il barista ammazzava il tempo ammazzando le mosche con
lo stesso straccio che usava per asciugare i bicchieri, pulire il banco e
raccogliere l'acqua della condensa della ghiacciaia. Oltre ovviamente ad
asciugarsici il sudore prima di appoggiarlo sulla spalla. La stessa spalla
dove era sempre stato da quando il bar aveva aperto le sue porte di legno al
futuro. Guardavo quella caviglia e improvvisamente la questione divenne una
sola: perché le donne hanno un ciuffo di capelli che sfugge ai lacci che li
raccoglie per appoggiarsi sul collo come una pennellata di colore di un
Renoir o di un Monét? Domanda che non avrà mai la risposta. Soprattutto per
chi come me non sa nemmeno se Renoir dipingeva prima o dopo di Monét. Cercavo
comunque di trovare un argomento per riempire di futuro la mezzora successiva
di quel ciuffo di capelli. Evitando con cura di parlare di pittori e di
colori. La radio per fortuna riempiva i vuoti del silenzio con le note di una
sambaudade. Una samba femmina che aveva dimenticato il carnevale per
raccontare grandi frasi d'amore che finivano tutte con … você me adora. Do, resettima, fa minore, ancora do. Tutti accordi
a olio per una voce a tempera. O il contrario ... non so distinguere l’olio
dalla tempera. Lei beveva un ghiacciato di cubana
memoria. La bibita dei cubisti. Quella di Ernesto. Uno dei due Ernesti
ospitati da Cuba, fate voi che è lo stesso. Un bicchiere con ghiaccio,
cannuccia e menta della salute. Guardavo quella ciocca di capelli e
improvvisamente la questione divenne una sola: perché le donne hanno una
goccia di sudore che scende dal collo e si incanala dentro la camicia aperta
per poi scomparire dopo il secondo bottone? Una goccia così audace, che
riesce persino a superare una collana con dente di squalo. Una goccia di sale
dentro i mari più salati e più riempiti di pesci mangiacani che si possano
mai immaginare. Una goccia che lotta con tutte le sue forze per tornare nella
culla degli oceani pacifici di tutti i mappamondi. Negli oceani atlantici
riempiti di burrasca. Oceani indiani in balia di grandi Monsoni. Oceani mediterranei
che non temono “The rock of Gibraltar”. Io guardavo quella goccia mentre
lentamente scompariva e improvvisamente la questione divenne una sola ma non
ricordo quale. Ricordo solo che a un certo punto, mentre masticavo un po' di
menta, la mia testa cadde sul tavolo come una noce di cocco da una palma. Fui
svegliato dal barista che tentava di uccidere le mosche che si ubriacavano
con lo zucchero sparpagliato sul mio tavolo. Il Conte disse semplicemente “…
si chiude ragazzo. Ne ha uccisi più Se
tu mi vuoi Ho fatto dei grandi progetti. Sono
riuscito, dopo grandi studi e architetture a chiudere il cerchio del mio
grande disegno. Avevi ragione. Serviva metterci il dovuto. Era importante.
Per noi due. Comunque ho messo in moto tutti i complicati meccanismi che
regolano i flussi neurali del mio liso cervello e sono arrivato ad una
conclusione. Una grande conclusione. Ammetto che non è stato facile per
nulla. Anzi devo riconoscere che ad un certo punto ho persino riflettuto
sulla possibilità di rinunciare. Comunque ce l'ho fatta. "Da grandi poteri derivano grandi
responsabilità". Ma non voglio vantarmi, non fraintendermi. Voglio
solo dirti che non ho potuto tirarmi indietro. Pensa che addirittura i miei
tratti somatici si sono modificati per il grande sforzo. La mia fronte si è
corrugata in maniera irreversibile. Il cuoio capelluto nella regione
temporale si è diradato per eccesso di “riflessioni grattate”. I miei occhi
sembrano essere entrati nella testa lasciando spazio a due enormi occhiaie da
pensiero. La barba sembra quella di un Ovibos
moschatus rimasto inguaiato su un iceberg di deriva artica a riflettere
sulla sua complicata condizione. La mia casa sembra un campo di guerra. Ho i
vestiti sudici. I pesci rossi mi supplicano di amarli un po' di più. Il
telefono si è rotto e la mia televisione ha perduto i colori. Una vera
battaglia che da giorni ha occupato il mio orologio senza darmi un'ora per
riuscire a respirare. Pensa che la signora del piano di fronte ha persino
pensato che fossi caduto dentro il cesso. Finestre socchiuse 24 ore al
giorno. Tutto per riuscire a pensare meglio. A proposito, non ricordo di cosa ti
stavo parlando. Non importa, sicuramente non è niente di importante.
Altrimenti me ne sarei ricordato. Comunque se mi torna in mente te lo dico
quando ripassi la prossima volta. Il
soldato dell'amore Un pomeriggio pieno di noia. Un
pomeriggio segnato dalla quasi totale assenza di attività cerebrale. Un
pomeriggio di implacabile rompimento di palle, intese nel senso dei coglioni.
Un pomeriggio caldo, in un orario inutile, né tardi né presto. Un orario
senza nobiltà. Un'ora assolutamente anonima. Le 15.31. Un battito di orologio
che andrebbe cancellato per vilipendio agli orari sacri. Come le 12.00, le
18.00, le 0.00, le 6.30. Le 20 meno un quarto. Le 21. Orari buoni. Orari che
hanno qualcosa da dire. Così, mentre mi si accumulano gli oneri lavorativi,
ho deciso di scriverti questa lettera. Penso che la finirò alle 16 meno un
quarto. Un orario buono. Storicamente irrilevante ma comunque buono. Volevo chiederti perchè hai deciso di
cambiare emisfero. Ho capito che l'hai fatto per fuggire alla noia ma non è
che uno se si annoia deve per forza di cose risolvere la questione cambiando
emisfero. Mi sembra francamente eccessivo. A volte basta bersi una buona
bibita. Oppure fumarsi una sigaretta. Magari con la scusa di aver finito il
pacchetto andarsele a prendere al tabacchino in Via San Francesco. Anche se
hai smesso di fumare. Aiuta anche il caffé. Oppure si può tentare con una
telefonata a qualche amico che capisce cosa si prova a combattere contro la
noia. Esatto. Combattere. Perchè vedi, chi fugge dalla noia è come se
abbandona il campo di battaglia. Un disertore. Un bastardo. Un codardo. Un
vigliacco che risolve il problema del nemico semplicemente spostandosi nel
campo adiacente al campo di guerra. Sia ben chiaro, non intendo dire che sei
codarda, bastarda, disertrice e vigliacca, intendo semplicemente che non vedo
la necessità di vantarsi così tanto di aver cambiato emisfero, rinfacciandomi
che sono un coglione semplicemente perchè resto a combattere la noia. È come
se i disertori, si mettessero a fianco del campo di guerra e iniziassero a
spernacchiarmi mentre sto cercando di mettere la baionetta al mio Fucile Automatico Leggero dentro una
trincea piena di merda. Li sento. Li sento urlare "sei un pirla,
coglione, noi stiamo qui a godercela e le bombe non ci arriveranno mai".
"Bravo". Nel senso spregiativo del termine ovviamente. Assurdo.
Tutto completamente assurdo. Potevi prenderti un aereo e farti semplicemente
un viaggio di un mesetto. Una diserzione temporanea alla corte militare pesa
meno di una diserzione a tempo indeterminato. Io queste cose le so. Ti risolvono
il mezzo tentativo di tradimento con un semplice soggiorno di rigore nella
polveriera di Fortezza. Una settimana. Al massimo 10 giorni. “Chi di noia colpisce di noia perisce,
anzi, morisce”. Sacre leggi dell'esercito che si possono applicare anche
alla vita in generale. Comunque adesso sono le 16.45. Ciao.
Fammi sapere se fra qualche mese decidi di cambiare emisfero e ritornare qui.
Io ti aspetto, con una buona scorta di bombe a mano (le ho rubate a
Fortezza). Francesca Ti scrivo solo ora perché anche se per
lungo tempo non ho avuto niente da fare. Non lo so perché non ti ho scritto
prima. Non credo che sia perché mi sono dimenticato di farlo. Forse è solo
perché per un lunghissimo periodo, non sono mai riuscito a mettere in fila
tre parole consecutive. Tre parole che avessero senso. Come ad esempio “cosa mi accade”, “che sole oggi … alta pressione fastidiosa”, “mi manca l'aria”, “ascoltiamoci questo disco”, “bella partita ieri”, ecc. Comunque proprio ieri stavo ragionando
sulla tua idea di mettere un po' d'orine alla mia vita. Mi chiedevo
soprattutto se l'unità di misura per questo ordine di cui parli la decidi tu.
Ti dico questa cosa perché secondo i miei parametri, la mia vita mi sembra
già anche troppo ordinata. Si è vero, sono pettinato come i cani, la mia
macchina fa schifo di fuori e dentro è ancora peggio, non compro una camicia
da quasi 5 anni, continuo a spendere i miei risparmi in dischi che quasi non
ascolto nemmeno e in bottiglie di whisky che minacciano tutti i giorni la mia
già flebile forza d'animo, ho accumulato in casa una serie infinita di
oggetti inutili tanto che quasi non c'è spazio nemmeno per mangiare, continuo
a frequentare eterni bambini che passano il loro tempo libero a parlare di
minchiate, mi sento come i libri che si mettono nell'angolo più stronzo del
mobile e non verranno mai più nemmeno notati. Insomma tutta una serie di cose
così che però io chiamo “la mia vita”.
Per questo motivo, forse, il vero
motivo per cui ti scrivo è che pensavo sia giunto invece il momento di mettere
ordine alla tua vita. Sì, nella tua, non nella mia. So che hai molti impegni
e che molti di questi sono impegni che ti impegnano tantissimo. So che non
riesci a trovare nemmeno un minuto per un pranzo da cristiani e ti nutri di
tramezzini e spremute fagocitati in coda al banco di un launchbar. So che non
trovi quasi più nemmeno quell'ora settimanale per andare dal parrucchiere.
Nemmeno quella sacra oretta per i tuoi miracolosi sali da bagno. Mi hanno
anche detto che non vai più nemmeno al corso di salsa. I tuoi cari amici del
circolo Crisalide mi hanno detto
che hai detto che per un lungo periodo ti prendevi una pausa di riflessione
per gravi impegni di lavoro. Io non voglio importi la mia unità di misura ma
credo che stai lavorando davvero troppo. Trovati un po' di spazio per te.
Lascia perdere le riunioni aziendali. Lascia perdere i pranzi di lavoro e le
convention per la promozione del marketing di multilivello. Lascia stare i
summit preorganizzativi delle fiere del biotecnologico. Lascia stare i corsi
di dizione. Cosa vuoi che sia un accento pronunciato al contrario. Io posso
anche fare a meno di te per un paio di giorni a settimana ma pensaci. Anzi
non pensarci nemmeno. Vaffanculo e basta. Primo
treno per Roma Trentuno dicembre. 1996. Ore sette.
Mattino. Neve al suolo. Molta. La sera prima niente. Strade difficili. Molto.
Per una volta che decido di andarmene via gli elementi si mettono contro di
me. Forse pensano che sia meglio che io resti in Camunia. Ritengono che il
mio contributo dev'essere qui. Dev'essere assolutamente qui. Indispensabile.
Chi può dirlo!? Se il tempo ha delle opinioni posso arrogarmi il diritto di
averne anche io. Il mio contributo qui non è assolutamente determinante.
Anzi, per niente. Comunque devo essere a Brescia entro le 8.30. Neve o non
neve. Parcheggio, costosissimo (quasi più della macchina), biglietto,
costosissimo (quasi più del viaggiatore), Nick
Raider e panchina. Binario 1. Treno. Posto a sedere. Pianura, collina,
Appennino, Roma. Stazione Termini. Arrivo previsto ore 14.00. Putelli viene a
prendermi in stazione. Direzione Frascati. Festa con amici. Soprattutto Mila.
Promessa al Ducolo. Lei non lo sa. Provvederò io stesso ad informarla.
Facile. Facile come farsi Sogni
e visioni Mi ero inventato tra i grandi
pensatori di questa metropoli pensante. Ero così ben allenato nella mia parte
da stronzo che quasi ci credevo da solo. Potevo ad esempio sostenere con
credibilità che il mio habitat ideale era la palla dei pesci rossi.
Soprattutto dopo lunghi mesi senza acqua nuova. Potevo addirittura
giustificarlo in una sorta di necessità di privazione volontaria di ossigeno.
Temporanea. Ad intermittenza. Ben controllata. Potevo anche affermare di
essere un asceta erudito che aveva scelto la solitudine e l'isolamento per
necessarie necessità di studio. Potevo infatti apertamente sostenere che il
mio principale obiettivo di oggi era il raggiungimento del terzo occhio.
Utilizzando la stessa pratica dei microsonni già usata da Leonardo da Vinci. Ero così ben allineato con lo stile di
quei luoghi e di quelle facce che quasi mi avrebbero creduto. Comunque si
parlava. Tanto. Si parlava e si parlava. E mentre loro si lanciavano in
argute e minuziose analisi sull'importanza del buddismo nella cucina
alternativa metropolitana io mi lanciavo in malandrine apologie
sull'importanza evocativa del Ben Nevis.
Loro capivano e io capivo che non avevano capito. Così si proseguiva
ascoltando Vivaldi e chiacchierando dell'uso del coriandolo e dello zenzero.
Si parlava dell'importanza di Berlino. Qualcuno alzò la mano verso l'alto
decantando di una Rosa fresca e
aulentissima. Qualcun altro parlava di Napoleone. Io mi cercai uno spazio
lirico tutto mio sostenendo che dopo approfonditi studi potevo apertamente
affermare la ferma necessità di rilettura del pessimismo cosmico del grande
poeta marchigiano Leopardi. Leggendo Il
passero solitario ne avevo infatti intuito un'astuta e ben celata ode
alla masturbazione. Una sorta di supremo ottimismo autoreverenziale.
L'ottimismo cosmico. Per farmi capire meglio ne diedi addirittura una
definizione proverbiale del tipo “amati
da solo se non ti ama nessuno” oppure “tutto o niente … ma se il prezzo è buono va bene anche una parte”
e altre cose così. Sostenni inoltre che a mio avviso il piccolo Giacomo
troppe volte si era chiuso nel suo studio a ricoprirsi di studi. Ne nacque
quindi in lui una sorta di maniacale devozione per quei felici prati
marchigiani e per quelle felici signore al lavoro nell'armonia quotidiana.
Cominciarono a sollevarsi nel mio pubblico i primi accesi risentimenti.
Proseguii non curante del nemico fino a sostenere apertamente che più volte
anche io nel mio studio matto e disperatissimo “soleo sentirmi un solingo augellin venuto a sera”. Dissi anche
che mi succedeva sempre più spesso. Era quasi per me una conseguenza naturale
della coltivazione maniacale dell'amena solitudine. Evidenziando che già altri prima di me
avevano “spernacchiato” queste conclusioni, venni presto accusato di essere
un coglione. Venni accusato da tutti. Una signora ben fornita e di rara
ricchezza, mi accusò inoltre di essere un povero depravato represso. Ella
puntualizzò che nel mio modo di propormi si nascondeva una rara forma di
repressione giovanile e puntualizzò altresì che in me si nascondeva una tanto
elevata quanto patetica “sindrome di
Cleopatra”. Non ribattei nulla di offensivo tralasciando inoltre quello
che realmente pensavo di lei e soprattutto del suo annoiato marito. Le dissi
anzi che aveva assolutamente ragione ma mi esclusero comunque da ogni
ulteriore confronto. Provai a rientrare nel gioco della
conversazione con altre argomentazioni come quella secondo cui in ogni essere
umano sono sempre insite le insidie della sua natura animale. Budda compreso.
Zenzero compreso. Provai anche con la mia teoria sulla regressione dell'Io
alla ricerca delle cose dimenticate nella speranza che non siano perdute. Non
funzionò nulla. Rimasi così con la mia solitudine a guardare dalla finestra i
binari della stazione centrale mentre le loro chiacchere diventavano sempre
meno udibili. Fino al silenzio. Fino ad accorgermi improvvisamente che il
naufragio in questo mare di silenzio, binari e solitudine mi era immensamente
dolce. Petra Ciao Petra. Faccio il militare, te lo
ripeto ogni volta. Anche se lo sai benissimo anche tu. Lo sai che odio
Bressanone. Se non vuoi più che il nostro amore duri ancora questi 4 mesi,
fai che duri almeno un giorno. Anzi, due ore. Anzi, anche meno. Vorrei però
chiederti di dire a tua madre di smettere di odiarmi. Quando mi insulta per
strada vedo la tua fotocopia da vecchia e non voglio avere una storia d'amore
con un crotalo ingrassato. Dille che non ho scelto io di stare in questo
posto. Mi hanno obbligato. Ho provato anche a far finta di non sentire quando
mi hanno chiamato ma dopo due giorni sono arrivati i gendarmi a prelevarmi.
Mio padre gli ha detto addirittura che non dovevano lasciarmi più tornare.
Gli ha detto di darmi in testa col badile. Ha scritto sul verbale di arresto
“se non bastano le mani usate il
bastone”. Perché mi odiano tutti!? Io vorrei
solo essere felice. Non chiedo niente a nessuno, mi arrangio da solo a guadagnarmi
la mia felicità. Comunque ti ripeto: “dì
a quella stronza di tua madre che mi ha rotto i coglioni. Lei e i suoi vecchi
bavosi miliardari divorziati che gli ronzano intorno mentre spende milioni
per comprare sandali che solo un imbecille potrebbe portare. Mi fanno schifo”.
Fallo tu, ti prego. Sai che sono una persona gentile e nemmeno una volta mi
sono mai permesso di dirgli di andarsene affanculo. Ho provato anche a
sorridere ma mi hanno dato del cretino. L'ultima volta che ho suonato il tuo
campanello nella tua strasse residenziale, mi ha mandato contro i cani. A
Bressanone, neanche con i cani riesco a farmi capire. I cani mi amano in ogni
angolo del mondo ma quelli di tua madre sono alieni. Sono cani dello spazio
che solo tua madre può riuscire a controllare. Anzi anche lei è un alieno.
Anzi, anche tu. Anzi, tutti in questo posto sono alieni. Direi quindi che
forse è meglio non amarsi nemmeno per un minuto. Mi basta solo un bacio di
dieci secondi. Un bacio che comprenda una mano sul culo e una dentro il tuo
vestito. Poi basta. Francamente, basta. Ciao. Io
convivo bene con la mia pazzia Ho la testa che procede a retromarcia.
Sarà mica che ho imboccato la tangenziale al contrario …? Rosa
(AUTOCENSURA) *Chi fosse interessato può richiederla
a baccoilmatto@libero.it Non
resta più niente da dire La musica soffre. Soffre davvero. I
motivi sono davvero molteplici e spesso sono tra loro concatenati. Potremmo
star qui a discutere per intere settimane quali siano le diverse ragioni di
tutto questo ma in cuor mio credo che sia opportuno rilevare una prima, e
forse unica, evidente evidenza: la maggior colpa di tutto questo è dei
mestieranti come Ducoli. Questi domenicali della chitarra infatti, hanno
riempito gli scaffali della musica con i loro dischi artigianali, mal
confezionati e approssimativi nell'intento. Mai incisivi. Dischi a corta
scadenza. Dischi da sottobanco che si arrogano il diritto di starsene negli
scaffali delle cose sane. Questa miriade di piccoli Ducoli, che si sono
moltiplicati come fanno gli organismi monocellulari per semplice duplicazione
di DNA e mitocondri, hanno invaso i discobar di mezza Italia. Ognuno con il
suo nuovo dischetto da proporre agli amici, parenti e gentili avventori
disposti a scambiare un prodotto a scadenza breve con una questua a prezzo
variabile. Grafiche sbagliate, parolacce e addirittura bestemmie nei
libricini di accompagnamento, mixaggi approssimativi, equalizzazioni suicide,
titoli improbabili, ritornelli in economia di scala, pianisti amici, fiati
finti e cori fuori luogo. Una vera e propria malattia. Una vera e propria
epidemia. Praticamente inaccettabili. Una sceneggiata di eterni debuttanti
senza sponsor. Senza padrini e orfani di madrine. Senza parentele degne di
essere notate. Dei debuttanti sconosciuti e squattrinati senza niente di
rilevante da dire. Una sorta di enorme sceneggiata della canzone. Sì, proprio
come le sceneggiate televisive dove accanto a inventati avvocati,
carabinieri, vigilantes, vigili del fuoco, vigili delle macchine, ufficiali
sanitari, sorelle di clausura, papi e preti investigatori, ci sono anche
inventati rockettari, jazzettari, cantautorettari, bluesettari,
confidenzialettari, rappettari, reaggettari e sinfonettari che non ne
azzeccano una giusta. Serve una nuova era e la nuova era comincia
dalla fine di Ducoli. Il resto lo facciamo finire a cascata. Per le
sceneggiate televisive, vedremo. Ubriachezza
molesta (AUTOCENSURA) *Chi fosse interessato può richiederla
a baccoilmatto@libero.it Ridendo
e baciando “Tutto
è un po' come cercare nelle bancarelle dei mercatini della vecchia roba usata”.
Una bella metafora vero? Non vi sembra? Che ne dite? Siete d'accordo? Pensare
anche voi che sia esattamente così? Certo. Immaginatevi di rovistare in mezzo
a vecchie cartoline del "900" inviate alla zia zitella dalle prime
stazioni balneari o dai passi delle Dolomiti. Di esaminare i saponi di vecchi
alberghi avvolti in preziosa carta cerata. Di scuriosare tra cartelli di
vecchi bordelli con le tariffe delle Signore. Di toccare altre cianfrusaglie
di vita come le boccette delle acque di colonia, le scatole dei fiammiferi
dei night di Parigi, le edizioni maltenute dei vinili de La Voce del Padrone, i beauty per uomo con cerniera arrugginita,
completi di pennello in setole di suino, rasoio e pinza per i peli del naso e
delle orecchie; poi ci sono i cavallini in vetro di murano, rigorosamente
senza coda o senza uno dei due orecchi, le vecchie macchine fotografiche, i
posacenere in ottone con le battaglie napoleoniche in bassorilievo, grosse
biglie di marmo colorato, degli strani strumenti di precisione per la
navigazione marina (assolutamente indispensabili per arredare le case
alpine), alcune sgualcite e
stropicciate riviste di gossip degli anni sessanta, vecchi numeri di
quattroruote e guide del Touring Club Italiano, ecc. Tutto è esattamente così. Vi piace
questa metafora della nostra vita? Un vita in cui ci trova a rovistare tutte
queste vecchie cianfrusaglie che hanno sempre un buon sapore? Che ti
catturano con il “gentile” passato che si portano dentro e te lo fanno
proprio assaporare? Il vecchio che ti fà sentire di nuovo”? Tutto è proprio
esattamente così. E così, tu ti vedi già lì che ti radi con rasoio e pennello
(anche le donne ...), in un albergo parigino, con disco di Shubert, in
compagnia di una signora che si passa l'acqua di colonia dietro il collo e ti
sorride dolcemente. Ma poi qualcosa si rompe. I tuoi pensieri, sicuri e ben
avviati nei territori della gentilezza, vengono subito interrotti dalla
vecchia avida e sdentata della bancarella che ti spara i prezzi come
proiettili traccianti. Certo, perché tu gia ti assaporavi le cartoline a 100
lire l'una. Il beauty a 1700 lire. Fiammiferi di Pigalle a 75 lire. Cartelli
in latta delle trattorie a 2.750 lire (3.500 quello grande). Niente da fare.
La vecchia spara: Cartoline, 1 Euro, profumi, 5 Euro, fiammiferi, 1 Euro,
ecc. La metafora finale di tutto questo?
Non la so nemmeno io. Non lo so, ve lo giuro. Mi sembrava semplicemente un
buon inizio fantasticare con una frase del tipo "tutto è un po' come cercare nelle bancarelle dei mercatini della
vecchia roba usata". Forse volevo solo parlarvi dei reinnamoramenti.
In effetti la metafora delle bancarelle, credo che sia una vera puttanata.
Forse l'ho messa lì solo per ricordarvi che l'amore torna sempre. Rievocando
le stesse sensazioni di una volta ma portandosi dietro un prezzo aggiornato.
Ma questo forse lo sapete già. Perfetta Una bambina con un Ukulele. Un'Ukulady. Per Dio. Ecco cosa mi è rimasto
in testa dall'ultima volta che ho battuto la testa nel palo. Mi sembra di
ricordare che ero lì che ti stavo ascoltando e che all'improvviso devo
essermi abbattuto sul palo più alto. Ricordo che avevo in tasca due soldi di
un lavoro rimasto pagato poco ma quanto serve per venire in città.
Sufficienti per prendere il vecchio carretto e scendere fino alla grande
città. In quel posto nero. Più nero del culo di uno scarabeo. Ricordo che
incollati vicino alla porta di ferro ci stavano grandi cartelli con la tua
figura disegnata dentro. Avevi una giacca riempita di fiori e dentro alla
giacca si poteva appena vedere quello che era meraviglioso immaginare. Ricordo che mi sono fermato a
guardare e ti avevano messo degli occhi più belli di quelli che mi sembrava
di ricordare che avevi. Suonavi la tua chitarrina e guardavi lontano le
stelle. Ricordo che io mi sentivo un cane finito per strada per distrazione e
che avrei dovuto accorgermi prima che gli occhi che guardano in alto ce li
hai sempre avuti.. Ricordo di averci pensato un momento e poi di aver chiesto
di entrare. Da dentro sentivo la voce di un canto d'amore. Era la tua voce
che mi stava chiamando. Ricordo di aver insistito. Ho detto che stavi
cantando per me. Ho detto che eri la mia unica luce. L'unica luce di questa
città scura. Ho detto che loro non avrebbero comunque capito. Ho detto che
erano tutti dei grossi bifolchi e che nessuno di loro ti avrebbe capita
davvero. Ho detto che non avevo nessuna intenzione di fare la strada al
contrario e ritornarmene a casa. Ho detto altre cose ma poi non ricordo più
nulla. Quando ho riaperto i miei occhi la città era ancora più nera di come
mi sembrava di ricordare. Ero steso sul marciapiede con i segni del divieto
d'ingresso stampati tutti sulla mia faccia e sulle mie ossa. Tutte le luci si
erano spente e la tua voce probabilmente era gia finita in qualche altro
disegno. Ho ripreso il carretto e adesso sto rifacendo la strada al
contrario. Io
ti sparerò per primo Io sono nero e blu. Appartengo a
quella categoria di persone che non fanno differenza tra i colori del giorno
e della notte. Persone che conoscono l'esatta differenza tra due diverse
tonalità e ne capiscono la grazia dell'esatta convivenza. Il colore delle
tinte nere e delle tinte blu. Il nerazzurro. Il colore perfetto. Il colore
che protegge chi sogna ad ogni ora. Il colore di una nota storta del Gordon.
Il colore di un passaggio di notturno imperfetto di Van Gogh. Di un velluto
prezioso. Di una goccia sublime di acqua di malto osservata in controluce con
il cielo. Il colore degli oceani. Dei fiumi. Delle nuvole che porteranno la
pioggia. Il colore del mio capitano argentino. Io sono nero e blu. Ecco,
tutto qui. Il
primo ballo Ci sono canzoni per ognuno dei momenti
dell'amore. Il primo ballo, la pensata, la sognata, l'incontrata, la prima
volta, il giorno, la notte, l'inizio, la fine, il durante, il prima, il dopo,
il prima e il dopo, l'autunno, l'inverno, l'estate, la primavera, i giardini,
il parco, i continenti, i paesi, le strade, i selciati, l'autogrill, la
fabbrica, l'auto, il cortile, il fienile, natale, carnevale, mare, pianura,
montagna, collina, Roma, Parigi, Lugano, Prevért Ieri il cane mi ha chiesto se tornavi.
Gli ho detto di sì e si è subito rimesso tranquillo. Mi ha chiesto quando e
gli ho detto “presto”. Si è tranquillizzato definitivamente. Adesso dorme
sotto alla mia scrivania. Come sempre. Dorme da quasi quindici anni. Si
sveglia solo per mangiare e per pisciare. Qualche volta per leggere il
giornale o per farmi delle grandi domande sul futuro. A volte dipinge. Altre
volte scrive poesie femministe. Altre volte facciamo dei grandi discorsi.
Delle attente escursioni nel dialogo analitico. In senso stretto e in senso
lato. L'altro ieri ad esempio mi ha chiesto perché l'uomo ha cinque dita
quando per suonare la chitarra gliene bastano quattro. Gli ho spiegato che
una mano ne usa comunque cinque e non è detto che sia la destra o la
sinistra; abbiamo quasi pattuito “cinque sempre e comunque con possibilità di
un dito inoperoso”. Gli ho inoltre spiegato che molti chitarristi, per
evitare l'atrofizzazione del dito inutilizzato spesso lo usano come tasto per
il sol (o per il fa, qualche volta). Il cane mi ha guardato dicendo che
l'uomo vede sempre le cose come più gli pare. Non c'è stato nessun verso di
farglielo capire. Soprattutto quando mi ha rinfacciato che Django Reinart suonava
con due sole dita. Peraltro meglio di Clapton che comunque spesso ne usa solo
tre. Niente da fare i cani sanno sempre tutto. Soprattutto se l'interlocutore
è un ciarlatano come me. Ci siamo fatti il caffè e poi si è rimessa sotto la
scrivania a dormire. Ad aspettare la sua prossima pisciatina o la merenda.
L'altro ieri invece, aggrediti dall'afa estiva, abbiamo parlato della
necessità di trovare un sistema di ventilazione dei settori della casa più
vicino ai pavimenti. Io sostenevo che non ce n'era alcuna urgenza dal momento
che comunque il pavimento è più fresco del soffitto e quindi, almeno per lei,
il problema era meno grave che per me. Lei ha subito ribattuto che la
questione non dev'essere intesa in termini di temperatura ma di tasso di
umidità. Diceva che essendo il pavimento più umido del soffitto il calore
percepito è comunque più alto nonostante il minore livello di temperatura.
Forse aveva ancora una volta ragione. Abbiamo quindi deciso, di comune
accordo, di provare a giorni alterni con un semplice ventilatorino per capire
meglio cosa fare. Lo stesso giorno abbiamo discusso per mezz'ora sul fatto
che se uno afferma “ho appeso il
Crocifisso al chiodo” non vuole per forza di cose dire che ha perso la
fede. La settimana prima invece abbiamo parlato di moltissime altre cose ma
alcune le ho dimenticate. Erano cose di poco conto. Tipo la necessità di
provvedere ad effettuare la richiesta per gli addebiti automatici delle
bollette della luce, del gas e del telefono. Oppure sulla possibilità di
prendere un pezzo di orto sui terrazzi del monte. La verdura infatti ha
raggiunto dei prezzi insostenibili con questo caldo e con questa siccità. È
un'idea del cane e forse ha ragione. Anche se vuole solo contribuire alla
scelta del terreno e lasciare ai possessori di cinque dita per mano l'onore
della coltivazione diretta. Comunque, a parte questi piccoli
dettagli, in caso decidessi di tornare abbiamo evidenziato che un giusto
compromesso potrebbe essere concederti di arredare un pezzo della casa.
Potresti anche scegliere quale. Inoltre pensiamo che tu sia più attenta di
noi nella scelta delle cose da mettere nel frigorifero e altre cose così.
Ciao. Ti aspettiamo. Giovanna Io mi chiamo Armando. Nessuno è mai
riuscito a spiegarmi perché. Neanche mia madre. Non uno zio. Nessun nonno. Un
bisnonno. Un vecchio parente emigrato in Argentina. Nessun condottiero nella
rivoluzione messicana. Niente. Nemmeno il riferimento calcistico, peraltro da
me assolutamente ben considerato, al “comandante” della grande Inter. Niente.
Non lo ha mai saputo nessuno. Non importa. Almeno per me che considero questo
nome quasi con più amore del mio nome più “tradizionalmente accettato” (nel
senso della scure ...). Comunque non importava a nessuno
questa cosa. Tuttavia, un giorno, il comandante di un'impeccabile commissione
medica, durante il mio “terzo grado morale”, mi accusò di avere un secondo
nome. Guai! È come se avessi avuto una mitragliatrice Gatlin nascosta tra le colline e pronta a far fuoco sui
governativi. “Non sono accettati più
nomi di quelli che servono e un nome basta e avanza. Sovversivo. Sovversivo
Armando. Ti devi rifare una vita daccapo e il primo passo è cancellare la tua
vecchia anagrafe e rimetterti in ordine con le regole. Un nome e un cognome.
Il resto puoi tenerli per te”. Altro che calci in culo agli austriaci.
Sono un sovversivo di bassa lega. Un filobolscevico da bocciofila. Un
dilettante da curva. Un casinista da capodanno. Un individuo malvagio incline
alla devastazione. Un soggetto pericoloso, devastato dai derivati del luppolo
e schiavo della bighelloneria. Servo della non curanza. Bestemmiatore
impegnato. Stupido diseducativo. Un criminale che va controllato e punito.
Interrogato e siringato. Rieducato e riabilitato. Privato dell’abusivo
secondo nome. Ero infatti l’Armando ma forse mi
stavo eccessivamente armando. Arrivederci
ancora Ore 22.00. Ferragosto nel pieno delle
sue puttanate. La piazza, le camicie con le maniche corte, la “musica e
balli”, le prove per lo spettacolo pirotecnico, la pesca di beneficenza, i
premi del palio, i servi del sindaco, le vecchie rimbambite e la noia. Tutto
uguale. Tranne che in un angolo di 6 metriquadri collocato Lulù “Alunno
dotato di intelligenza e di entusiasmo. È molto vivace. Si impegna
notevolmente per stare attento e fermo. Lo interessano tutte le attività
scolastiche, specialmente quelle di gruppo. Conosce, ed applica alle varie
situazioni, i concetti fondamentali della matematica in relazione al problema
svolto”. Giovanni Rivetta, 7 giugno 1978. Tre
linee confuse Perché hanno riempito la pianura di
rotonde alla francese? Perché la gente della pianura ha bisogno di sentirsi
“francese”? Forse per una sorta di malinconia cinematografica per Jean Gabin?
Forse perché bevono Ricard o Yves Saint Lorent? Forse perché in pianura
tifano tutti Juventus? Non lo so. Forse è solo colpa dei geometri e delle
loro innovative soluzioni tecniche. Fra qualche anno si rinnoveranno ancora e
progetteranno le “intrecciate alla danese”?
Chi può dirlo? Pazienza. Tutte domande che non avranno mai una
risposta. Comunque questo sarebbe il male
minore. Sapendo che le cose stanno così la smetti anche di farti domande
inutili. Rimane tuttavia un atroce “perché?”. Uno di quei perché che non ti
lasciano tregua anche quando la smetti di cercare risposte. Perché in mezzo
alle rotonde ci piazzano sempre apocalittiche ed incognite strutture!?
Perché? Perché annunciare che stai entrando in un altro paesello mettendo in
mezzo alla rotonda d’ingresso una schifezza monolitica? Lasciamo perdere
quelle firmate da architetti o scultori quotati, amici dell'amministrazione
in carica; prendiamo anche solo quelle anonime. Veri e propri monumenti al
sadismo della fantasia. Vi sfido a trovarne una riuscita. Del resto
basterebbe piantare un semplice albero ma è troppo facile. Troppo banale la
sua sobrietà, l’ombra, l’accoglienza, l’idea di ossigeno e pulizia, i nidi di
passere, i fiori, le foglie, ecc. Tutto troppo facile e banale. Ti rimane
solo il fatto che porsi questi dilemmi non fa altro che aggiungere orrore ai
tuoi dubbi. Soprattutto se tornando a casa sbronzo finisci a sbattere contro
la magnifica “opera della fantasia”. Se non ci fosse “fantasia” potresti
anche cavartela semplicemente attraversando la rotonda a cento all'ora. Solo
qualche scossone e qualche ammortizzatore spompato ma niente di più. Invece,
grazie alla fantasia, può anche capitarti di andare a schiantarti contro un
monolito decorato che ti annuncia che sei nella città dell'olio, del vino,
della mozzarella di gallina, della vinaccia di fragola, del fagiolo saraceno,
ecc. Nella stessa città che prima di farti assaggiare la sua meravigliosa
accoglienza ti aliena e ti uccide con migliaia di metricubi di cemento e di
merda. Dieci
metri sotto la città Lo stipendista ci odia, il tartarista
ci odia, il quotidianista ci odia, il carrozzierista ci odia, il
carabinierista ci odia, il droghista ci odia, il trenista ci odia, il
banchista ci odia, il parrucchierista ci odia, il fornista ci odia, la
professorista ci odia, il sermonista ci odia, il cervellista ci odia, il
pittorista ci odia, ecc. Speriamo che almeno il barista ci ami. Anche
io non posso entrare Certamente occorre rilavare che sono
stato bravo. Occorre davvero ammetterlo, questa volta. Senza false modestie,
senza moralismi da umile personaggio timido, senza frasi scontate, senza
sconti di pena. Senza. Del resto mi ero preparato fino a farmi uscire il
sangue dalle dita e dall’ugola. Sangue copioso. Scuro. Nero. Nero dalla nera
fatica. Un chiaro segnale. Il chiaro segnale della mia dedizione, della mia
costanza e perseveranza, della mia devozione, della mia dichiarazione d'amore
nei confronti di quello che faccio. Un segnale che i tempi adesso sono
davvero maturi. Senza presunzione. Senza campanilismo da bar sport. Senza
rubare niente a nessuno. Ribadisco dunque che questa volta sono stato davvero
bravo. Voi, però, tralasciate il fatto che tutti gli altri sono stati più
bravi di me e per una volta, almeno, vedetela dal mio punto di vista. Ingrati
e bastardi. Alcune
cose inutili Se vuoi posso raccontarti che non ho
niente da raccontare. La
fiera Il sindaco fiero annuncia la fiera.
Anzi …. (AUTOCENSURA) *Chi fosse interessato può richiederla
a baccoilmatto@libero.it Sgangherata Se alla fine della tua grande serata
ti accorgi che piove. Se alla fine della tua grande vittoria ti accorgi che
tutto si chiude. Se alla fine della tua emozionante avventura ti accorgi che
sei ubriaco. Devi solo fare attenzione a tornare perché non è ancora finita.
Le rane stanno facendo il loro concerto d'amore. Devi fare attenzione. Devi
stare a sentire. Devi stare a guardare. Devi solo imparare. Cialtrone. Berlicche La competizione consiste nel camminare
per tutto il binario in equilibrio sul ferro e non toccare mai la massicciata
di calcare. Vince chi riesce ad arrivare alla stazione più lontana. Non vale
fermarsi. Se passa la littorina si deve ricominciare daccapo. Quindi è meglio
farlo di notte. Quando i treni sono pochi. Non sono ammesse luci che riducano
l'incognita del burrone quindi è meglio farlo quando c'è la luna piena. Anche
se ci sono i lupi mannari e i metronotte. Non sono ammessi rifornimenti di
nessun tipo. Quindi è meglio fare il pieno prima di partire. Vinca il
migliore. Un
sabato felice L'obbligo alla felicità è una delle
peggiori condanne che accompagnano l'essere umano durante la sua vita
terrena. Non ritengo peraltro che esista una vita ultraterrena e quindi credo
sia opportuno risolvere la questione dell'obbligo alla felicità in questa
vita. Gli elementi che occorre puntualizzare per conoscere meglio il
problema, e quindi formularne un'adeguata linea di risoluzione, sono
fondamentalmente due: “avere molti
soldi permette di risolvere molte cose”, “non avere soldi non è una condizione necessaria per il
soddisfacimento dei nostri bisogni”. Detto questo, pensate davvero che ho
in mente di stare qui a spiegarvi cosa significa avere soldi o non averne!?
No, ho fatto questa introduzione semplicemente per distrarvi dall'argomento
vero del sabato felice. Unicamente legato alla presenza di ballerine. Sì, di
ballerine. Il resto sono cazzate. Se poi avete anche un sacco di soldi,
sicuramente è meglio. Nina Io appartengo alla strada. Alla mia
strada. Ovunque si trovi, anche dentro a una casa. Graniti levigati, polveri,
sassi, asfalti e catrami. Una strada su acqua, su ferro, su aria.
Movimentazione a spinta, a gasolio, a pedale, a piuma, a pensiero.
Centimetri, metri, chilometri. Distanze equatoriali. Nord. Sud. Di là e di
qua. Traiettorie circolari, giri quadrati attorno a una stanza. Maledetta
Africa Se pensi davvero di essere un poeta/monaco/samurai giapponese io ci
credo. Ma quando ti sento dire “la quercia non sembra curarsi dei ciliegi in
fiore” io non capisco. Intendi nel senso dei fiori o nel senso dei ciliegi!? Maligno “Per
l'Artista Ducoli. Ho ascoltato il tuo CD; la musica è allettante, le parole
non altrettanto perchè rivelano malinconia e tristezza. Ad un certo punto si
sente la voce di una persona ossessa che parla con le parole di Satana. Ad un
primo ascolto sembra pazza ma non lo è. Questa persona che nella sua vita
precedente faceva la cantante ora non può più cantare perchè Satana suo padre
la tiene imprigionata; chiede il tuo nome di battesimo e ti vuole dicendo
queste parole “presto sei il mio rampollo”. Non scherzare su questo incontro
e quindi con Satana che è solo capace di odiarci, ma rivolgiti ad un
sacerdote; anche nelle tue canzoni dici di non credere al diavolo, tu l'hai
incontrato dentro a questa persona ed ha parlato come solo lui può parlare.
Mettiti sulla difensiva, fai un pellegrinaggio nei luoghi mariani per es. a
Medjugorie. Lasciati attirare dall'amore di Dio che ti ama come padre, come
madre e ti tiene tatuato sulle sue mani. Il padre misericordioso ti cerca,
buttati nel suo abbraccio di amore, pace e perdono; solo lì scoprirai la pace
del cuore e la vera gioia. Con l'augurio che tu ti possa ritrovare in questo
abbraccio benedicente con il padre espresso dall'artista Rembrandt. Ciao, la
mamma di R.” L'alluvione (AUTOCENSURA) *Chi fosse interessato può richiederla
a baccoilmatto@libero.it Delirio
ordinario Sei milioni di gocce che stanno
cadendo. Tutte insieme. Tutte in una volta sola. Chissà se sono tante o
poche. Il mio vaso comunque può contenerne ancora una sola. Non è una bella
situazione. Si tratta di un vero proprio diluvio. Anzi di un diluvio
universale. Proprio oggi. Nel giorno del mio ultimo delirio. Del mio
universale delirio. Intendiamoci, niente avrebbe connotazioni così fortemente
apocalittiche se non che ho perso il cappello. Può anche andare in malora
ogni cosa ma non avere un cappello durante il diluvio non è una buona cosa.
Soprattutto in città. Non importano il cane, la macchina, la lettera d'amore,
il livello del Po e la fine della partita. Il cappello non c'è più e il mio
vaso ha raggiunto il suo livello di guardia. Tutto qui. Niente meteorologia e
bilanci di pressioni, niente anticicloni o isobare contrarie. Niente sacche
di aria umida in arrivo dagli oceani. Niente di tutto questo. Si tratta solo
di sfortuna. Il mio cappello. Che sfortuna. Spero soltanto di averlo perso da
qualche parte tra queste mura di palazzi e non di averlo più semplicemente
dimenticato a casa tua. So che in questo caso sarebbe troppo complicato
suonarti il campanello per chiederti di farmi controllare sotto al tuo
divano. Sarebbe un vero problema. Quasi peggio del diluvio. Spero quindi di
trovarlo qui vicino. Prima che quella maledetta goccia vada dritta nel mio vaso.
Spero di trovarlo qui di fuori. Sarebbe meglio. Non ridurrebbe anche stavolta
le mie cose personali, ad una semplice ricerca di oggetti personali. Lenta (AUTOCENSURA) *Chi fosse interessato può richiederla
a baccoilmatto@libero.it A
proposito di questi giorni L'estate aveva un altro sapore. Un
sapore completamente diverso. Non dico migliore, non sono un nostalgico, dico
solo che il sapore era diverso: ore lunghe di chiaro che sembravano infinite,
ginocchia pizzicate dall'erba alta, il pan d'aceto, la pesca al verone, Come ogni estate d'infanzia ci stavano
anche grandi progetti e grandi avventure. Il mio nuovo fucile ad elastico
aveva 4 colpi in canna. 4 elastici verdi delle cassette di frutta che mi
mettevano in grande evidenza nei confronti dei miei compari attrezzati ancora
“alla vecchia”. Lucertole avvisate e terrorizzate. C'erano anche il nuovo
carretto a cuscinetti a sfera e il progetto per la costruzione della nostra
imbarcazione da fiume. Io e Gabriele piantavamo i chiodi nel legno con dei
sassi mentre Carletto stava ancora a disegnare il suo progetto per
un'imbarcazione invincibile chiamata Competition.
Metteva paura già il disegno figuriamoci se fosse riuscito a raggiungere il
risultato finale. Dovevamo completare il nostro veliero d'acqua dolce al più
presto. La delusione immensa nel vederlo galleggiare a mezz'acqua fu minore
quando Carlo ci disse che la sua Competion
sarebbe rimasta un sogno irrealizzato. La maturazione dei frutteti ci
consentiva di modulare i nostri colpi e le nostre razzie a seconda delle
esigenze. Si iniziava a giugno con le fragole. Si finiva a settembre con le
pesche, le pere e l'uva di clinto. Anche ciliegie, amarene, albicocche,
prugne selvatiche, lamponi. Tutto equamente distribuito. Il Vecio Balurdo, il
Picì, la Piumèta, il Petulina, il temibile Jack, il Barbalùf. Tutti “grandi
nemici”. Padroni di immensi tesori. Vitamine sprecate nelle mani di quei
“vecchi rincitrulliti”. Non serviva conoscerli meglio per capire che erano
degli avidi cattivi. Bastava soltanto guardarli e sentirli parlare. Noi ci
battevamo più per loro che per noi. L'avidità conduce infatti alla solitudine
e starsene da soli in quelle estati era un vero suicidio. La nostra presenza era
per loro curativa. La costruzione di un arco richiedeva
conoscenze approfondite e preziose. Il nocciolo migliore è quello che cresce
sotto agli alberi alti. Basta non farsi trovare dal Burtulàs e i suoi
noccioli sono una garanzia di successo. Frecce, arco e opinel del mio
vecchio. Gabriele usava il podèt del Gianni. Flavio era attrezzato sempre con
artiglieria molto più pesante della nostra. Eros e Manuel erano giovani
apprendisti che facevano passi da giganti nell’arte della fabbricazione di
armi. Avevamo fabbricato anche un bilancino per riuscire a rubare le trote
del Feo Balota. Il più cattivo di tutti. Tanto era cattivo quanto buoni erano
quegli enormi pesci. Pièr una volta gli portò via anche tutte le uova dal
pollaio ma fu un'impresa davvero difficile saltare la rete senza romperle.
Poi c'era la sagra. Poi c'erano le bande. E i funghi. E così via. Tanti “e così via” che potrei stare
qui a raccontare migliaia di cose. Cose che ognuno di voi avrà vissuto nella
stessa identica maniera in qualsiasi altra parte del mondo. Non ho voluto
farlo per mettere avanti le mie esperienze d'infanzia rispetto alle vostre.
L'ho fatto solo per una terribile coincidenza. Infatti questi ricordi ieri
sono tutti tornati per ricordarmi di ricordarsi di loro. Di non dimenticarli
prima che qualcuno decida che non debbano esistere più. Un'amara coincidenza:
hanno abbattuto il nocciolo della Beatrici. Una pianta domestica che
apparteneva ai “bucanieri” di quelle estati. Era il palo del ritrovo e
l'oggetto di ondate cicliche di razzia che la spogliavano ogni volta fino
all'osso. E quella pianta ogni volta era pronta a perdonarci regalando alla
stagione successiva nuove e sempre più grandi noccioline. Quando il programma
delle nostre razzie non metteva sul piatto argomenti migliori, quella pianta
diventava subito l'oggetto dei nostri desideri. Aspettavamo la sera per
arrampicarci. Due bucanieri prendevano le noccioline e le buttavano sulla
strada dove gli altri le raccoglievano con cura. Spartizione del bottino e
grande abbuffata. Rischio altissimo di essere colti sul fatto. La finestra
della Beatrici era a meno di Quest'ultimo ricordo è tornato meravigliosamente
da me perché l'altro ieri, mentre passeggiavo per il viale osservando che
molte cose non avevano più niente di quelle estati, ho raccolto qualche
nocciolina caduta sulla strada. Ho raccolto tutte quelle cadute. 24
noccioline. Ne ho mangiate alcune e alcune le ho tenute per spedirle proprio
a quel “mona di un romano”. Senza metterci nessun biglietto, avevo deciso.
Solo per vedere che risposta mi dava. Sapevo che avrebbe capito. Invece oggi
ho deciso di inserire nella busta anche questa “nuvoletta”. Per questa triste
coincidenza: neanche il giorno dopo che ho ricordato quanto mi manca quella
pianta me l'hanno definitivamente portata via. Proprio nel momento in cui
raccogliere quelle noccioline sembrava quasi il modo migliore per chiedere
scusa a quei rami, dimenticati per oltre 20 anni. Una sorta di mea culpa,
sincero. Volevo riscattare la mia indifferenza nei 20 anni precedenti. Volevo
solo mostrare a quella pianta tutta la mia stima per averci allevato tutti.
Per averci allevato un po' meno mona di quello che saremmo stati senza di
lei. Così, proprio questa mattina, mentre abbattevano l'albero per la
costruzione dei box per i nuovi inquilini ho deciso di aggiungere questa
nuvoletta alla busta delle noccioline. Perché anche lui ha costruito tutta questa
storia con me. Vecchio ragazzo di Roma, niente ha più lo stesso sapore e
molte volte i sapori sono anche peggiori. Le noccioline. La strada. I nuovi
inquilini. L'estate 2006. Saperlo prima credo sia già un buon modo per essere
pronti quando riusciremo a far tornare tutte queste cose al loro vecchio
splendore o anche solo migliori di come le hanno ridotte adesso. Ciao Gabriele. Verrò presto a trovarti
a Roma. (Ps, 21 ottobre 2008; Ciao Manuel, ci
mancherai) Uomini
delle taverne Perché si tagliano le code ai cani? Me
lo chiedo spesso. Molti cani infatti hanno il triste destino della coda
tagliata. Neanche il tempo di uscire dal grembo della “lupa” che la coda
finisce nel secchio. Perché? Una volta ho addirittura pensato che fosse un
retaggio di qualche religione strana che attribuisce alla coda dei cani una
sorta di significato antropoderivato oppure che si creda che si tratti in
realtà di un secondo cordone ombelicale. Il taglio del primo cordone come
simbolo della nascita di una nuova vita indipendente e il taglio del secondo
cordone per essere sicuri di non aver tagliato quello sbagliato. Se non
capite non importa. Comunque non ci ho creduto più di tanto nemmeno io
stesso. Resta il fatto che molti cani appena nascono perdono la coda per mano
divina materializzatasi in una forbice affilata. Succede soprattutto ai cani
di piccola taglia. Come la mia Lulù. È una vera follia. I cani utilizzano la
coda per completare il loro linguaggio. È un crimine. È come tagliare la
lingua agli uomini, non capisco. È come se insieme al cordone ombelicale ci
tagliassero la lingua. Come se in una sorta di religione strana si pensi che
il taglio della lingua sia l'unico modo per impedire all'uomo di dire
cazzate. Comunque vi confesso che io stesso a volte non capisco quello che
dico. Ma non per questo ritengo che una buona soluzione sia quella di
tagliarmi la lingua. Resta il fatto che per un fatto unicamente estetico si
impedisce ai cani la possibilità di completare i loro messaggi in maniera
chiara e completa. Come se non fosse importante quello che hanno da dire o
addirittura come se non avessero niente da dire. “La bellezza prima di tutto. Il resto è un dettaglio”. Ho provato
ad analizzare la questione in migliaia di modi ma eviterò di annoiarvi oltre.
Volevo solo dirvi che il mio cane mi
accusa di essere stato io a tagliare la sua piccola coda. Da sempre. Anche se
non è stata colpa mia. Anche se non ho scelto io. Ho avuto quel cane già con
la coda tagliata. È così. E così, senza averne colpa, mi ritrovo accusato di
un crimine che non ho commesso. Io che ogni giorno provo rammarico per questo
e mi domando quante cose non riesce a
raccontarmi-chiedermi-affermarmi-urlarmi-ulularmi-cantarmi-sussurrarmi-ecc. Lei adesso è molto invecchiata e
sembra ancora più bisognosa di parlare. Mi osserva con un'aria di domanda.
Con la stessa aria malinconica di un romantico poeta latino invecchiato
durante una dittatura fascista. Con un'aria perduta. Con un'aria di accusa e
nello stesso tempo di rassegnazione. La stessa faccia che ha imparato ad
assumere per sopportare la mia piccola armonica stonata. Lei che mi ha sempre
odiato per quella inutile musica ma per amore mi ha sempre lasciato fare. Mi
strappa il cuore vederla così. Ora che la vecchiaia ha rallentato il suo
linguaggio la coda sarebbe preziosa. Niente da fare. Lei mi osserva come se
fossi stato io a tagliarle la coda. Le ho fatto più volte capire che per lei
provo solo amore e mai per nessuna ragione le avrei fatto una cosa così
cattiva. Niente da fare. Le ho detto anche che siamo comunque sempre riusciti
a trovare efficaci sistemi di dialogo. Che ci siamo comunque sempre capiti.
Niente da fare. Non vuole sentire ragioni. Comunque non importa, so che prima o
poi mi perdonerà anche questa cosa. Perché lo ha sempre fatto ogni volta. Io
non le dirò che mi perdona una cosa che non ho commesso. Le dirò che ha
ragione e che il suo perdono è per me la liberazione di un peso che stava
diventando sempre più insopportabile. Le chiederò scusa e lei mi darà un
altro piccolo bacio perché mi perdona ogni volta con un bacio. Del resto ci
restano ancora grandi cose da dirci. Ne sono sicuro. Faremo un po' di fatica
ma ci riusciremo lo stesso. E capiremo. Per ora mi accontento delle sue
meravigliose espressioni e dei suoi meravigliosi sorrisi. Mi accontento delle
nostre lunghe passeggiate. Mi accontento di pensare che quando camminiamo
sull'argine del fiume siamo, parafrasando le parole del grande maestro
latino, “sei zampe e una coda che
camminano insieme”. ... non potevo chiudere le “Nuvolette” senza sparare
una delle mie cazzate ... |
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